sabato 18 maggio 2024

IL VALORE DELL’IMPEGNO E DELLA PERSEVERANZA

 Intervento di Giorgio Ragazzini al convegno
“Scuola esigente o scuola indulgente?”
organizzato dall’Associazione Nazionale Docenti (AND)  
Firenze, 10 maggio 2024 
 Auditorium della scuola media “Dino Compagni”

È l’8 settembre del 2009. Davanti agli studenti di una scuola di Arlington in Virginia, Barack Obama pronuncia un discorso in occasione dell’inizio dell’anno scolastico. È piuttosto noto, ma vale la pena di rileggerne alcuni passaggi, considerato il tema che ho scelto per questo incontro.

Obama comincia dalla sua personale esperienza scolastica e dalle sue difficoltà che indussero la madre a dargli lei stessa delle lezioni extra alle 4 e mezzo di mattina. Cito:

“Ora, io non ero proprio felice di alzarmi così presto. Il più delle volte mi addormentavo al tavolo della cucina. Ma ogni volta quando mi lamentavo mia madre mi dava un’occhiata delle sue e diceva: «Anche per me non è un picnic, giovanotto».

E più oltre:

«Ora, io ho fatto un sacco di discorsi sull’istruzione. E ho molto parlato di responsabilità. Della responsabilità degli insegnanti che devono motivarvi all’apprendimento e ispirarvi. Della responsabilità dei genitori che devono tenervi sulla giusta via e farvi fare i compiti e non lasciarvi passare la giornata davanti alla tv. Ho parlato della responsabilità del governo che deve fissare standard adeguati, dare sostegno agli insegnanti e togliere di mezzo le scuole che non funzionano, dove i ragazzi non hanno le opportunità che meritano. Ma alla fine noi possiamo avere gli insegnanti più appassionati, i genitori più attenti e le scuole migliori del mondo: nulla basta se voi non tenete fede alle vostre responsabilità. Andando in queste scuole ogni giorno, prestando attenzione a questi maestri, dando ascolto ai genitori, ai nonni e agli altri adulti, lavorando sodo, condizione necessaria per riuscire. Questo è quello che voglio sottolineare oggi: la responsabilità di ciascuno di voi nella vostra educazione». […] Non è solo importante per voi e per il vostro futuro. Quello che farete della vostra possibilità di ricevere un’istruzione deciderà il futuro di questo Paese, nulla di meno. Ciò che oggi imparate a scuola, determinerà se noi come nazione saremo se noi come nazione saremo in grado di raccogliere le sfide che ci riserva il futuro.

So che non è sempre facile far bene a scuola. So che molti di voi devono affrontare sfide tali da rendere difficile concentrarsi sui compiti e sull’apprendimento. È successo anche me, so di che si tratta.

Ma, alla fine dei conti, le circostanze della vostra vita – che aspetto avete, le vostre origini, la vostra condizione economica e familiare – non sono una scusa per trascurare i compiti o avere un atteggiamento negativo. Non ci sono scuse per rispondere male al proprio insegnante, o saltare le lezioni, o smettere di andare a scuola. Non c’è scusa per chi non ci prova. Il vostro obiettivo può essere molto semplice: fare tutti i compiti, fare attenzione a lezione... Non vi piacerà tutto quello che studiate. Non farete amicizia con tutti i professori. Non tutti i compiti vi sembreranno così fondamentali. E non avrete necessariamente successo al primo tentativo. Nessuno è nato capace di fare le cose, si impara sgobbando. È giusto così.

Questo splendido discorso è il discorso di un educatore. Qualcosa che qui da noi non si è mai sentito né da un Ministro dell’Istruzione, né da un Presidente del Consiglio, né da un Presidente della Repubblica quando si sono rivolti agli studenti.

