giovedì 25 gennaio 2018

BERLINGUER E I PROFESSORI

Lo scorso dicembre, l'ex ministro Berlinguer è intervenuto al Congresso dell'Associazione Nazionale Presidi e ha colto l’occasione per lanciare un attacco sprezzante all’appello dei docenti universitari “contro il declino dell’italiano a scuola” di un anno fa. Una scuola degna di questo nome, ha detto, non può riconoscersi in coloro che avevano elaborato e firmato il cosiddetto manifesto dei Seicento,  in cui si auspica – ha sostenuto – il ritorno a un passato in cui si espellevano dalle scuole i meno bravi e in cui questi ultimi erano definiti – ha esclamato testualmente) “con un termine che designava animali, capito? ANIMALI!” Si riferiva naturalmente alla parola “asini”, che tuttavia non ha pronunciato, quasi volesse far intendere quanto fosse profondo l'orrore che il termine gli avrebbe provocato solo a pronunciarlo.
Alla fine del suo intervento ha lasciato il convegno. Insomma, se ce n'era bisogno, l'ex Ministro ha confermato di far parte della numerosa schiera che, invece di argomentare le proprie posizioni, preferisce demonizzare chi non la pensa allo stesso modo, anche rispetto a tematiche così determinanti per lo sviluppo civile e culturale del nostro Paese, che meriterebbero un confronto costruttivo. E questo a dispetto della diffusa retorica del Dialogo con l’Altro e col Diverso.
In realtà l’appello nasce dai ripetuti allarmi di molti professori universitari. I quali avevano ben capito, e purtroppo ampiamente sperimentato nella loro attività d'insegnamento all'università, che senza una conoscenza appropriata della lingua non si è cittadini degni di questo nome, ma sudditi. Perché, come scriveva l'educatore più saccheggiato e forse più impropriamente preso a modello, “È solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l'espressione altrui”. Era quindi del tutto logico chiedere “una scuola davvero esigente nel controllo degli apprendimenti oltre che più efficace nella didattica”, in modo da assicurare “il raggiungimento, al termine del primo ciclo, di un sufficiente possesso degli strumenti linguistici di base”.
E invece no! Guai a pretendere una scuola di qualità, perché questo significherebbe, per certi amici dei poveri, penalizzare i meno bravi. Come se porsi l'obiettivo di elevare le competenze linguistiche di tutti i nostri ragazzi fosse una sorta di operazione passatista e nostalgica della scuola che fu! Ed ancora, come se sfornare laureati che abbiano una conoscenza approssimativa della nostra lingua potesse essere alla lunga compatibile con il nostro sviluppo sociale e civile. En passant: a Berlinguer e ad altri che come lui hanno ribattuto all’appello con formule generiche di biasimo e categoriche prese di distanza, potrei anche far presente che gran parte della mia attività professionale l'ho dedicata proprio a salvaguardare il diritti di chi partiva da situazioni svantaggiate. E questo non lo si fa chiedendo poco, lasciando correre, indulgendo; ma, per dirla con Machiavelli, facendo “come gli arcieri prudenti, e quali parendo el loco dove disegnano ferire troppo lontano e conoscendo fino a quanto va la virtù del loro arco, pongono la mira assai più alta che il loco destinato, non per aggiungere con la loro freccia a tanta altezza, ma per potere con l’aiuto di sì alta mira pervenire al disegno loro”. Scuola “esigente” non significa dunque arcigna e repressiva, significa che è determinata a far emergere tutto il potenziale degli allievi chiedendo loro il massimo impegno e garantendo senza se e senza ma la qualità dell’insegnamento. In gioco c’è il destino delle nuove generazioni e forse anche la sopravvivenza della nostra democrazia.
Valerio Vagnoli

