domenica 16 ottobre 2011

L’INVITO AL CONFORMISMO DIETRO I TEST PER LA SELEZIONE DEI PRESIDI

di Giorgio Israel

Sul “Messaggero” di ieri Giorgio Israel, dopo aver ricordato l’incredibile numero di errori e inesattezze presenti nei test di preselezione per il concorso a dirigente scolastico, ne evidenzia un altro e più inquietante aspetto. Nella formulazione tanto delle domande che delle risposte, e in particolare nell’individuazione della risposta “corretta” tra le 4 proposte, emerge con chiarezza una “pretesa di indottrinamento ideologico”, un “brutale invito al conformismo”, in altre parole un chiaro intento di omologazione degli aspiranti presidi a un pensiero unico ministeriale.
Da parte nostra aggiungiamo di avere ricevuto, tanto per cambiare, varie segnalazioni di gravi irregolarità nello svolgimento delle prove: candidati con i cellulari accesi, sforamento dei tempi di consegna, sorveglianti che fanno finta di nulla. Ma di questo, purtroppo, non è possibile stupirsi.


È necessario trarre un primo bilancio della selezione preliminare mediante test per il concorso a dirigente scolastico. Ricordiamo la pesante procedura escogitata: i candidati dovevano studiare una “batteria” di circa 5700 domande con 4 risposte, di cui una esatta; perciò memorizzare tra quasi 23.000 risposte quelle esatte per individuarle in 100 minuti tra le 100 domande sorteggiate per la prova.
Hanno fatto scalpore le sciatterie e gli errori madornali contenuti nella “batteria”, che hanno costretto il ministero a scartare un migliaio di domande. Tuttavia, si è parlato poco di altri aspetti ben più sconcertanti. In primo luogo, delle assurdità logiche e persino della comicità di certi quesiti. La risposta esatta alla domanda su come deve essere l’ambiente scolastico era: «pulito, accogliente e sicuro». Tra le risposte sbagliate v’era: «pulito, salubre, accogliente e sicuro». Questo perché l’aggettivo “salubre” non appare nella Carta dei servizi scolastici. Ogni commento è superfluo. Alla domanda su cosa caratterizzi una “valutazione oggettiva”, la risposta esatta era “pubblica e trasparente”. Di conseguenza, anche una valutazione arbitraria e magari folle è oggettiva purché enunciata in modo pubblico e trasparente. E si potrebbe continuare con esempi dello stesso tenore.
Ma nella “batteria” vi era di molto peggio: una quantità rilevante di domande concettuali per le quali nessuno ha il diritto di imporre la risposta “giusta”. Con che diritto si da una risposta univoca alla domanda: «quale definizione di cultura tra le seguenti è maggiormente condivisa all’interno delle scienze sociali»? Perché per diventare preside si deve aderire alla definizione ministeriale di comportamento prosociale o di subcultura? O credere che la «visione di sviluppo di un’istituzione scolastica» è «l’aspirazione verso un futuro immaginato, una descrizione vivida…» anziché «una dettagliata definizione di piani, progetti e azioni»? Perché deve essere obbligatorio essere cultore delle opere di uno psicologo specialista dei disturbi specifici di apprendimento?
Tutta la parte pedagogica è un trionfo del politicamente corretto, del costruttivismo più conformista, della pretesa che i presidi siano cloni che pensano tutti allo stesso modo, conoscono le stesse teorie e aderiscono alle verità ministeriali. Anche nelle 100 domande selezionate per la prova si è preteso che i candidati conoscessero la definizione della società dell’informazione di Manuel Castells, la “filosofia per bambini” di Matthew Lipman, la visione di Stuart Hall delle dinamiche di rapporto tra un testo e i suoi lettori, che dicessero che la coesione di un gruppo è resa possibile dalla consapevolezza che il conflitto è fisiologico, e dessero una certa definizione di processo decisionale. Poi, dovevano anche sapere che «per cambiare le dimensioni della carta su cui stampare un foglio di calcolo si deve [sic] modificare le dimensioni della carta dal layout di pagina»…
Ma l’aspetto farsesco non deve distrarre da quello più grave: la pretesa di indottrinamento ideologico, il brutale invito al conformismo: se vuoi diventare preside deve pensare come dettiamo noi, non hai il diritto di essere una persona intelligente e preparatissima che ha idee autonome circa il significato della cultura, non hai il diritto di non condividere (e persino ignorare) le teorie di Lipman, Stuart Hall, Castells o altre opinabili tesi di metodologia pedagogica. Diciamolo chiaramente: questa non è roba da paese democratico, questa è roba di stile sovietico o da Minculpop. Le stesse cucine ministeriali in cui vengono confezionati questi piatti ammoniscono quotidianamente che deve essere superata la lezione ex-cathedra, la didattica “impositiva”, che occorre passare dalla scuola dell’insegnamento alla scuola dell’apprendimento, e poi si riservano il potere di indottrinamento più impositivo ed ex-cathedra che si possa immaginare. Chi scrive ha sempre difeso la scuola statale, ma una simile inaudita esplosione di statalismo totalitario è il peggior servizio che si possa farle.
Non si può dire che il ministro Gelmini condivida concezioni stataliste e la stampa ha dato conto della sua reazione severa alla cattiva gestione della vicenda. Tuttavia, per chiudere la questione il ministero ha scelto uno stile coerente con quello di tutta l’operazione. Sono stati messi in rete i nomi dell’ottantina di “esperti” autori di domande e risposte. È un modo di procedere che sa di gogna e di scarico delle responsabilità. Difatti, è incredibile che tutti gli ottanta abbiano lo stesso grado di responsabilità, e ancor meno che tra di loro si sia prodotta per incanto una totale omogeneità ideologica. La questione non può essere chiusa così. Restano senza risposta le domande su chi abbia ideato una simile procedura, chi e come l’abbia gestita e ne abbia condotto le varie fasi, chi debba rendere conto dell’accaduto. Sarebbe inaccettabile che, mentre si parla da mane a sera di valutazione e di premiare il merito, mentre si vuol giudicare l’attitudine gestionale dei futuri presidi, l’accountability valga soltanto per loro, mentre i progettisti di una siffatta miscela di incompetenza e di prepotenza ideologica non debbano rispondere del loro operato.
(Il Messaggero, 15 ottobre 2011)