Il ruolo della volontà, della responsabilità, dell’impegno, della perseveranza non sono assenti solo nei loro discorsi, ma lo sono anche nella riflessione pedagogica, nei testi ministeriali e negli obiettivi formativi che ogni insegnante dovrebbe perseguire. Al punto da non capire che definire “un diritto” il successo formativo implica, secondo logica, che il suo raggiungimento è una responsabilità esclusiva della scuola e non anche un merito degli allievi. Come ha giustamente scritto Adolfo Scotto di Luzio, l’esito del lavoro scolastico “è concepito non come il risultato da conseguire e dunque sempre incerto, dell’impegno di un individuo in carne e ossa, ma come lo sbocco prevedibile di un sistema ben congegnato”.

Dicevo che in quella circostanza Barak Obama ha parlato da educatore. Un educatore a cui dal mio punto di vista si adatta perfettamente l’aggettivo “esigente”. L’allora presidente degli Stati Uniti, infatti, richiama tutti alle proprie responsabilità: i genitori, il governo, gli studenti. E questi ultimi, non solo nel loro stesso interesse, ma anche nell’interesse del Paese, del suo futuro (e anche di questo nessuno parla con chiarezza ai giovani). Dunque, un discorso “esigente”, ma che non ha nulla di paternalistico, di arcigno, di distante dai destinatari, come alcuni intendono questo aggettivo, come se, leggendo “esigente”, mentalmente lo traducessero come “troppo esigente”.

La scuola esigente è semplicemente in antitesi a una scuola che stata indotta ad avere una paura eccessiva di affaticare, traumatizzare, mortificare i bambini e i ragazzi; e che di conseguenza chiede poco e quindi dà poco; transige sui comportamenti scorretti e quindi diseduca. Di qui la definizione di “indulgente”.

Naturalmente sarebbe ingiusto attribuire questa caratteristica a tutti i docenti; ce ne sono di bravissimi e anche giustamente esigenti; e tuttavia l’atmosfera culturale prevalente è quella che ho appena descritto.

Del resto, quando siamo di fronte a scelte importanti – per noi stessi, per i figli, insomma per le persone che ci sono care – diventiamo, tutti, “esigenti”. Per un’operazione delicata, preferiamo il chirurgo migliore possibile, che non sia “pietoso” come dice il proverbio, ma consapevole di quello che è necessario fare. Anche se abbiamo bisogno di un avvocato per una causa importante, ne cerchiamo uno che ci dia sicurezza; nei limiti del possibile, i genitori cercano di ottenere l’inserimento dei figli nelle sezioni ritenute migliori.  

D’altra parte, è chiaro che l’istituzione scuola non dovrebbe essere più esigente solo nei confronti degli allievi e del loro interesse formativo.

Dovrebbe essere esigente nello scegliere i nuovi insegnanti attraverso percorsi già selettivi in entrata sia sul piano culturale che su quello attitudinale;

dovrebbe essere esigente già oggi nei confronti dei docenti scorretti o inadeguati, che invece per lo più restano in cattedra a danneggiare i loro sfortunati allievi o al più vengono trasferiti a fare danni altrove;

dovrebbe essere esigente sull’integrazione degli allievi con disabilità, assicurando loro il massimo della professionalità e dell’attenzione alle loro effettive esigenze;

stessa cosa per l’integrazione dei ragazzi stranieri (chissà perché c’è chi si inalbera a definirli così) attraverso più percorsi fra cui scegliere quello più adeguato alla loro effettiva conoscenza della lingua, come succede in moltissimi paesi europei;

dai genitori si deve esigere il massimo rispetto nei confronti dei docenti, ma si dovrebbe di norma accoglierli in spazi riservati e senza che debbano fare lunghe code per parlare con gli insegnanti.

Chiarito, spero, questo, torniamo al valore dell’impegno e della costanza, così bene messo in luce da Barak Obama.

La figura che forse meglio può offrire una prospettiva di integrazione della professionalità dei docenti è secondo me l’allenatore. Qui si tratta ovviamente di sviluppare doti di partenza che hanno a che fare con la forza fisica, la potenza, la velocità, la resistenza, l’agilità. Come in tanti altri - anche diversissimi - campi, molte ricerche e innumerevoli testimonianze di persone che hanno ottenuto grandi risultati dimostrano che il talento non basta, se non è accompagnato da determinazione e perseveranza.

