La revisione degli istituti
professionali darà la luce a corsi di studio peggiorativi, aumentando la
dispersione.
“ilsussidiario.net”, 12 giugno 2018
La
revisione degli istituti professionali è già stata oggetto di un mio recente intervento sul Sussidiario,
in cui sottolineavo che vi erano stati confermati i due principali fattori
della loro crisi: l'abnorme numero di materie e la grave insufficienza delle
ore di laboratorio. Da allora, nonostante le proteste delle varie associazioni
interessate, poco è cambiato. L'unica vera novità consiste nell'aver portato a
sei le compresenze obbligatorie fra materie di indirizzo. Tuttavia a tre mesi
dall'avvio del nuovo anno scolastico e con le problematiche legate alla
formalizzazione degli organici in alcuni indirizzi non si sa ancora quali
saranno queste materie. Ma anche per gli altri è probabile che alla fine una
delle due dovrà essere scelta tra quelle che abbondano di docenti
soprannumerari (come diritto, musica, discipline artistiche e altre), anche se
non sono specifiche degli indirizzi, purché servano in qualche modo a far
lavorare con qualche parvenza di novità. Insomma, sarà necessario per molti
dirigenti e collegi dei docenti affidarsi alla fantasia per inventare percorsi
condivisi tra materie che rischiano di essere tra di loro agli antipodi.
Si
sono comunque organizzati, in gran numero, riunioni e assemblee per illustrare le
potenzialità della riforma. Per contrastare le altissime percentuali di
insuccessi scolastici e di abbandoni, si punta soprattutto su tre
strumenti.
Il
primo è la personalizzazione dei percorsi di apprendimento, di cui il decreto
61/2017 è molto netto nel sottolineare l'importanza; ma la cosa è tutt'altro
che semplice da organizzare. E molta chiarezza si dovrà fare nella gestione
delle quote di autonomia e di flessibilità (secondo strumento indicato) per
stabilire, ciascuna scuola, come organizzare il curriculum. Infine, il decreto
61 prevede che le istituzioni scolastiche "nell'esercizio della propria
autonomia organizzativa e didattica, e con riferimento al Progetto formativo
individuale, possono organizzare il primo biennio in periodi didattici".
Non so se sia stato scritto di proposito o no in modo così criptico, fatto sta
che il ministero è all'opera per diffonderne l'interpretazione più funzionale a
diminuire drasticamente la percentuale dei bocciati, e cioè l'eliminazione
della valutazione degli studenti al termine del primo anno.
Ma
la valanga di ripetenze nel primo biennio dipende essenzialmente, come non mi
stanco di ripetere, dal fatto che i professionali hanno perso e continuano a
perdere la loro identità originaria. Per riacquistarla basterebbe ispirarsi,
senza andare troppo lontani, a quello che accade in certe provincie e regioni
del nord Italia. E invece, quasi a voler dimostrare che il nostro sistema non
si può riformare, l'apparato ministeriale contrappone, a chi lo contesta, il
sistema tedesco, ovviamente non riproducibile nel nostro Paese anche perché i
rispettivi sistemi economici sono diversissimi. Ma diverso non è il sistema
economico del Trentino e non lo è neanche quello di altre regioni
settentrionali dove la formazione professionale, sia gestita da enti pubblici
che da privati, spesso eccelle e dove non è assolutamente considerata di serie
inferiore rispetto agli altri indirizzi. Come
se non bastasse, di recente ha messo mano al decreto 61 anche la Conferenza
Stato-Regioni, per indicare modalità comuni a tutta Italia relativamente ai
passaggi dal sistema dell'istruzione professionale a quello dell'istruzione e
formazione professionale e viceversa. E queste modalità, regolate da una decina
e più di riferimenti normativi anche europei, contribuiscono a vincolare gran
parte del lavoro scolastico a una sequela di compiti burocratici d'inaudita
complessità. Chi abbia voglia di scrivere un atto unico di stampo surreale si
legga gli articoli 2, 7 e 8 e il capolavoro è a portata di mano. Senza contare
che di per sé sarà improbo omologare tutto il sistema, in quanto
l'organizzazione della formazione professionale è diversissima da regione e
regione (e in alcune di esse manca ancora del tutto). E lo diventa ancora di
più se pensiamo, come sopra ricordato, che ogni singola scuola può utilizzare
le quote di autonomia e di flessibilità, con l'altissima probabilità di
produrre percorsi formativi in gran parte difformi tra una scuola e l'altra.
Insomma,
a mio parere abbiamo perso ancora una volta l'occasione per una svolta davvero
coraggiosa e risolutiva, che parta dall'unificazione dei percorsi di
formazione con quelli di istruzione professionale. Una decisione che tra
l'altro contribuirebbe a evitare che la formazione professionale continui,
soprattutto nel sud, a essere vissuta dai ragazzi e dalle loro famiglie come
una sorta di ultima spiaggia, una strada da prendere dopo aver fallito in altri
indirizzi e non perché si ha un'intelligenza indirizzata alla pratica. Vale
inoltre la pena di ricordare alle famiglie e ai docenti delle medie impegnati
nell'orientamento che un'intelligenza inclinata al fare svilupperà sempre, nel
tempo, anche quella astratta; mentre raramente accade il contrario.
Infine,
ritengo che sia sempre più necessario investire molto sull'alta formazione
professionale. Oltre agli Its, i cui successi sono innegabili come lo sono
purtroppo i costi che ne limitano il numero, mi sembra siano maturi i tempi
anche per pensare a un progressivo coinvolgimento delle università nel
progettare lauree brevi di alta formazione professionale.
Valerio Vagnoli
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