mercoledì 25 aprile 2018

VIOLENZA IN CLASSE, I MEA CULPA CHE QUALCUNO DEVE FARE (AL MIUR)

Il "Patto di corresponsabilità educativa fra scuola e famiglia" varato da Fioroni ha dieci anni e non è servito a nulla. Da dove ricominciare e come. 

Giorgio Ragazzini (Gruppo di Firenze) - "ilsussidiario.net", 24.4. 2018 

Nel 2007 fu introdotto dal ministro Fioroni il "Patto scuola-famiglia di corresponsabilità educativa", che doveva sancire un'alleanza in grado di garantire l'indispensabile clima di correttezza e di rispetto reciproco nelle aule scolastiche. In parole povere, la scuola si impegnava a fare di tutto per fornire un buon servizio; i genitori a leggere il regolamento di istituto e a farlo rispettare ai figli. Nelle superiori in genere si chiede anche agli studenti di condividerlo. Ebbene: in cosa si è risolta l'iniziativa nella grande maggioranza dei casi? In una frettolosa sottoscrizione del documento, previa frettolosa lettura, all'atto dell'iscrizione alla scuola.
Già il termine "patto" è sbagliato. Va bene a conclusione di una trattativa, in cui ciascuno ha concesso e ottenuto qualcosa. Ma qui si tratta, com'è ovvio, di una semplice presa d'atto delle regole che solo la scuola è legittimata dalla legge a stabilire e di cui deve assumersi tutta la responsabilità. Del resto il consiglio d'istituto, che ha il compito di approvare i regolamenti interni, comprende anche una rappresentanza dei genitori e, nelle superiori, degli studenti; ed è qui che può esserci il confronto tra le diverse componenti. 
Chiamarlo "patto", però, serve a coltivare l'illusione che una firma sia sufficiente a vincolare al rispetto di quello che c'è scritto. Serve anche a non parlare di sanzioni, perché altrimenti ce ne dovrebbero essere per tutti i contraenti, inclusa la scuola. Ma più ancora l'omissione è frutto di una pedagogia che ha espulso la punizione dal suo discorso, facendo intendere che sia l'opposto dell'educazione, negandogli cioè il carattere di strumento educativo fra gli altri, come l'esempio, l'esercizio, il richiamo. 
Quanto sia servito il patto educativo introdotto dal ministro Fioroni (che ha comunque alcuni meriti in direzione della scuola seria) lo dicono i fatti; e non solo quelli clamorosi di questi giorni e dei mesi scorsi, ma la lunga storia di fatica e di avvilimento, solo in minima parte raccontata, che tanti bravi insegnanti hanno vissuto negli ultimi decenni, privi del sostegno delle istituzioni (a cominciare spesso da quella più vicina, il dirigente) in una quotidiana battaglia per il rispetto delle regole. 
L'alleanza fra scuola e famiglia è importantissima, ma non serve certo, come ora si propone, una nuova edizione del "Patto". Va ricostruita — senza il minimo equivoco sulla distinzione dei ruoli — a partire dalla fermezza nell'esigere e nell'assicurare il massimo rispetto delle regole. Bisogna ripensare la comunicazione con i genitori a cominciare dai colloqui individuali, anche facendone oggetto di un aggiornamento dei docenti; promuovere incontri di formazione e di dialogo sulle difficoltà dei ruoli educativi; far emergere il pensiero degli studenti corretti danneggiati dall'indisciplina di alcuni compagni e quello delle famiglie che non gridano, non protestano e sono al fianco degli insegnanti, ma in silenzio. Ricordo che un sondaggio commissionato dal Gruppo di Firenze ha rilevato che due italiani su tre giudicano la scuola troppo poco severa riguardo al comportamento e considerano sbagliata la recente abolizione della bocciatura per l'insufficienza in condotta.
Detto questo, nella situazione della scuola descritta in questi giorni dai mezzi di comunicazione, sarebbe un sollievo sentire un responsabile politico, magari un ministro dell'Istruzione, dire "abbiamo sbagliato" — a fare della disciplina un tabù; a tollerare e persino a lodare le occupazioni; a non fare nulla per evitare che agli esami si copi a mani basse; a non criticare sanzioni risibili come la sospensione con obbligo di frequenza; a promuovere l'uso del cellulare a scuola; ad abolire il 5 di condotta come segno che esistono limiti insuperabili. Speriamo che almeno di fronte agli episodi degli ultimi mesi qualcuno venga assalito dalla realtà.

