Intervento di Giorgio
Ragazzini al convegno
“Scuola esigente o scuola indulgente?”
organizzato
dall’Associazione Nazionale Docenti (AND)
Firenze, 10 maggio 2024
Auditorium della scuola media “Dino
Compagni”
È l’8 settembre del 2009. Davanti agli
studenti di una scuola di Arlington in Virginia, Barack Obama pronuncia un discorso
in occasione dell’inizio dell’anno scolastico. È piuttosto noto, ma vale la
pena di rileggerne alcuni passaggi, considerato il tema che ho scelto per
questo incontro.
Obama comincia dalla sua personale
esperienza scolastica e dalle sue difficoltà che indussero la madre a dargli
lei stessa delle lezioni extra alle 4 e mezzo di mattina. Cito:
“Ora, io non ero proprio felice di
alzarmi così presto. Il più delle volte mi addormentavo al tavolo della cucina.
Ma ogni volta quando mi lamentavo mia madre mi dava un’occhiata delle sue e
diceva: «Anche per me non è un picnic, giovanotto».
E più oltre:
«Ora, io ho fatto un sacco di
discorsi sull’istruzione. E ho molto parlato di responsabilità. Della
responsabilità degli insegnanti che devono motivarvi
all’apprendimento e ispirarvi. Della responsabilità dei genitori che devono tenervi
sulla giusta via e farvi fare i compiti e non lasciarvi passare la giornata
davanti alla tv. Ho parlato della responsabilità del governo che deve fissare
standard adeguati, dare sostegno agli insegnanti e togliere di mezzo le scuole
che non funzionano, dove i ragazzi non hanno le opportunità che meritano. Ma alla fine noi possiamo avere gli insegnanti più
appassionati, i genitori più attenti e le scuole migliori del mondo: nulla
basta se voi non tenete fede alle vostre responsabilità. Andando in queste
scuole ogni giorno, prestando attenzione a questi maestri, dando ascolto ai
genitori, ai nonni e agli altri adulti, lavorando sodo, condizione necessaria per
riuscire. Questo è quello che voglio sottolineare oggi: la responsabilità di
ciascuno di voi nella vostra educazione». […] Non è solo importante per voi e
per il vostro futuro. Quello che farete della vostra possibilità di
ricevere un’istruzione deciderà il futuro di questo Paese, nulla di meno. Ciò che oggi imparate
a scuola, determinerà se noi come nazione saremo se noi come nazione saremo in
grado di raccogliere le sfide che ci riserva il futuro.
So che non è sempre facile far bene
a scuola. So che molti di voi devono affrontare sfide tali da rendere difficile
concentrarsi sui compiti e sull’apprendimento. È successo anche me, so di che
si tratta.
Ma, alla fine dei conti, le
circostanze della vostra vita – che aspetto avete, le vostre origini, la vostra
condizione economica e familiare – non sono una scusa per trascurare i compiti
o avere un atteggiamento negativo. Non ci sono scuse per rispondere male al
proprio insegnante, o saltare le lezioni, o smettere di andare a scuola. Non
c’è scusa per chi non ci prova. Il vostro obiettivo può essere molto semplice:
fare tutti i compiti, fare attenzione a lezione... Non vi piacerà tutto quello
che studiate. Non farete amicizia con tutti i professori. Non tutti i compiti
vi sembreranno così fondamentali. E non avrete necessariamente successo al
primo tentativo. Nessuno è nato capace di fare le cose, si impara sgobbando. È
giusto così.
Questo splendido discorso è il discorso di un
educatore. Qualcosa che qui da noi non si è mai sentito né da un Ministro
dell’Istruzione, né da un Presidente del Consiglio, né da un Presidente della
Repubblica quando si sono rivolti agli studenti.
Il ruolo della volontà, della responsabilità,
dell’impegno, della perseveranza non sono assenti solo nei loro discorsi, ma lo sono anche nella riflessione
pedagogica, nei testi ministeriali e negli obiettivi formativi che ogni
insegnante dovrebbe perseguire. Al punto da non capire che definire “un
diritto” il successo formativo implica, secondo logica, che il suo
raggiungimento è una responsabilità esclusiva della scuola e non anche un
merito degli allievi. Come ha giustamente scritto Adolfo Scotto di Luzio,
l’esito del lavoro scolastico “è concepito non come il risultato da
conseguire e dunque sempre incerto, dell’impegno di un individuo in carne e
ossa, ma come lo sbocco prevedibile di un sistema ben congegnato”.
