(da NÉ ASINO NÉ RE. Capire i figli e fare la cosa giusta, di Osvaldo Poli, San Paolo, 2008, pp.158-59)
“Lo stile del dialogo paterno è caratterizzato da una minor timore di ‘ferire il figlio’, e proprio per questa ragione nell’adolescenza è preferito alla madre, il cui stile più indiretto lo fa sentire piccolo, bisognoso di essere mantenuto nella bolla protettiva in cui le cose che potrebbero farlo star male non devono esistere e non devono essere dette. [...] Mentre il sentire femminile e materno tende ad uccidere la verità per salvare il figlio, la sensibilità maschile (che è sempre presente anche nelle mamme ed in alcuni casi è prevalente in esse) tende a sacrificare il figlio per renderlo capace di riconoscere e accettare la verità. Per meglio dire: chiede al figlio di sacrificare - rinunciare - a quegli aspetti del suo carattere che gli impediscono di riconoscere ciò che è vero e ciò che è giusto. [...] Il padre aiuta dunque il figlio ad avere meno paura della verità, anche quando essa impone di ammettere l’errore, di assumere la colpa, di accettare le proprie responsabilità. La rinuncia a sentirsi padroni della verità, e l’accettazione di essere sottomessi ad essa, è indice di maturità psicologica e morale ed è esattamente ciò che rende le persone degne di stima.
La verità è spesso desiderata dal figlio come liberatoria, e non solo temuta, come sembrano pensare molti genitori, perché, come disse un ragazzo, «Ti dà il senso di quanto vali realmente, ti toglie la paura del confronto con gli altri ». Chi è disposto ad accettare il responso della realtà (la vera prova di iniziazione alla vita), non ha più paura di uscire dal guscio, di andare lontano, di affrontare la vita. Chi continua a temere la realtà e la verità, è sempre costretto a ‘fuggire’, ad evitare la prova, a barare al gioco della vita”.
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