Non si fanno molti progressi senza l’aiuto di qualcuno che non solo sia esperto nelle tecniche specifiche della disciplina sportiva, ma sappia incoraggiare a sfidare i propri limiti, insegni a tollerare lo forzo necessario per farlo e, non ultima qualità, riesca a instaurare un buon rapporto con i suoi allievi. In poche parole, non gli basta essere un tecnico, deve essere anche, come si dice in ambito sportivo, un bravo motivatore.

Ci tornerò tra poco, dopo avere accennato a un altro tratto caratteristico delle concezioni più correnti del fare scuola: l’indispensabilità ai fini dell’apprendimento del divertimento, del piacere, dell’interesse, cioè di quelle che gli psicologi chiamano motivazioni intrinseche. Si è anche detto che, basandosi su queste, sparirebbero i problemi disciplinari: niente noia, niente indisciplina.

Nessuno nega, s’intende, che tenere vivo l’interesse degli allievi sia fondamentale. Ma anche le motivazioni estrinseche, quelle che consentono di tollerare uno sforzo o le situazioni spiacevoli in vista di un obiettivo (come tra l’altro devono fare i protagonisti delle fiabe e di tutta la narrativa che ne ricalca lo schema), sono altrettanto necessarie. William Damon, uno dei maggiori studiosi dello sviluppo umano, sostiene, anche sulla base di alcune ricerche dei primi anni ’90, che la didattica basata solo sulle motivazioni intrinseche non insegna a superare la frustrazione e a persistere nello studio anche quando una materia diventa difficile o noiosa.

Dunque quale contributo il mondo dello sport potrebbe dare alla scuola? Conviene partire dalla normativa sui Bes (Bisogni Educativi speciali), che si proponeva di aiutare gli allievi che non si impegnano, si distraggono, attraversano periodi difficili. Mi fermo qui, perché la normativa autorizza a considerare “bisogni educativi speciali” praticamente quasi tutti i tipi di difficoltà. Il consiglio di classe può in questi casi redigere un Piano Didattico Personalizzato, che secondo tutte le testimonianze consiste sostanzialmente in una semplificazione e una riduzione degli obiettivi. Tanto è vero che molti genitori si avvalgono di certificazioni psicologiche (spesso parecchio – diciamo così – amichevoli) per ottenere quello che ritengono non a torto un viatico per una più facile promozione.

Non solo in questi casi, ma in generale nella didattica, vengono spesso trascurati gli strumenti educativi: incoraggiare, sostenere, pretendere, apprezzare l’impegno e i progressi ottenuti. Si scivola invece volentieri verso la psicologizzazione dei problemi degli allievi, che spesso sfocia soltanto nella “comprensione” senza dare un effettivo aiuto.

Una prospettiva interessante potrebbe essere l’adattamento alle esigenze della scuola, come parte della preparazione iniziale dei docenti (o dell’aggiornamento per quelli già in servizio), di una disciplina sviluppatasi in particolare nello sport, il coaching (da coach, “allenatore”), con lo scopo di aiutare gli atleti a esprimere al massimo le proprie potenzialità. Non che si debba diventare tutti coach: si tratterebbe di acquisire alcuni strumenti di questa disciplina utili a sostenere e incoraggiare gli allievi che ne abbiano bisogno (così come è bene avere delle conoscenze di psicologia dell’età evolutiva, senza bisogno di essere psicologi).

Vediamo qualcuno dei più frequenti obiettivi di un coach nello sport:

§  Individuare e perseguire obbiettivi sfidanti

§  Scoprire e allenare le potenzialità inespresse

§  Gestire lo stress

§  Superare la noia, l’ansia e le paure

§  Incrementare la tenacia e la persistenza.

