Comincio con una
riflessione di George Bernard Shaw: “Se io e te abbiamo una
mela ciascuno e ce le scambiamo, abbiamo sempre una mela ciascuno; ma se ognuno
di noi ha un’idea e ce le scambiamo, allora abbiamo due idee ciascuno”. Mettiamola insieme al titolo del mio intervento
e abbiamo una buona sintesi della tesi che voglio sostenere.
Infatti una
caratteristica poco sottolineata della scuola italiana è
l’estrema scarsità delle occasioni di
confronto e di scambio di idee tra insegnanti, soprattutto nel livello
secondario, di primo e di secondo grado. Questo ha impedito di mettere in
circolazione esperienze, metodi, risultati che quasi sempre rimangono confinati
nella testa dei singoli docenti. Negli scorsi decenni la forma quasi esclusiva
di aggiornamento è stata di tipo verticale, basata cioè su una relazione tra
chi sa (l’esperto) e chi non sa. Ovviamente è una delle modalità necessarie, se
porta davvero il contributo di conoscenza che può venire da persone di grande
preparazione nel loro settore. Quando però diventa l’unica modalità e a questo
si aggiunge: che l’argomento viene imposto dal ministero e non interessa alla
gran parte di quelli che ascoltano; che si fa capire più o meno apertamente che
bisognerebbe fare tabula rasa del
modo di lavorare fin qui adottato; che infine si capisce che il relatore non ha
la minima idea di quello che succede nella realtà delle classi e procede per
belle astrazioni, quale può essere l’utilità per chi insegna, quale il suo
grado di frustrazione?
È
invece proprio tipico delle professioni l’utilizzo frequente del metodo seminariale per accrescere la
propria preparazione, affrontare problemi, confrontarsi. Avvocati, medici,
ingegneri, economisti organizzano seminari
sui più vari argomenti. “Seminario” è un termine che ha varie accezioni, che
ruotano tutte ruotano intorno all’idea di semina, di vivaio... Ma il
significato che qui ci interessa è lo scambio
di idee tra pari, una relazione quindi orizzontale, tra esperti. E l’esperto è appunto chi ha
“esperienza” di qualcosa.
Sappiamo
bene che l’esperienza concreta, quotidiana, di un insegnante è fatta di decine
e decine di particolari, su ciascuno dei quali si può lavorare insieme per
raffinarli, perfezionarli. Ci si può confrontare su temi e problemi trasversali
alle discipline, come il piano relazionale con gli allievi, il loro
comportamento, il rapporto con i genitori (per esempio come condurre il
colloquio scuola-famiglia); oppure sui contenuti e i metodi propri di una
materia. Si può prendere l’avvio da una lettura fatta da tutti i partecipanti,
dalla relazione di un collega che ha studiato un argomento, dalla correzione in
comune del compito in classe di un allievo.
Il
principale vantaggio del metodo seminariale è quello di sentirsi finalmente professionisti
in grado di arricchirsi a vicenda, anche interrogandosi l’un l’altro,
condividendo risultati e difficoltà. L’ho sperimentato di persona, insieme a
numerosi colleghi, organizzando un certo numero di incontri di questo genere. Possono
essere coinvolti anche insegnanti di altre scuole o di diversi gradi di
istruzione. Ed è infine proprio da un confronto fra colleghi che può scaturire l’esigenza
di incontrare uno specialista di un argomento da approfondire.
Ho
accennato all’inizio al fatto che la mancata condivisione e collaborazione, a
quanto mi consta, è più una caratteristica delle superiori e anche delle medie.
So che nella scuola dell’infanzia e nella primaria in genere si progetta e si
programma abbastanza regolarmente. Una cosa però è riunirsi in vista (e a volte
per l’urgenza) di un accordo sul lavoro da fare, un’altra avere la possibilità
di uno scambio di idee “disinteressato”, o meglio non immediatamente
finalizzato al lavoro in classe.
Nel
documento iniziale della “Buona scuola”, quello di 136 pagine del settembre
2014, a proposito dell’aggiornamento avevamo apprezzato come Gruppo di Firenze
alcuni segni di resipiscenza, anzi a tratti di una critica o autocritica piuttosto
severa del modo in cui era stato in genere
dispensato l’aggiornamento. Si parlava di occasioni formative “troppo spesso
frontali, poco efficaci e in genere non partecipate”, dove è mancato quasi
sempre “un confronto interattivo”. Si sarebbe dovuta favorire la definizione a
livello di ciascuna scuola dei programmi formativi, senza più calarli
dall’alto. Vanno superati, si aggiungeva, gli “approcci formativi a base
teorica” e valorizzata la “forma esperienziale tra colleghi”. Asserzioni non
molto lontane da quanto ho appena detto.