Dicevo che in quella circostanza Barak Obama ha
parlato da educatore. Un educatore a cui dal mio punto di vista si adatta
perfettamente l’aggettivo “esigente”. L’allora presidente degli Stati
Uniti, infatti, richiama tutti alle proprie responsabilità: i genitori, il
governo, gli studenti. E questi ultimi, non solo nel loro stesso interesse, ma
anche nell’interesse del Paese, del suo futuro (e anche di questo
nessuno parla con chiarezza ai giovani). Dunque, un discorso “esigente”, ma che
non ha nulla di paternalistico, di arcigno, di distante dai destinatari, come
alcuni intendono questo aggettivo, come se, leggendo “esigente”, mentalmente lo
traducessero come “troppo esigente”.
La scuola esigente è semplicemente in antitesi a una
scuola che stata indotta ad avere una paura eccessiva di affaticare,
traumatizzare, mortificare i bambini e i ragazzi; e che di conseguenza chiede
poco e quindi dà poco; transige sui comportamenti scorretti e quindi diseduca. Di
qui la definizione di “indulgente”.
Naturalmente sarebbe ingiusto attribuire questa
caratteristica a tutti i docenti; ce ne sono di bravissimi e anche giustamente esigenti;
e tuttavia l’atmosfera culturale prevalente è quella che ho appena descritto.
Del resto, quando siamo di fronte a
scelte importanti – per noi stessi, per i figli, insomma per le persone che ci
sono care – diventiamo, tutti, “esigenti”. Per un’operazione
delicata, preferiamo il chirurgo migliore possibile, che non sia “pietoso” come
dice il proverbio, ma consapevole di quello che è necessario fare. Anche se
abbiamo bisogno di un avvocato per una causa importante, ne cerchiamo uno che
ci dia sicurezza; nei limiti del possibile, i genitori cercano di ottenere
l’inserimento dei figli nelle sezioni ritenute migliori.
D’altra parte, è chiaro che
l’istituzione scuola non dovrebbe essere più esigente solo nei confronti degli allievi
e del loro interesse formativo.
Dovrebbe essere esigente nello
scegliere i nuovi insegnanti attraverso percorsi già selettivi
in entrata sia sul piano culturale che su quello attitudinale;
dovrebbe essere esigente già oggi nei
confronti dei docenti scorretti o inadeguati, che invece per lo
più restano in cattedra a danneggiare i loro sfortunati allievi o al più vengono
trasferiti a fare danni altrove;
dovrebbe essere esigente sull’integrazione
degli allievi con disabilità, assicurando loro il massimo della
professionalità e dell’attenzione alle loro effettive esigenze;
stessa cosa per l’integrazione
dei ragazzi stranieri (chissà perché c’è chi si inalbera a definirli
così) attraverso più percorsi fra cui scegliere quello più adeguato alla loro
effettiva conoscenza della lingua, come succede in moltissimi paesi europei;
dai genitori si deve esigere il massimo
rispetto nei confronti dei docenti, ma si dovrebbe di norma accoglierli
in spazi riservati e senza che debbano fare lunghe code per parlare con gli
insegnanti.
Chiarito, spero, questo, torniamo
al valore dell’impegno e della costanza, così bene messo in luce da Barak
Obama.
La figura che forse meglio può
offrire una prospettiva di integrazione della professionalità dei docenti è
secondo me l’allenatore. Qui si tratta ovviamente di
sviluppare doti di partenza che hanno a che fare con la forza fisica, la
potenza, la velocità, la resistenza, l’agilità. Come in tanti altri - anche
diversissimi - campi, molte ricerche e innumerevoli testimonianze di persone
che hanno ottenuto grandi risultati dimostrano che il talento non basta, se non
è accompagnato da determinazione e perseveranza.