Come si vede, la lista si può attagliare benissimo anche al sostegno che la scuola potrebbe dare agli allievi. L’allenatore di chi fa il salto in alto non abbassa l’asticella a chi non riesce, ma lavora per potenziare l’elevazione; un insegnante non deve  “abbassare l’asticella”, ma puntare a rafforzare la determinazione, la volontà, la fiducia in sé stessi dei ragazzi in difficoltà.

 


mercoledì 15 maggio 2024

SUPERIORI IN 4 ANNI, IL FALSO MITO DEL ‘COSÌ FAN TUTTI IN EUROPA’

 Solo in una minoranza di Stati europei la scuola secondaria finisce a 18 anni. Qual è il vero motivo della sperimentazione italiana?

di Giorgio Ragazzini (da “ilSussidiario.net”, 13 maggio 2024) 

Fra le cose che per il senso comune sono ardue da comprendere c’è senz’altro l’idea di togliere un anno alla durata delle scuole superiori in modo da farne uscire i ragazzi a 18 anni; e di sperimentarne l’applicazione in un certo numero di scuole. Questo, si sostiene, con il vantaggio di arrivare un anno prima all’università o sul mercato del lavoro, così da competere alla pari con i coetanei continentali. E si aggiunge: “allineandosi alla maggioranza dei Paesi europei” (Famiglia Cristiana), “in linea con gli altri Paesi europei” (Corriere della Sera), e persino “come avviene nel resto del mondo” (Avvenire). Eppure con gli attuali cinque anni non si riesce a dare a molti studenti una preparazione soddisfacente, a cominciare da quella in italiano. Toglierne uno sembra proprio il classico paradosso.

Ma davvero in Europa gli studi finiscono a 18 anni? L’Unione Europea si è dotata dal 1980 di una rete istituzionale, chiamata Eurydice, per la raccolta, l’analisi e la diffusione di dati sui sistemi educativi. Ogni anno scolastico produce un rapporto che aggiorna la situazione. Mi sono servito di quello del 2022-23 per capire come stanno effettivamente le cose. E la risposta che mi sono potuto dare alla domanda di poche righe sopra è un “no” molto netto: su 33 Stati di cui vengono forniti i dati (vedi tabella), negli istituti di tipo liceale solo in 11 Stati gli studi finiscono a 18 anni, negli altri 22 Stati a 19 anni. Nei corsi tecnico-professionali il divario è ancora più netto: 7 “diciottisti” contro 27 “diciannovisti” (il totale di 34 dipende dal fatto che in Austria alcuni finiscono a 18, altri a 19). Dato che la lettura dei grafici del rapporto Eurydice è resa complessa dalle differenze di struttura dei sistemi scolastici, potrebbero esserci alcuni errori nella sintesi della tabella; è molto improbabile, però, che cambino sostanzialmente il risultato. Dunque non si può motivare questa innovazione con il “così fan tutti”.

Veniamo all’ingresso nel mercato del lavoro. Per cominciare, la grandissima maggioranza dei diplomati e dei laureati non competerà in Europa, ma in Italia. Ma soprattutto sarebbe strano che qualsiasi datore di lavoro qualificato guardasse all’età (un anno meno di altri candidati) e non alla preparazione. Allora come mai nel 2017 (c’era la ministra Fedeli) si è voluta varare questa sperimentazione? C’è chi ha pensato che tutto si ridurrebbe all’evidente risparmio. Il ministero respinse con sdegno questa motivazione; e d’altra parte si andrebbe incontro a una forte opposizione dei sindacati, dato che dal taglio dei posti di lavoro verrebbero ostacolate le future immissioni in ruolo ope legis dei precari, della cui costante riproduzione purtroppo non si vede ancora la fine.