Nel “Piano per la formazione dei
docenti” presentato nel 2016 dalla ministra Giannini, di “sole” 88 pagine, che
eufemisticamente si possono definire “non tutte essenziali”, si dice che i
programmi di aggiornamento a livello di istituto dovranno basarsi sulle
esigenze formative espresse dai singoli; ma, se non mi è sfuggito qualcosa
(perché non essendo una lettura avvincente confesso che alcune parti le ho
scorse) non ci sono altre aperture verso quello che, con un’espressione in voga
qualche anno fa, si potrebbe definire il “giacimento culturale”, in gran parte,
come abbiamo detto, non sfruttato.
Insomma,
non può esistere una didattica di Stato,
o, con terminologia più moderata, una
metodologia imposta dall’alto; e alle ragioni di principio si aggiunge una solida
motivazione di tipo psicologico, perché il modo in cui si insegna ha a
che fare anche con la personalità del docente, con i suoi talenti e i suoi
limiti, compreso il suo stile relazionale. In parole povere, è normale che sia
più bravo o brava con un approccio piuttosto che con un altro, che gli riesca
meglio e faccia fare con più piacere il lavoro di gruppo, l’apprendimento
cooperativo o magari la recente “classe capovolta”. Di fronte a nuove proposte
didattiche deve essere libero di accettarle, respingerle, adattarle alle
situazioni, modificarle secondo un unico criterio: quello di sentirsene
potenziato.
È
invece diffusa fra i dirigenti ministeriali e di riflesso tra i ministri (che
in genere di scuola sanno poco o nulla) una tendenza dirigista a fare in modo
che si adottino le linee metodologiche che si ritengono corrette: ora la
didattica per obbiettivi, poi il portfolio delle competenze, eccetera. L’idea
di fondo, che io chiamo “illusione procedurale”, è che questo si possa ottenere facendo riempire schede, tabelle, relazioni, progetti,
eccetera; o che cambi qualcosa in meglio sostituendo i voti con dei giudizi.
L’anno
scorso, quando fu resa pubblica la bozza del decreto sulla valutazione, quello
che voleva reintrodurre le lettere nella valutazione oltre a escludere
totalmente la possibilità di far ripetere l’anno alle elementari, fummo
cortesemente invitati a un incontro in Senato. L’esponente della maggioranza
che aveva un ruolo in questa materia ci disse papale papale che il decreto
serviva “a costringere gli insegnanti a modificare la didattica”. E noi
ovviamente rispondemmo: “Guardi che non funziona; dover fare cose di cui non si
è convinti non fa che demotivare invece che aiutare un insegnante”.
Allora,
invece di pensare che si debba buttare via tutto per adeguarsi al nuovo che
avanza, la giusta strada è quella di fare in modo di avere più frecce al
proprio arco, più risorse per essere più efficaci. In altre parole è bene che
ogni docente conosca e nei limiti del possibile sperimenti vari approcci
didattici, magari tramite forme di aggiornamento esperienziale, e all’interno
di questa varietà adotti quelle più utili a seconda delle situazioni e delle
proprie attitudini, ma anche per evitare una possibile monotonia
nell’insegnamento. Per questo motivo io più che di innovazione della didattica, che implica qualcosa di vecchio da
abbandonare, preferirei parlare di arricchimento
della didattica.
Purtroppo
nel mondo della scuola è facile sentir fare la caricatura di un metodo per
sostenere l’adozione di altri. Di recente c’è stato a Rimini un grande convegno
organizzato dalla casa editrice Erikson. In uno dei moltissimi incontri una
docente ha esclamato sarcasticamente: “Come godiamo noi insegnanti quando
sentiamo ripetere parola per parola quello che abbiamo detto!” E fra i
materiali che si trovavano nel sito del convegno, c’era anche la presentazione
del metodo della “classe rovesciata”, che prevede una lezione registrata da
ascoltare a casa e il giorno dopo un approfondimento in classe sull’argomento.
