“Dobbiamo dire con chiarezza cosa
ci aspettiamo dal corpo docente in termini di conoscenze, competenze, approcci didattici e pedagogici, per
assicurare uniformità degli standard su tutto il territorio nazionale e
garantire uno sviluppo uniforme della professione docente”(cap. 2.1, Quali competenze per i nostri docenti).
Un’affermazione, quella sugli
“approcci didattici e pedagogici”, che suona inquietante per chi ritiene
essenziale la libertà metodologica, tanto più che la pretesa di decidere come
tutti dovrebbero insegnare non è purtroppo nuova nei discorsi di pedagogisti e
dirigenti ministeriali; anzi, si è via via reincarnata in molteplici “buone novelle” destinate a “modernizzare” la
scuola: la programmazione maniacale degli obbiettivi didattici, il morattiano “portfolio
delle competenze” (presto abbandonato al suo destino), l’orientamento come
chiave di volta di tutta la didattica, l’idolatria per l’informatica, l’abbandono
dell’insegnamento a favore della facilitazione dell’apprendimento, per citarne solo
alcune. Ma è proprio la libertà nella didattica la sola garanzia che ogni
insegnante dia il meglio di sé, in quanto può scegliere l’approccio migliore a
seconda dell’argomento e della classe che ha davanti, che sia però anche in
armonia con le sue attitudini e il suo temperamento. In altre parole, se può
insegnare nel modo che più gli si confà. Senza dubbio è essenziale conoscere diversi metodi, per averli studiati e soprattutto
sperimentati durante la propria formazione iniziale e, in seguito, attraverso
il confronto con i propri colleghi; altra cosa sarebbe l’imposizione di una
didattica ministeriale. Quindi, “uniformità degli standard su tutto il
territorio nazionale ” non può voler dire che si punta a un corpo insegnante
fatto con lo stampino, ma garantire a tutti gli studenti degli insegnanti
adeguati, anche se differenti per lo stile didattico. Cosa che oggi non è,
essendo universalmente noto che ci dobbiamo tenere anche quelli pessimi (e
spesso, aggiungiamo, irrecuperabili). E su questo “La Buona Scuola”, che molto
parla di merito, non dice nulla.
Possiamo però concedere il
beneficio del dubbio a Renzi&Giannini, dato che questa affermazione
dirigista, tendente all’omologazione dei docenti, convive nelle stesse pagine con
una linea di pensiero che riguarda l’aggiornamento e che sembra contraddirla. C’è
una critica molto netta delle occasioni formative che vengono in genere
proposte ai docenti, “troppo spesso frontali, poco efficaci e in genere non
partecipate”, in cui raramente si incoraggia “un confronto interattivo”. La formazione continua, inoltre, “non potrà
essere calata dall’alto, ma dovrà essere definita a livello di Istituto.
Inoltre dovrà fondarsi sul superamento di approcci formativi a base teorica” ma
essere incentrata “sulla forma esperienziale tra colleghi”. Asserzioni non molto
lontane da quanto abbiamo sostenuto in più occasioni: la base
dell’aggiornamento (senza escludere altre forme e apporti) deve essere il
confronto di idee e di esperienze tra colleghi con il metodo seminariale, cioè
tra pari, e nascere dalle loro reali
esigenze. I metodi si devono affermare perché si rivelano efficaci, non perché
vengono imposti. A queste condizioni, l’impegno etico-deontologico di
aggiornarsi potrà essere percepito più come occasione per crescere (e far
crescere) professionalmente e ricavare anche maggiore soddisfazione dal proprio
lavoro, che come un obbligo a cui sottoporsi obtorto collo. In altre parole, se aggiornarsi è un dovere
(per tutte le professioni), il problema non è il “se”, ma il “come”.
L’ambiguità delle linee-guida su questo
delicatissimo punto dovrà essere sciolta. È interesse dei docenti far sentire
la propria voce perché la ricchezza costituita dalla compresenza di diversi
metodi e stili di insegnamento venga tutelata e non compressa in qualche forma
di ortodossia.
Chissà, magari quando si esprimeranno in un italiano meno orrendo crederemo a quello che dicono ...
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