È possibile che la risposta stia nei criteri da rispettare per aderire alla sperimentazione, che in gran parte non sono legati ai problemi pratici creati dall’abbreviazione del secondo ciclo. Infatti, per chiedere di partecipare, le scuole “dovranno distinguersi per un elevato livello di innovazione, in particolare per quanto riguarda l’articolazione e la rimodulazione dei piani di studio, per l’utilizzo delle tecnologie e delle attività laboratoriali nella didattica, per l’uso della metodologia CLIL (lo studio di una disciplina in una lingua straniera), per i processi di continuità e orientamento con la scuola secondaria di primo grado, il mondo del lavoro, gli ordini professionali, l’università e i percorsi terziari non accademici”.

Si tratta di un compendio quasi completo di quello che l’apparato ministeriale e i suoi pedagogisti di riferimento hanno sostenuto con vigore da molto tempo come rimedi alle gravi difficoltà della nostra scuola (illudendosi che lo si possa fare senza esigere dagli allievi impegno e senso di responsabilità e continuando ad abbassare “l’asticella” fin quasi al livello del terreno). Mi pare quindi fondata l’impressione che questa sperimentazione serva a fare un primo passo per poi estendere a tutta la scuola il suddetto “elevato livello di innovazione”. Vediamo per esempio cosa ne dice, significativamente, il pedagogista Dario Ianes, che si è dichiarato favorevole, ma a certe condizioni: “Deve essere riformato profondamente il curricolo, bisogna rottamare e ‘bruciare’ le cattedre e proporre una didattica diversa. Gli istituti superiori, e soprattutto i licei, sono ancora troppo legati a una didattica frontale. La scuola dovrebbe proporre più problemi, laboratori, progetti su temi reali. Toglierei le cattedre anche fisicamente: secondo me l’insegnante che arriva in classe, si siede e posa la sua borsa con il libro di testo e i suoi appunti sulla cattedra è la premessa per una scuola superata”.

Di fatto l’obiettivo principale dell’uscita da scuola a 18 anni, motivato più che altro dall’affermazione che sarebbe “in linea con il resto d’Europa”, ha messo in ombra una sperimentazione didattica intensiva che invece, con il risalto che avrebbe avuto se fosse stata il suo unico scopo, poteva verosimilmente provocare reazioni ancor più negative. Così facendo, anche se alla fine l’accorciamento di un anno delle superiori non desse buoni risultati o suscitasse troppe resistenze per generalizzarlo, si sarà almeno avuto la possibilità di mettere alla prova le “innovazioni”. Vedremo con quali risultati. Da valutare – si spera – spassionatamente. 

ORGANI COLLEGIALI, PER STUDENTI E GENITORI SERVE UNA “PARTECIPAZIONE” SEPARATA

 di Giorgio Ragazzini

 È del 1972 la canzone di Giorgio Gaber sulla libertà, diventata famosa soprattutto per l’ultimo verso del ritornello: “Libertà è partecipazione”. Due anni dopo vengono varati i Decreti delegati della scuola, tra i quali il numero 416 che si occupa soprattutto della partecipazione degli utenti alla gestione delle scuole. Due “prodotti”, si può dire, di una stessa diffusa sensibilità originata dal ’68. Di per sé è una tendenza ineccepibile, connaturata all’idea stessa di democrazia fin dalle sue origini, tanto che possiamo persino scomodare Pericle: «Siamo i soli a considerare non pacifico ma addirittura inutile il cittadino che non si interessa degli affari pubblici».

Naturalmente, il “come” si realizza la presenza attiva nella scuola dei genitori e, per le superiori, degli studenti, non è secondario. A giudicare dalla crescente difficoltà – segnalata da molte scuole dopo il periodo di iniziale entusiasmo – di trovare candidati per le elezioni degli organi collegiali, c’è più di qualcosa che non funziona (ne ha parlato di recente il preside Artini su questo giornale). Alla fine approdano spesso nel Consiglio persone poco motivate, che si sono prestate per spirito di servizio e, in genere, non possiedono che limitate conoscenze e attitudini per dare un contributo significativo. Spesso la partecipazione di una parte degli eletti è saltuaria e non sempre si raggiunge il numero legale.