lunedì 10 ottobre 2011

ELENA E GLI ALTRI

Sul "Corriere Fiorentino" di ieri è apparsa una bella intervista ad una giovane studentessa che aveva sfilato in testa al corteo studentesco di sabato a Firenze. Nelle sue risposte la ragazza esprime alcune riflessioni insieme alla contrarietà alle occupazioni come metodo, analogamente a molti miei studenti quando ho presentato loro la lettera di noi 18 presidi.
Anch’io, come Elena e i miei studenti, esprimo il mio “dissenso a questa Italia, che non ci piace e che non crede nella generazione futura” e confermo che io e i miei colleghi abbiamo preso quell’iniziativa perché pensiamo invece al loro futuro e facciamo di tutto affinché sia diverso rispetto a quello che gli si prospetta. Tuttavia i giovani, e in particolar modo i giovanissimi che sembrano essere anche stavolta i protagonisti della protesta, devono essere consapevoli che anche il nostro futuro, quello di chi come me lo ha già in gran parte vissuto, non è stato roseo, come invece alcuni nostalgici vorrebbero loro far credere, e che dietro il mito del ’68 vi sono tragedie e ferite ancora lontane dall’essere cancellate e sanate. Forse, roseo, lo è stato per quelli che, grazie all’appartenenza a caste familistiche e politiche, hanno avuto la strada spianata per sistemarsi per tutta la vita, magari permettendosi poi di darci anche lezioni di carattere morale. Ma per molti della mia generazione la vita non è stata sempre facile, e se in parte abbiamo migliorato le nostre condizioni, soprattutto culturali, di partenza,è perché abbiamo avuto anche la fortuna di incontrare insegnanti che non hanno assecondato i nostri errori. Noi, come presidi, ci siamo preoccupati di ricordare agli studenti che l’interesse e l’impegno per la politica è basilare per la loro formazione. Far passare come impegno le occupazioni delle scuole ci è sembrato alla fine inaccettabile. Vedere ogni anno, da almeno oltre un decennio, le scuole diventate a volte bivacchi, piccole discoteche, persino orinatoi, con muri pieni di frasi fatte, ci è sembrato indecoroso anche per il loro futuro; e non ci sentiamo di fare finta di nulla. Continuiamo, invece, a credere, che dalla scuola debba passare il rispetto per le regole e vi si insegni il valore del merito, perché anche nel futuro dei ragazzi di oggi non continuino a vincere i soliti raccomandati o chi ha la fortuna di far già parte del “giro”.
Insieme ad Elena, anche molti altri studenti hanno ragioni da vendere quando criticano i mali della scuola, che sono da decenni sotto gli occhi di tutti e le cui conseguenze le pagano principalmente proprio i ragazzi. Ma finalmente Elena, insieme ad altri numerosi suoi coetanei, sembra avvertire che la protesta migliore non passa più dalle occupazioni. Forse, da parte degli studenti, si sta prendendo consapevolezza che la situazione è talmente seria da richiedere un impegno nuovo, che sia costruttivo, propositivo e soprattutto dimostri di non durare lo spazio di una settimana, esaurendosi poi, dopo le occupazioni, nel trito rientro a scuola, con la mestizia dei ragazzini che sanno di averla combinata grossa e col rischio di essersi bruciati per sempre l’esperienza della politica.

