Non siamo proprio
tifosi della legge 107 nel suo complesso, ma negare che sia un
notevole passo avanti l'attenzione al rapporto tra scuola e lavoro
sarebbe paradossale. Abbiamo dedicato decine di articoli su questo
blog alla formazione professionale e preso numerose iniziative con lo
scopo di valorizzarla; e lo ricorda anche il post precedente. Non si
tratta certo di sminuire il valore della cultura “disinteressata”,
cioè non tesa a un'immediata applicazione, ma di difendere il valore culturale del lavoro e della formazione al lavoro. Anche chi da
ragazzo ha fatto esperienza dei famosi “lavoretti” estivi può
senz'altro testimoniare quanto alla soddisfazione per i primi
guadagni si aggiungesse la sensazione di una crescita sul piano
umano. Va poi sottolineata ancora una volta la funzione motivazionale nei confronti delle materie “culturali” che per molti
ragazzi rivestono le discipline professionalizzanti svolte con
soddisfazione nei laboratori. Lo testimonia la lettera che
pubblichiamo, indirizzata da un docente di lettere in un istituto
professionale a Umberto Galimberti, filosofo,
psicologo e collaboratore de “La Repubblica” e del suo
supplemento “D – La Repubblica delle donne”. Il quale in questo caso dà l'impressione di trattare un problema che conosce in modo superficiale.
Egregio professor
Galimberti,
leggo ogni settimana la
sua pagina sul supplemento del sabato di Repubblica, trovandovi ogni
volta occasioni stimolanti e originali per riflettere sulla nostra
vita e sul nostro tempo. Sono rimasto perciò molto deluso dalla
monoliticità della sua risposta al lettore Giuseppe Cappello (sabato
13 febbraio) in merito all'alternanza scuola-lavoro.
Come non essere d'accordo
sul fatto che la scuola abbia il compito primario di formare lo
spessore culturale e il senso critico degli studenti? Ma perché
vedere una contraddizione fra l'obbiettivo di preparare al lavoro e
quello di formare l'uomo con l'attenzione rivolta alla sua
intelligenza? Non è intelligenza anche quella rivolta al fare? Lo
sviluppo del senso critico non passa anche attraverso la formazione
accurata a una professione, purché vissuta con intelligenza e
passione, con la consapevolezza delle sue implicazioni etiche e
sociali, comprendendo che lavorare bene è un modo per far star bene
gli altri, anzi per star bene con gli altri, che forse è il senso
ultimo della vita sociale?
Entro nel merito in base
alla mia esperienza personale. Insegno da dieci anni, con entusiasmo
e passione, poco scalfiti dalla scarsa considerazione sociale della
professione di insegnante, Italiano e Storia in un istituto
alberghiero di Firenze. Molti miei colleghi penserebbero al mio come
a un ruolo di serie B, in una scuola poco interessata alle discipline
umanistiche e rivolta a ragazzi “non portati per lo studio” (lo
metto fra virgolette perché è la dizione ancora usata in sciagurati
documenti di orientamento da insegnanti delle medie). Le assicuro che
non è affatto così. È
chiaro che ogni anno faccio un numero minore di canti della Commedia
rispetto ai miei colleghi del liceo, che salto autori (Tasso e
Carducci, per esempio) che in altri tipi di scuole si considera
necessario studiare. Però accompagno, con la specificità delle mie
conoscenze e, soprattutto, con amore per il sapere umanistico,
percorsi di crescita personale, professionale e sociale di ragazzi
talvolta appassionati, talvolta distratti, che magari hanno ricevuto
più che altro bastonate da famiglia e scuola, ma che trovano nella
passione per le professioni di cuoco o di maître
un senso per la loro vita e la base della “capacità di avvertire,
anche senza mediazioni intellettuali, la differenza tra il bene e il
male, tra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto” (cito
lei). Per tutti è così? Certo che no. Alcuni li perdiamo per
strada, altri li troviamo incerti e così li lasciamo, ma mi creda,
non licenziamo servi pronti solo a ubbidire e a subire il dominio del
mondo della tecnica. O vogliamo pensare, con nostalgia gentiliana
fuori tempo, che la scuola possa formare cittadini consapevoli solo
nel liceo classico, quindi rivolgendosi inevitabilmente a una
ristretta élite?