domenica 21 gennaio 2018

L'EDUCAZIONE CHE PROTEGGE IL MONDO

Maria Luisa Iavarone, la mamma del ragazzo accoltellato a Napoli da una banda di minorenni, ha espresso molto bene “il sugo della storia” in una lettera al “Mattino”: «Gli aggressori di Arturo vivono in una eclissi di genitorialità che li fa annaspare ciecamente in un mondo senza adulti significativi che produce in loro una assenza totale del principio di autorità e che diventa senso onnipotente dell’impunità se, dopo la famiglia, anche la società e le istituzioni rinunciano a una sanzione adeguatamente severa di fronte a comportamenti devianti così gravi». Con le loro crudeli imprese, questi ragazzi, come quelli di altre città italiane, esemplificano in vivo le conseguenze di un’educazione mancata. E a cosa serve l’educazione l’ha detto forse meglio di ogni altro Hanna Arendt in Tra passato e futuro: «Il bambino deve essere protetto con cure speciali, perché non lo tocchi nessuna delle facoltà distruttive del mondo. Ma anche il mondo deve essere protetto per non essere devastato e distrutto dall’ondata di novità che esplode con ogni nuova generazione». Bambini, dunque, cresciuti respirando distruttività; e di conseguenza agendola sulle cose e le persone più indifese. Sarebbe però sbagliato pensare che una dinamica del genere sia esclusiva di ambienti economicamente e culturalmente deprivati, secondo una facile vulgata sociologica: ci sono anche i figli di genitori almeno apparentemente adeguati e senza problemi economici. Ed è altrettanto sbagliata, come ci ricorda Hanna Arendt, una visione dell’educazione tutta centrata sulle esigenze del figlio, che dimentica quelle della società in cui dovrà vivere; così come lo è una formazione scolastica ossessivamente imperniata su personalizzazione dell’insegnamento, bisogni educativi speciali, pedagogia del dialogo a tutti i costi, rifiuto ideologico delle sanzioni che sarebbero di per sé non educative. E di cui invece lamenta l’assenza la madre di Arturo, perché così stando le cose «chi spiegherà a quei ragazzi violenti, tornati a casa, che hanno sbagliato?» Come lapidariamente ha scritto Leonardo da Vinci, infatti, “Chi non punisce il male, comanda che si faccia”.
Il senso di responsabilità, i doveri, il rispetto degli altri: ecco  i grandi assenti della pedagogia degli ultimi decenni. C’è stato un tempo in cui l’adeguamento alle norme sociali delle nuove generazioni metteva spesso in ombra i bisogni affettivi dei figli, le loro attitudini individuali, la necessità di renderli progressivamente autonomi. Una disattenzione che soprattutto la psicologia ha contribuito a superare; ma spesso si è perso di vista, nel crescere esponenziale dei diritti, il rapporto del nuovo venuto col mondo. Se è facile allarmarsi per le situazioni in cui esplodono le violenze gratuite che fanno notizia, lo è molto meno rendersi conto del silenzioso ma devastante logoramento progressivo del tessuto sociale che la crisi dell’educazione ha già provocato e, continuando così, continuerà senza dubbio a provocare.
Non si tratta quindi solo di “rammendare” le periferie e di promuovere in ogni modo il lavoro e la preparazione al lavoro. Bisogna anche mettere al centro della politica il tema dell’educazione. Informando e sostenendo i genitori (anche attraverso il servizio pubblico radiotelevisivo), molti dei quali in balia di un grave disorientamento; facendo dell’impegno a far rispettare le regole una costante dell’attività di governo; promuovendo nella scuola la necessaria fermezza nell’esigere un comportamento corretto. E non si tema, su questo, l’impopolarità: ricordo che il recente sondaggio dell’Istituto Eumetra Monterosa, di cui ha parlato su questo quotidiano Giorgio Chiosso, rivela che quasi il 70% degli italiani ritiene la scuola troppo poco severa sulla disciplina e giudica sbagliata l’abolizione della bocciatura col 5 in condotta.
Infine, è essenziale che ogni cittadino adulto sia consapevole delle proprie, inevitabili responsabilità educative e le traduca costantemente in comportamenti e in un linguaggio che possano essere di esempio ai giovani.
Giorgio Ragazzini

(Pubblicato su "ilsussidiario.net" del 20 gennaio con il titolo Vietato punire? Leonardo da Vinci aveva previsto le baby gang)

sabato 20 gennaio 2018

TANTE OFFERTE, POCHE DOMANDE

Corriere Fiorentino, 18 gennaio 2017”