Valerio Vagnoli

mercoledì 5 ottobre 2011

UN'ALTRA RISPOSTA A CACCIARI, CAPANNA & LODOLI

Su "Left" del 30 settembre scorso Giuseppe Benedetti commenta efficacemente le prese di posizione di Capanna, Cacciari e Lodoli sulla lettera aperta di 18 prèsidi intitolata Cari studenti, la scuola pubblica non si difende con le occupazioni; nella quale, conclude, "si possono trovare le ragioni di una ritrovata fiducia per l'agire politico, a cominciare dall'adesione appassionata al proprio lavoro quotidiano"[1]. Leggi.

[1] Benedetti insegna al Liceo "Tasso" di Roma e sul settimanale "Left" tiene da due anni una rubrica settimanale sulla scuola. È autore, insieme a Luca Serianni, del volume Scritti sui banchi. L’italiano a scuola tra alunni e insegnanti.

lunedì 3 ottobre 2011

GLI STUDENTI E LA RESISTENZA. DEI PRESIDI

Sul "Corriere fiorentino" di sabato scorso, il direttore Paolo Ermini è ha commentato la replica di un gruppo di studenti alla lettera aperta dei 18 prèsidi sulle occupazioni.

Nei suoi «Quaderni» ieri Antonella Landi ha elogiato gli studenti del Collettivo di Pontedera che hanno inviato via stampa una dura risposta ai 18 presidi do­po l'appello contro le occupazioni in cambio di spazi di mobilitazio­ne e discussione den­tro gli istituti. La no­stra «Profe» non ha avallato il contenuto del documento, ma ne ha apprezzato lo spiri­to battagliero, la deter­minazione nel tener testa agli adulti, la capacità di stilare un di­scorso filato per farsi le proprie ragioni. Confesso che su di me quella specie di libello ha esercita­to un fascino assai minore. Il do­cumento è un condensato del­l'ideologismo d'altri tempi e del conformismo che attanaglia i gior­ni nostri, senza distinzioni anagrafiche (e spesso anche politiche). Era ben scritto? Non basta. Le parole non sono mai belle di per sé. A volte possono colpire, ele­gantemente, come se fossero pie­tre. Dove eravate voi mentre distruggevano la scuola italiana? chie­dono retoricamente gli studenti. Credo che i presidi fossero a fare esattamente quello che in questi anni, anche prima della Gelmini, hanno fatto anche tanti insegnanti: resistere come poteva­no alla progressiva dequalificazio­ne dell'istruzione (e del loro ruolo sociale), cercando di salvare la di­gnità della scuola pubblica. Con una passione superiore a riconoscimenti e stipendi. E non per qualche settimana, come le occu­pazioni prenatalizie, ma giorno dopo giorno. Quanto al paragone con i presidi che nel 1938 subiro­no la vergogna delle leggi razziali, a quei ragazzi va ricordato che sì, tanti italiani subirono allora per paura quella vergogna, magari ar­rovellandosi nella crisi delle loro coscienze, ma non erano peggiori di tanti intrepidi che cambiarono casacca in extremis, come niente fosse. Senza dimenticare che il re­gime di Mussolini si reggeva sui manganelli degli squadristi, men­tre questa Italia della «mignottocrazia», come loro la chiamano (e che anche a noi non piace per nul­la), sta in piedi grazie al libero vo­to degli italiani. C'è una bella dif­ferenza.

La lettera degli studenti di Pontedera.