Mio figlio ha fatto anni
fa il liceo classico. Oggi cercherei di scoraggiarlo: ha studiato
latino e greco, nonché filosofia, materie che non studiano
specificatamente i miei studenti, anche se la filosofia entra,
inevitabilmente, nelle mie lezioni. Ebbene, almeno dalle prime due,
non ha ricavato affatto solidità culturale e senso critico, ma le ha
vissute come un necessario pedaggio per il percorso di studi da lui
scelto, senza nemmeno avvicinarsi al loro impiego per l'apprezzamento
diretto e profondo dei classici. Basti dire che la sua insegnante di
greco e latino si trovò un 24 aprile di molti anni fa a dare compiti
per il giorno dopo, cadendo dal pero quando gli studenti le fecero
notare che sarebbe stato festa.
Potrei continuare a
lungo, ma non voglio rubarle altro tempo. Ci tenevo però a
rappresentarle le considerazioni in me suscitate dal suo articolo,
dato che la considero uno degli intellettuali italiani più
stimolanti e liberi in circolazione.
Se non oso troppo, mi
lasci dire che sarebbe un piacere continuare la discussione. Perché
non nella mia scuola dove toccherebbe con mano (e sarebbe un onore
farle assaggiare a tavola) quello che ho maldestramente cercato di
spiegare?
Con profonda stima e
molti ringraziamenti per l'attenzione.
Andrea Burzi
Guardi, è in buona compagnia. Molti scoraggiano i figli a fare il classico. Così non succede quello che succedeva anni fa in un quartiere proletarissimo di disastrata città con un ottimo liceo classico: figli di operai e casalinghe diventati ingegneri e fisici, un architetto di prima grandezza, un astronauta (!), politici ed economisti.
RispondiEliminaMeglio destinarci a competere con i cinesi: tremila anni di cultura europea e mediterranea ? No, grazie.
Bravo, lei è in sintonia con il potere, un vero vincente, un vero democratico antielitarista.
Anonimo, oggi le cose non vanno come lei scrive. Molti proletari licealizzati pagano duramente la mancanza di un cognome influente o ben piazzato tra i clientes pluridecorati per la loro piaggeria.
RispondiEliminaTanti licei non producono ingegneri, fisici e architetti, ma solo disoccupati.
RispondiEliminaTanti genitori non mandano i loro figli nei tecnici e nei professionali perchè covo della peggior specie di bulli e nullafacenti accompagnati da insegnanti e Ds che non fanno rispettare la disciplina (e, inoltre, promuovono tutti senza merito) per paura di perdere alunni e quindi "finanziamenti".
Anonimo, se prima di passare all'invettiva avesse seguito la mia argomentazione e fosse entrato nel merito, avremmo avuto qualche possibilità di capirci.
RispondiEliminaNon penso nemmeno lontanamente che non sia importante perseguire una solida formazione umanistica per chi vi è portato e ne ha la passione.
Ho invece confutato l'idea che una formazione professionale di qualità (che purtroppo non dà in tutti i nostri istituti professionali) non possa avere un grande valore formativo ed etico, idea che Galimberti non considera nel suo articolo, a mio parere sbagliando.
È altrettanto lontana anni luce da me l'idea che millenni di storia della cultura occidentale siano da buttar via: penso esattamente il contrario, ha presente il fatto che uno dei momenti più alti di tale cultura è stato l'Umanesimo/Rinascimento, quando l'integrazione fra pensiero ed azione è stata massima (pensi a Leonardo da Vinci)?
Quanto alla funzione di mobilità sociale dell'attuale liceo classico, in mancanza di dati statistici, secondo la mie conoscenze, è un mito nostalgico.
Per Paolo: le assicuro che quanto dice sui professionali non riguarda l'Istituto Saffi.
RispondiEliminaNe sono contento G.R., ma la situazione nazionale, statisticamente, si trova nelle condizioni da me enunciate in modo sintetico nelle mie frasi di sopra.
RispondiEliminaQuindi non meravigliamoci del fatto che tante famiglie si rivolgano ai licei (pur essendo, spesso, belle inutilità dal punto di vista lavorativo, in barba a Leonardo da Vinci, se non hai conoscenze politiche o non appartieni a famiglie conosciute e/o danarose) anche quando i loro figli sono più predisposti a frequentare con profitto istituti tecnici o professionali.