Non si fanno molti progressi senza l’aiuto
di qualcuno che non solo sia esperto nelle tecniche specifiche della disciplina
sportiva, ma sappia incoraggiare a sfidare i propri limiti, insegni a tollerare
lo forzo necessario per farlo e, non ultima qualità, riesca a instaurare un
buon rapporto con i suoi allievi. In poche parole, non gli basta essere un
tecnico, deve essere anche, come si dice in ambito sportivo, un bravo motivatore.
Ci tornerò tra poco, dopo avere
accennato a un altro tratto caratteristico delle concezioni più correnti del
fare scuola: l’indispensabilità ai fini dell’apprendimento del divertimento,
del piacere, dell’interesse, cioè di quelle che gli psicologi chiamano motivazioni
intrinseche. Si è anche detto che, basandosi su queste,
sparirebbero i problemi disciplinari: niente noia, niente indisciplina.
Nessuno nega, s’intende, che tenere
vivo l’interesse degli allievi sia fondamentale. Ma anche le motivazioni
estrinseche, quelle che consentono di tollerare uno sforzo o le
situazioni spiacevoli in vista di un obiettivo (come tra l’altro devono fare i
protagonisti delle fiabe e di tutta la narrativa che ne ricalca lo schema), sono
altrettanto necessarie. William
Damon, uno dei maggiori studiosi dello sviluppo
umano, sostiene, anche sulla base di alcune ricerche dei primi anni ’90, che la
didattica basata solo sulle motivazioni intrinseche non insegna a superare la frustrazione e a persistere nello studio
anche quando una materia diventa difficile o noiosa.
Dunque quale contributo
il mondo dello sport potrebbe dare alla scuola? Conviene partire dalla
normativa sui Bes (Bisogni Educativi speciali), che si proponeva di aiutare
gli allievi che non si impegnano, si distraggono, attraversano periodi difficili. Mi fermo qui, perché la normativa
autorizza a considerare “bisogni educativi speciali” praticamente quasi tutti i
tipi di difficoltà. Il consiglio di classe può in questi casi redigere un
Piano Didattico Personalizzato, che secondo tutte le testimonianze consiste
sostanzialmente in una semplificazione e una riduzione degli obiettivi.
Tanto è vero che molti genitori si avvalgono di certificazioni psicologiche (spesso
parecchio – diciamo così – amichevoli) per ottenere quello che ritengono non a
torto un viatico per una più facile promozione.
Non solo in questi casi, ma in generale nella didattica, vengono spesso
trascurati gli strumenti educativi: incoraggiare, sostenere, pretendere,
apprezzare l’impegno e i progressi ottenuti. Si scivola invece volentieri verso
la psicologizzazione dei problemi degli allievi, che spesso sfocia soltanto nella
“comprensione” senza dare un effettivo aiuto.
Una prospettiva interessante
potrebbe essere l’adattamento alle esigenze della scuola, come parte della
preparazione iniziale dei docenti (o dell’aggiornamento per quelli già in
servizio), di una disciplina sviluppatasi in particolare nello sport, il coaching (da coach, “allenatore”), con lo scopo di aiutare gli atleti
a esprimere al massimo le proprie potenzialità. Non che si debba diventare
tutti coach: si tratterebbe di acquisire alcuni strumenti di questa
disciplina utili a sostenere e incoraggiare gli allievi che ne abbiano bisogno
(così come è bene avere delle conoscenze di psicologia dell’età evolutiva,
senza bisogno di essere psicologi).
Vediamo qualcuno dei più
frequenti obiettivi di un coach nello sport:
§
Individuare e perseguire
obbiettivi sfidanti
§
Scoprire e allenare
le potenzialità inespresse
§
Gestire lo stress
§
Superare la noia,
l’ansia e le paure
§ Incrementare
la tenacia e la persistenza.
Come si vede, la lista si può attagliare
benissimo anche al sostegno che la scuola potrebbe dare agli allievi.
L’allenatore di chi fa il salto in alto non abbassa l’asticella a chi non
riesce, ma lavora per potenziare l’elevazione; un insegnante non deve “abbassare l’asticella”, ma
puntare a rafforzare la determinazione, la volontà, la fiducia in sé stessi dei
ragazzi in difficoltà.
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