È proprio di ieri la notizia che il Ministero della pubblica
istruzione toglierà di mezzo i voti alle elementari e alle medie, sostituendoli
(grande novità) con le lettere, e che verranno resi più facili gli esami finali
di terza media e di maturità. Sarà inoltre vietato bocciare nella primaria e
reso eccezionalissimo alle medie. La notizia girava da tempo tra gli addetti ai
lavori, a conferma che ad ogni cambio di governo nella scuola si deve sempre
cambiare qualcosa nel senso di scoraggiare la serietà. Certi mutamenti vengono
anche da lontano, da certo egualitarismo sessantottino, che da noi, al
contrario di altri Paesi, è eterno e sempre verde.
Questa ideologia è
ben sintetizzata in un articolo apparso a firma di Giuseppe Caliceti sul “Manifesto”
di ieri e nel quale l'autore, sotto forma di dialogo con la propria figlia, si
lascia andare a una inesorabile requisitoria contro il merito, visto come
trionfo dell'ingiustizia perché privilegio delle classi sociali più
avvantaggiate e perché coltivare il merito a scuola significherebbe addirittura
riconoscersi in una visione della società simile a quella nazista e fascista.
Per questo giornalista-insegnante, il concetto di merito si traduce sempre in
quello di meritocrazia in senso negativo, che per lui ha sempre “la funzione
principale e strategica di stroncare sul nascere ogni tipo di naturale invidia
e rivincita sociale...”. Ove l'invidia per Caliceti è naturalmente “un'aspirazione
sana e naturale” come, mi verrebbe da dire, ci insegnavano certi film muti
sovietici degli anni Venti del secolo scorso.
Purtroppo da decenni
la parola merito trova sempre minor considerazione proprio nel luogo deputato a
farlo trionfare: la scuola, appunto. Svillaneggiato e ritenuto diseducativo, per
non dire demonizzato, sta facendo proprio per questo sprofondare, non solo nei
test invalsi, il ruolo essenziale della nostra scuola. Che non è più quello
degli anni cinquanta e sessanta che era
finalizzato a creare e a selezionare una classe dirigente destinata a
perpetuarsi poiché i capaci e i meritevoli di famiglie povere erano tutelati
solo a parole in qualche principio della nostra Costituzione ben lontano
dall’essere attuato: se volevano studiare, per loro non c'era che il seminario
o qualche triste collegio. Da quando la scuola si è finalmente aperta a classi
sociali fino ad allora escluse e destinate a replicare la loro bassa condizione
economica e culturale, si è innestato una sorta di cancro pedagogico che
bandisce istanze come merito e responsabilità, senza peraltro curarsi troppo
della qualità culturale della scuola; e finisce proprio per privilegiare la
trasmissione dei poteri, delle professioni, delle cadreghe a livello
familistico, nel senso mafioso del termine. Mai come in questi anni a scuola è
stata così timida nel mettere i suoi studenti in condizione di trarre fuori il
meglio di loro stessi, delle loro attese, delle loro curiosità e delle loro
vocazioni. Inoltre, davvero non c’è nessuna differenza tra chi fa il proprio
dovere e chi no, tra chi studia e chi non lo fa, tra chi copia e chi imbroglia,
tra chi rispetta i compagni e chi fa il bullo? Ora che la gran parte dei nostri
ragazzi, per fortuna, potrebbe veramente aspirare a una mobilità sociale e
culturale un tempo impossibile, mettere al bando il merito, l'impegno e la
serietà negli studi serve invece a garantire il trionfo dei più furbi, dei più
potenti e infine proprio dei privilegiati. (“Corriere Fiorentino, 21 settembre
2016)
Valerio Vagnoli