In Italia c’è un esercito di giovani disoccupati che sfiora il 33 per cento. E però molti settori dell’economia offrono posti di lavoro che nessuno vuole. L’argomento è stato anche al centro di un’attenta analisi di Dario Di Vico sulle pagine del Corriere della Sera di domenica. Assurdità e contraddizioni. Tuttavia né a livello nazionale né locale risultano in cantiere misure per affrontarle né tantomeno per risolverle. E a rendere quasi tragicomica la situazione, le decine di migliaia di posti di lavoro che rimangono scoperti non sono in settori dell’economia residuale, occasionale o stagionale, ma proprio in quelli trainanti, a partire dal turismo. E paradossalmente perfino in Sardegna, dove esistono oltre venti scuole alberghiere, capita — ha scritto Di Vico — che «non si trovino in loco abbastanza diplomati degli istituti alberghieri». E capita anche che siano migliaia i posti disponibili per gli operatori delle cure estetiche, anche se le scuole per formarli non mancano; ma manca ai ragazzi l’esperienza pratica per essere in grado di svolgere la loro professione con una preparazione adeguata. A limitare le loro competenze concorrono vari fattori; e una delle carenze più drammatiche nei tecnici e nei professionali è data anche dalla cronica inadeguatezza dei laboratori, un problema che la recente rivisitazione degli istituti professionali non mi sembra in grado di risolvere. Ma occorre anche soffermarsi sul tema dell’alternanza scuola-lavoro che non può né deve interrompersi, a mio parere, alla fine della scuola superiore. Sarebbe infatti opportuno che anche le Università, almeno nella grande maggioranza degli indirizzi, introducessero nei loro piani di studio qualificati percorsi di esperienza pratica per rimediare a una preparazione spesso troppo teorica. Certo, una università qualificata richiedi investimenti importanti e ci sembra a dire il vero improbabile una detassazione generale se si vuole davvero coniugare qualità, utilità e merito. Né possono essere solo i pochi e costosissimi Its (Istituti Tecnici Superiori) a garantire quanto serve all’economia nazionale. Rimangono, inoltre, le enormi responsabilità della gran parte delle Regioni che, pur obbligate dalla legislazione a occuparsi direttamente della formazione professionale, l’hanno usata in certi casi per finanziamenti, spesso illeciti, a organizzazioni e strutture scolastico-formative inadeguate, approssimative ed essenzialmente interessate al proprio tornaconto economico.
A tutto ciò si aggiunga l’incapacità, talvolta altrettanto scandalosa, di non saper programmare percorsi rispondenti alle vocazioni economiche locali. Perciò quei pochi giovani che hanno una adeguata preparazione, anche universitaria, per far fronte alle richieste delle imprese sono costretti a spostarsi da una regione all’altra per stipendi che nella maggior parte dei casi diventano così sufficienti alla mera sopravvivenza. Alla fine rimane e si amplia il paradosso da cui siamo partiti, quello della distanza tra ciò che il mondo del lavoro offre e la capacità di far fronte a queste offerte. Su come questa distanza possa essere colmata speriamo di ascoltare qualcosa di utile nel corso della campagna elettorale. Purché dopo ci si ricordi di un vecchio e poco seguìto proverbio che ammonisce: «Ogni promessa è debito».
Valerio Vagnoli

sabato 13 gennaio 2018

CONVEGNO S.O.S. ITALIANO - FIRENZE, SABATO 3 FEBBRAIO

Il convegno si propone di riprendere, con il contributo di importanti studiosi, temi e proposte dell'appello lanciato a febbraio da 600 docenti universitari “contro il declino dell’Italiano a scuola”. La necessità di intervenire sul problema della padronanza della lingua italiana da parte di alunni e studenti verrà messa in evidenza da diversi punti di vista. Su quello linguistico, dai professori Claudio Marazzini Presidente dell’Accademia della Crusca e Luca Serianni, Coordinatore della Commissione ad hoc nominata dalla Ministra Fedeli proprio in séguito all’appello; su quello delle difficoltà di apprendimento dal professor Michele Zappella, neuropsichiatra; su quello della scrittura  a mano dalla professoressa Valeria Angelini; sul piano storico-culturale dal dottor Pierandrea Vanni, scrittore e giornalista.