giovedì 19 aprile 2018

BASTA BUONISMO, SERVE CREDIBILITÀ


“Corriere Fiorentino”, 19 aprile 2018
“Chi è che comanda, eh! Chi è che comanda?... Si inginocchi!” urla il ragazzo dell’Istituto commerciale di Lucca al suo professore, mentre c’è chi riprende la scena col telefonino (alla faccia del suo “uso didattico”). E il possessivo “suo” ha qualcosa di sinistro in questa vicenda, visto che l’allievo si rivolge al docente come fosse appunto proprio suo, cioè alle sue dipendenze e sottomesso alla sua volontà. L'episodio è forse il più grave dei molti altri di queste settimane, perché sembra non avere nulla di estemporaneo, ma sia stato quasi preparato per metterlo in scena alla prima occasione. E in una scuola seria l'occasione per dare un’insufficienza a un ragazzo non è infrequente, specie con gli allievi poco responsabili, come non deve mancare l'opportunità di richiamarlo a un comportamento rispettoso dell'insegnante e di tutta la comunità scolastica. Se questa eventualità diventa fonte di paura per i docenti per le possibili reazioni di qualche allievo, siamo davvero al collasso della funzione educativa della scuola. Temo che fatti di questo genere, che si ripetono non solo per il meccanismo dell’emulazione, ma anche, e forse soprattutto,  per la mancanza di conseguenze importanti per i colpevoli, non siano destinati a diminuire né tantomeno a cessare se non si daranno finalmente risposte forti sul piano educativo. Soprattutto sarebbe opportuno che la finissimo con i piagnistei di certa compiaciuta pedagogia del “dialogo” che ha in orrore le sanzioni e che da troppi decenni sembra dominare la politica scolastica e ha letteralmente messo le tende nella burocrazia ministeriale e fra i responsabili scuola di tutti (ma proprio tutti) i partiti. La tendenza di questi decenni è sempre stata quella di colpevolizzare i docenti, considerati sempre responsabili dei risultati negativi, anche sul piano comportamentale, dei loro studenti. “La bocciatura è sempre un fallimento della scuola”: ecco la parola d’ordine regolarmente usata di fronte all’insuccesso scolastico. Un’affermazione che, salvo casi sporadici, le organizzazioni dei docenti e dei presidi si son sempre guardati bene dal contestare. Qualunque cosa accada di negativo all'interno di una classe o al singolo allievo, la colpa per la pedagogia corrente è sempre e soltanto della scuola e la scuola, intesa come comunità di educatori, ha finito con il convincersene. Non c’è da meravigliarsi se alla fine qualcuno ne trae le conseguenze.
L'altro problema è che il buonismo, sotto cui si cela spesso il sottrarsi al proprio ruolo educativo, ha probabilmente contribuito a deresponsabilizzare non pochi docenti; i quali – dai  e dai – hanno forse concluso che il quieto vivere è preferibile alle lotte contro i mulini a vento. E i mulini a vento sono appunto i dogmi ideologici che in questo senso hanno vinto, lasciando intendere ai genitori più prepotenti e ai loro figli educati come piccoli narcisi, ignari del principio di realtà, che tutto è lecito e che la scuola non vale nulla. Come non vale nulla, aggiungo io, qualsiasi istituzione che permetta di farsi beffe di lei. Dalla mia personale esperienza posso trarre poche certezze in assoluto, ma ho pochi dubbi sul fallimento educativo di gran parte dei colleghi troppo “comprensivi”. Quei docenti, tanto per intenderci che non riescono a dare insufficienze o che rifiutano per principio di alzare la voce o di comminare sanzioni disciplinari. Eppure esse, naturalmente se appropriate, rappresenterebbero un messaggio educativo prezioso per aiutare i ragazzi irresponsabili a rendersi conto che vincere nella vita non significa imporsi con la prepotenza.  
L'emergenza mi sembra sia oltre il livello di guardia ed è davvero opportuno che i dirigenti e i docenti considerino il problema della condotta tra quelli da affrontare immediatamente nei loro collegi. Il Ministero dell’Istruzione, per parte sua, dovrebbe garantire (almeno quella!) la tutela legale dei docenti e mettere in atto tutte le misure opportune in presenza di gravi offese nei loro confronti da parte di allievi e di genitori. Ne va della dignità e della credibilità della scuola, che deve ritrovare la forza per salvaguardare il ruolo, culturale e educativo, che la collettività le assegna. E ne va anche della sua dignità, che è anche quella dell’intera società!
Valerio Vagnoli