Per far capire di che si tratta, si istituiva il confronto tra questo metodo e
la lezione frontale, presentata con un’animazione come una situazione in cui,
mentre il docente parla alla lavagna, c’è un allievo che scarabocchia, un altro
che si distrare, eccetera. Del resto la lezione cosiddetta frontale è diventata
negli ultimi anni il bersaglio polemico preferito di molti “innovatori”,
soprattutto in quanto responsabile di un’impostazione “trasmissiva”
dell’insegnamento. Nessuno però dice mai che una lezione di quel tipo può
essere – come tutti sanno benissimo – noiosa o affascinante, ben impostata o
confusa, utile o inutile; e che anche sulla lezione frontale ci si può
aggiornare per essere più coinvolgenti. Per esempio, la capacità di parlare in
pubblico (e la classe è indubbiamente anche un pubblico) è ormai considerata
una risorsa indispensabile in numerose professioni e comprende anche una buona
dizione, utilissima per chi deve leggere testi ai suoi allievi. In conclusione,
non esiste metodo che possa funzionare in mano a un docente svogliato o impreparato:
il “fattore umano” resta fondamentale.
Per
fortuna il diritto di scegliere il metodo più adatto è garantito dalle leggi e
in primo luogo dalla Costituzione: “L'arte e la scienza sono libere e libero ne
è l'insegnamento”. Sulla scia dell’articolo 33, il testo unico delle leggi
sull’istruzione, del 1994, stabilisce che ai docenti è garantita la libertà di insegnamento intesa come autonomia didattica e come libera espressione culturale del docente.
Per la legge 15 marzo 1997,“L'autonomia didattica
[delle scuole] si sostanzia nella scelta libera e programmata di metodologie,
strumenti, organizzazione e tempi di insegnamento, da adottare nel rispetto della possibile pluralità di
opzioni metodologiche”.
Infine
il Dpr 275/1999, noto anche come Regolamento dell’Autonomia, afferma:
“Il Piano dell'offerta formativa [...] comprende e riconosce le diverse opzioni
metodologiche, anche di gruppi minoritari, e valorizza le corrispondenti
professionalità”.
Avviandoci
alla conclusione, chiediamoci come mai è così diffusa nella scuola
l’insofferenza per le riunioni. La risposta è molto semplice: quasi nessuno
pensa che anche una riunione abbia bisogno di alcune regole per funzionare. Di
qui confusione, inconcludenza, fatica, perdite di tempo. L’organizzazione e la
conduzione di un seminario, così come di qualsiasi tipo di riunione, sono i due
aspetti da curare per la sua riuscita. Fa parte del primo aspetto una preparazione accurata: orari, tempi, spazi, materiali
necessari, numero dei partecipanti sono tutti punti da decidere prima, pur
concedendo qualche spazio alla necessaria flessibilità. Altrettanto importante è il modo in cui si guida una riunione, una responsabilità che secondo la mia esperienza non
molti gradiscono assumere per timidezza o per timore di non essere adeguati, ma
forse anche perché in Italia un po’ in tutti i campi il far rispettare le norme
e le procedure viene associato facilmente all’autoritarismo e quindi
all’impopolarità. Invece è un servizio importante ai colleghi. Con un po’ di
garbata fermezza non solo si garantisce la produttività della riunione, ma
anche la sua piacevolezza. C’è sicuramente una notevole soddisfazione, anche estetica,
nella partecipazione a una riunione ben regolata, con i suoi ritmi, con
l’attenzione che si riserva a tutti, con il rispetto dei tempi e la capacità di
ascoltare in modo attivo. S’intende che i partecipanti devono essere motivati e
deve essere diffusa una cultura della responsabilità da parte di tutti:
conduttori e partecipanti. Molto si impara con l’esperienza e/o con un aggiornamento
esperienziale mirato. Esistono diverse pubblicazioni sull’argomento e anche in
rete si trovano parecchie indicazioni.
Mi
auguro, concludendo, che molti colleghi rivalutino l’importanza di essere
protagonisti del proprio aggiornamento professionale e rivendichino questa
esigenza all’interno del proprio istituto.
Giorgio Ragazzini
Leggo questa pagina ed essa legge me. Bello trovare la voce delle proprie inquietudini sempre più faticosamente (e ingiustamente) celate. Grazie.
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