Un paio di settimane fa il
“Corriere della Sera” pubblicava un editoriale di Ernesto Galli Della Loggia, Un paese che non sa discutere.
L’Italia, diceva, è caratterizzata da “un vasto brodo di cultura che, seppure
involontariamente, nutre di continuo gli slogan più esasperati alimentando ogni
giorno questa cieca irragionevolezza, questo pensare in bianco e nero”. Spiace
constatare che non di rado tutto questo
vale anche per il dibattito sui problemi della scuola. Ci sono stati perfino
casi in cui gruppetti di docenti hanno impedito di parlare a esponenti
politici; episodi sporadici e minoritari, ma non sempre adeguatamente
stigmatizzati dai sindacati più rappresentativi. Non manca certo, anche su questo blog, chi si esprime all’altezza del proprio ruolo
anche nel motivare il più severo dissenso. Ma se si pensa che gli insegnanti
dovrebbero dare esempio di pensiero critico ai loro allievi, c’è a volte da trasecolare.
Peraltro temo che l’espressione “pensiero critico” (o in alternativa “spirito
critico”) venga intesa da molti come sinonimo di “criticare” sempre e comunque,
col che ogni bastian contrario diventerebbe per ciò stesso un modello da
seguire. Ma pensare criticamente è, com’è ovvio, qualcosa che ha a che fare con
la riflessione, la revisione delle proprie idee, le lezioni dell’esperienza, la
considerazione di altri punti di vista. Comunque lo si voglia definire, non è
certo un talento innato, ma una vera e propria conquista. Si nasce egocentrici e, a
dispetto della migliore educazione e del più perseverante esercizio, un po’ lo
si rimane per forza. Abbiamo tutti un gran bisogno di avere ragione, di non provare
lo smacco di soccombere in quel gioco a somma zero che chiamiamo discussione.
Se non ne siamo abbastanza consapevoli, sappiamo bene cosa può succedere: un
“crescendo” emotivo che sfocia spesso nella caricatura di quello che l'altro ha veramente detto, nel sarcasmo e nell’insulto. Tutti poi sperimentiamo,
in noi stessi e nei nostri interlocutori, la difficoltà di ascoltare sul serio.
Tempo fa mi è capitato di prendere parte a una riunione in cui uno dei
partecipanti tentava di rispondere a una critica. L’interlocutrice, però, non
riusciva a starlo a sentire e continuava a interromperlo dopo le prime parole. Lui
ha cercato più volte di andare avanti, anche alzando la voce, fino a che lei è
sbottata: “È inutile, tanto lo so cosa vuoi dire!”. Eppure, saper ascoltare,
aspettare il proprio turno, sorvegliare le proprie emozioni con un pizzico di
distacco può farci ritrovare, per dirla ancora con Galli Della Loggia, “il
gusto e il piacere per la discussione, per una discussione vera tra opinioni
diverse che interloquiscono tra loro nel mutuo rispetto”. In questa direzione
il mondo della scuola può dare un importante contributo di serietà e di rigore
democratico, non solo nelle aule a contatto con le nuove generazioni, ma anche
nel vivo del dibattito pubblico.
Giorgio Ragazzini