Poi non parliamo della disastrosa situazione universitaria che costringe i migliori ad andare all'estero perchè i posti della ricerca e company sono occupati da raccomandati, parecchio mediocri, parenti e amici di politici oppure di baroni universitari.
Comunque io sono d'accordo a un tecnico e ad un professionale che dia una preparazione completa dal punto di vista umanistico e tecnico/professionale.
RispondiEliminaSono il "non plus ultra" dell'istruzione e attualmente solo poche scuole tecniche e professionali si sono organizzate in tal senso (forse si possono contare sulle dita di una mano).
Io sono favorevole anche ad una scuola dell'obbligo organizzata in questo modo.
L'Italia farebbe passi da gigante nell'ambito mondiale, da tutti i punti di vista anche morale oltre che lavorativo, se tutta la scuola, oltre a perseguire realmente il merito, venisse ridisegnata così.
Ci risiamo: basta valorizzare la formazione professionale perché qualcuno si adombri contrapponendole subito il liceo, naturalmente classico. Che questo indirizzo sia indispensabile per la formazione classica etc etc è fuor di dubbio. E che per seguire certi determinati percorsi universitari sia quasi necessario frequentarlo è altrettanto innegabile. E allora? E se qualcuno, come dicevano un tempo certi insegnanti, non è portato per questo tipo di scuola che deve fare? sentirsi inferiore perché costretto a riparare auto per tutta la vita? Purtroppo moltissime persone di mia conoscenza, pur avendo frequentato da ragazzi il liceo classico, la pensano proprio così dimostrando che non sempre la cultura classica apre la mente delle persone. Vi deve essere una scuola funzionale a dare risposte alle attese e alle vocazioni di tutti i ragazzi e non sono da compiangere quelli che si formano in contesti diversi da quelli liceali. La buona scuola è quella che prepara seriamente i ragazzi a realizzare al meglio i loro sogni e a diventare cittadini seri e responsabili e non spocchiosi come potrebbero esserlo se qualcuno mette loro in testa che tutte le altre scuole, salvo la loro, sono di serie inferiore.
RispondiEliminaLe onde e le orde progressiste de noantri ce l'hhanno messa tutta per far vergognare i giovani e le loro famiglie costretti ai professionali.
RispondiEliminaLe onde e le orde progressiste de noantri ce l'hhanno messa tutta per far vergognare i giovani e le loro famiglie costretti ai professionali.
RispondiElimina----------------------
Veramente il problema non sta nell'aver "fatto vergognare quelli costretti ai professionali", ma di aver fatto credere all'universo mondo che chiunque vada al professionale ci va solo "perché è costretto", e che non è immaginabile che qualcuno possa andarci per scelta.
Ma non mi pare che siano state solo le "orde progressiste" a propagare questo mito, il martellamento è stato assolutamente bipartisan (o anche pluri-partisan, se proprio si vuole).
Io però continuo a non capire come possa Vagnoli conciliare l'idea che i percorsi formativi degli istituti professionali debbano tenersi distanti dalla cosiddetta "licealizzazione" con la tesi per cui non debbano avere dignità inferiore a quella dei licei. Per mantenere un valore formativo adeguato anche al di là delle materie strettamente professionalizzanti, è necessario che i programmi di alcune materie "generaliste", come la letteratura italiana o la storia, siano il più possibile simili a quelli dei licei. La differenza poi rispetto a questi ultimi la fa la presenza di materie come latino e filosofia che negli istituti professionali sono assenti (e direi pour cause, anche se in Francia due ore settimanali di filosofia e solo nell'ultimo anno si trovano anche in questi tipi di scuola). A meno che non si pensi a un modello come quello tedesco, dove, una volta reso il latino facoltativo, scomparso quasi del tutto il greco e non esistendo la filosofia come materia liceale, la differenza tra Gymnasium, Realschule (istituto tecnico) e Realschule (Istituto professionale), la fanno la durata complessiva delle scuole e i programmi totalmente diversi per le materie di base, come tedesco, matematica e storia. Ma la Germania ha un altra tradizione (sistema duale, ecc.) e un diverso mercato del lavoro, oltre che la tendenza a formare più lavoratori ubbidienti che cittadini realmente consapevoli. Ora, temo che cittadini realmente consapevoli non li formi neppure la nostra scuola, ma non è "delicealizzando" gli istituti professionali che andremmo in una direzione migliore.
RispondiEliminaQuesto commento è stato eliminato dall'autore.
RispondiElimina