Prima ancora di ripensare gli organi collegiali, a me pare che sia prioritaria l’esigenza segnalata già nel 2009 da Giuseppe De Rita, in un articolo intitolato “Nella scuola può tornare l’orgoglio”, in cui sostiene che «quando si deve governare il sistema scolastico, occorrono responsabilità organizzative ben disegnate e personale ben motivato. Per anni invece ci siamo divisi su ipotesi di riforma o su faticosi compromessi corporativi, evitando la banale verità che senza rinnovamento organizzativo nessuna riforma, anzi nessuna politica, è possibile.» E da anni, in effetti, da molte parti si indica la necessità di affiancare ai dirigenti scolastici, in genere sovrastati da una grande mole di compiti e di responsabilità, una squadra di docenti con accertate competenze gestionali e progettuali, in sostituzione di un volontariato spesso generoso, ma poco preparato allo scopo. Figure che sarebbe appropriato inserire come membri di diritto del Consiglio di Istituto. In ogni caso, non si vede perché gli insegnanti non siano incoraggiati a farne parte da una retribuzione, come per qualsiasi altra attività aggiuntiva.

Venendo a come attuare al meglio la partecipazione di genitori e studenti, condivido la tesi, ribadita più volte, del docente di Diritto Amministrativo professor Carlo Marzuoli, per cui da un lato è necessario superare la cogestione/confusione con i genitori e gli studenti, riservando il Consiglio d’Istituto a chi è stato vagliato sul piano tecnico professionale da esami e consorsi, cioè i docenti e il dirigente.

Detto questo, non si tratta affatto di togliere a genitori e ragazzi la possibilità di contribuire alla vita della scuola. “Partecipare” vuol dire prima di tutto avere la possibilità di far valere i propri interessi e diritti di utenti, di ottenere resoconti, insomma di rendere l’amministrazione più trasparente e controllata; e anche di avanzare richieste, di fare proposte, magari con la possibilità di essere ascoltati dal Consiglio di Istituto per illustrarle. Per questo andrebbero creato organismi ad hoc, distinti fra quelli degli studenti e quelli delle famiglie. Il terreno su cui sviluppare l’iniziativa o la collaborazione delle famiglie, attraverso la creazione di questi nuovi organismi è ampio e deve essere valorizzato. Si pensi a tante “educazioni” che si vorrebbero far entrare in classe e che in realtà sarebbero molto utili ai soprattutto genitori, che potrebbero organizzare (o collaborare all’organizzazione) di incontri su temi come l’educazione alimentare, il sempre più serio problema della dipendenza da smartphone, il bullismo e molte altre.

Quanto ai ragazzi, credo che la scuola potrebbe avere un ruolo più attivo come luogo di formazione civile e in senso lato “politica”, guidando gli studenti ad approfondire e a valutare con spirito critico i problemi sociali. Lo fa già attraverso lo studio delle materie scolastiche (non si sa quanto con l’educazione civica, visto il suo problematico statuto “trasversale”), ma può farlo anche, nelle superiori, incoraggiando e sostenendo la capacità di auto-organizzazione degli allievi. Nella scuola che in molti auspicano sempre aperta, un’associazione studentesca democraticamente eletta potrebbe imparare a progettare e realizzare ogni tanto incontri e attività pomeridiane per soddisfare interessi comuni. E sarebbe anche un modo di riconsegnare alla maggioranza di loro la titolarità di un’autoespressione seria ed efficace, utile a prevenire le occupazioni gestite da minoranze superficialmente ideologizzate e non rispettose dei diritti di tutti.

Ho avuto come studente una positiva esperienza in proposito, quando chiedemmo e ottenemmo di creare un “Circolo culturale” nel nostro liceo, che organizzò conferenze, incontri di orientamento per la scelta della facoltà universitaria, attività sportive, nonché un concerto di fine anno negli spazi della scuola (in cui suonarono gli allora celebri “Camaleonti”).

("ilSussidiario.net", 8 aprile 2024)