giovedì 12 aprile 2018

LA SVOLTA MANCATA DEI PROFESSIONALI

L’annuale Rapporto dell’Istituto Toniolo sulla condizione dei nostri giovani conferma ancora una volta, rispetto a quella di altri Paesi europei, un dato davvero sconfortante.
E cioè l’alta e sempre più insostenibile percentuale dei cosiddetti Neet, i giovani tra i 15 e i 29 anni che non sono impegnati nello studio o nel lavoro o in percorsi formativi. In Italia si attesta al 26% rispetto alla media Ue del 15,6%. Soprattutto si conferma come questi giovani provengano in maniera pressoché totale da famiglie meno abbienti soprattutto del Sud. Il timore, direi quasi la certezza, è quello di vedere questi numeri, che corrispondono a oltre 2 milioni di giovani, crescere inesorabilmente anche nei prossimi anni.
Uno dei motivi di questo pessimismo deriva dalla recente revisione degli istituti professionali. Ci aspettavamo che il ministero finalmente ponesse almeno qualche rimedio al loro progressivo snaturamento. Invece, dopo un anno di lavoro di una commissione ad hoc, si è dovuto constatare come la situazione sia addirittura peggiorata. Ci si è limitati infatti a un intervento di pura facciata che lascia più o meno le cose come erano (troppe materie-poca pratica), salvo aggravare il carico burocratico delle singole scuole che è, oggettivamente, al limite del collasso.
La mobilità sociale, che è un caposaldo di qualsiasi società liberale e anche la miglior garanzia perché le democrazie si mantengano tali, va, per i meno abbienti, estinguendosi. Al pari, verrebbe da dire non a caso, della qualità delle nostre scuole professionali. A dimostrazione di ciò, si registra la progressiva nascita, soprattutto in alcuni indirizzi professionali, di corsi privati post-diploma, con lo scopo di formare sul serio al lavoro i tanti giovani che dopo cinque anni di scuola sono ancora lontani dal possedere le competenze necessarie per poter svolgere una professione; quando non si tratta addirittura di doverli correggere dal punto di vista del comportamento e dell’educazione. Il che rende spesso ancora più difficile e faticoso a quell’età recuperarli a un lavoro realmente qualificato, al senso di responsabilità e alla consapevolezza dei loro doveri, beninteso unita a quella dei propri diritti. Senza contare che, in mancanza di un compiuta professionalità — che comprende la necessaria maturazione umana — i ragazzi rischiano, come alternativa alla disoccupazione, di finire alle dipendenze di datori di lavoro inaffidabili e disinteressati a investire sul cosiddetto capitale umano.
Ovviamente questi corsi sono a pagamento e perciò non aperti a chi non può permetterseli. Insomma, il sistema si avvita sempre di più e gli «ultimi» saranno inesorabilmente esclusi dalla possibilità di veder cambiato in meglio il loro destino, grazie anche a scuole professionali e tecniche che da decenni sono progressivamente venute in gran parte meno alla propria vocazione. Scuole che affogano inoltre in una burocrazia oramai elefantiaca, spesso nella retorica di una pseudo-inclusione e nella necessità di dare occupazione a una miriade di precari storici, arrivati alla cattedra senza più entusiasmi e passione, che sono per la qualità della scuola elementi imprescindibili. Come è imprescindibile non rinunciare a darle un senso. Purché non sia quello del parcheggio.
Valerio Vagnoli
“Corriere Fiorentino”, 11 aprile 2018