mercoledì 30 aprile 2008

RIALZATEVI, STUDENTI di Pier Luigi Battista

Un articolo sull'inserto "Style Magazine" del "Corriere della Sera". Si parla dell'auspicio berlusconiano, di stampo sarkosista, secondo il quale gli studenti dovrebbero alzarsi in piedi quando entrano i professori. Nella mia scuola si fa da anni e credo anche in altre; ma in quante? Scrivete a gruppodifirenze@libero.it .

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martedì 29 aprile 2008

ALL'ORIZZONTE DI NUOVO TUTOR E PORTFOLIO?

Pubblichiamo il collegamento alla Rassegna stampa del Ministero per leggere un articolo dal numero odierno di "ItaliaOggi", intitolato SCUOLA, PROGRAMMI IN RESTAURO. Vi si ipotizza, oltre alla revisione della normativa sui debiti varata da Fioroni (un ritorno indietro in chiave buonista o una correzione secondo buon senso?), la reintroduzione del tutor e del portfolio delle competenze, istituti "europei" bocciati dalla maggioranza dei docenti italiani. L'idea del portfolio, in particolare, è stata squalificata dai suoi stessi sostenitori che ne hanno ideato e pubblicato decine di versioni in gara per l'Oscar del Ridicolo per manifesta impraticabilità coniugata all'elefantiasi, tanto da essere di fatto accantonata dallo stesso ministero Moratti. Tuttavia il tentativo faceva (e eventualmente farà) parte della smanioso desiderio dei Pedagogisti Uniti di imporre ai docenti italiani La Vera Didattica. Quindi sarà meglio affilare le armi ...


http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?numart=HXS9I&numpag=1&tipcod=0&tipimm=1&defimm=0&tipnav=1


("ItaliaOggi" del 29/4/2008, pag. 1)

lunedì 28 aprile 2008

ULTERIORI CONSIDERAZIONI SU GIANNI di Valerio Vagnoli

Contrariamente a quanto ho scritto in Gianni riparte da zero lunedì 21 aprile, il ragazzo quest’anno non frequentava la seconda classe di un istituto professionale bensì, per la terza volta, la prima, senza speranze di salvarsi, appunto, dalla terza bocciatura.
La prima volta era bocciato nello stesso istituto frequentato quest’anno. L’anno scorso aveva cambiato indirizzo professionale, scuola e città, senza però riuscire ad evitare un altro insuccesso scolastico. Infine il ritorno nella stessa scuola di due anni fa: il solito disagio, la solita noia e la demotivazione da lui ampiamente sedimentata fino a quando non gli viene prospettata finalmente “la salvezza” attraverso la frequenza di un corso che mette in primo piano, senza però dimenticare le competenze culturali di base, l’esperienza professionale da acquisire attraverso stage ed esercitazioni in laboratorio.
Gianni, come abbiamo visto con molta evidenza nelle righe del suo componimento, trova e sperimenta per la prima volta in questo suo nuovo percorso l’entusiasmo per ciò che fa a scuola. Trova bravi i propri compagni e addirittura bravi anche i suoi insegnanti. Eppure quegli insegnanti a cui Gianni fa riferimento, bravi e preparati davvero, sono quasi tutti docenti che insegnano nella scuola già frequentata dal ragazzo e dove si svolge il corso che ora egli frequenta. Insegnanti che Gianni probabilmente non avrebbe né aveva fino ad ora apprezzato né valorizzato perché subiti insieme al grosso carico orario che si propina negli istituti professionali. E’ davvero impossibile farsi apprezzare dai ragazzi se, come docenti, ci tocca in sorte insegnare alla sesta e settima ora in classi che nelle ore precedenti non hanno conosciuto altro che lezioni, in qualunque modo tenute, e che niente hanno a che fare con quell’esperienza pratica che uno si aspetterebbe proprio in un Istituto professionale.
In quel clima diventa ugualmente impossibile ai Gianni trovare simpatici e bravi gli amici; quasi sempre accade l’esatto contrario, e cioè la rabbia e la frustrazione che i ragazzi accumulano stando ore ed ore seduti in classe spesso viene sfogata proprio nei confronti dei compagni, ed è opportuno prendere in considerazione anche queste situazioni per capire come possano maturare alcune dinamiche strettamente legate al fenomeno di certo bullismo.
Nel suo nuovo percorso Gianni è costretto a misurarsi, come abbiamo visto, anche con discipline finalizzate a costruirgli quelle competenze culturali di base che fino ad ora, malgrado il numero esoso di ore presenti nei percorsi scolastici tradizionali dedicate a ciò, non era stato in grado (?) di acquisire.
Adesso quelle competenze gli vengono trasmesse a piccole dosi e per questo le sa apprezzare, conosce e sa gestire la tempistica di una organizzazione didattica modulare che sa essere di breve durata, ha la certezza di passare tutta l’estate in attività di stage, sa che alla fine del secondo semestre (e non dei prossimi cinque anni) potrà anche andare a lavorare e pensa con tutta evidenza che il mondo scolastico può anche essere più bello e ricco di quanto aveva fino ad ora creduto e, incredibile, che i compagni e i docenti siano davvero bravi.

giovedì 24 aprile 2008

ARTICOLI DA "SOCRATE", LO SPECIALE DI "LIBERAL" DEDICATO ALL'EDUCAZIONE

Il "testamento" del ministro uscente Fioroni;
un colloquio con Giuseppe Valditara, che da molto tempo si occupa di scuola per conto di Alleanza Nazionale;
una (giusta) difesa della "lezione" contro gli insensati anatemi dei pedagogisti (finora) egemoni, di Giancristiano Desiderio; un appello alle convergenze di Beniamino Brocca (UdC).
"Basta scontri, siamo chiamati a educare" di Giuseppe Fioroni
http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?numart=HW52U&numpag=1&tipcod=0&tipimm=1&defimm=0&tipnav=1
Percorsi mirati e sana competizione, colloquio con Giuseppe Valditara di Francesco Lodico
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L'antica "lezione" non passi di moda, di Giancristiano Desiderio http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?go=Articolo+precedente&numart=HW55B&tipcod=0&numpag=1&maxpag=2&tipimm=1&defimm=0&titolo=&tipnav=1
"Un impegno leale per risolvere l'emergenza" di Beniamino Brocca
http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?go=Articolo+successivo&numart=HW54P&tipcod=0&numpag=1&maxpag=1&tipimm=1&defimm=0&titolo=&tipnav=1

mercoledì 23 aprile 2008

E BOLZANO INVENTA IL "QUATTRO POLITICO" di Gabriela Jacomella

("Il Corriere della Sera" del 23 aprile 2008)

Paola Mastrocola: profondamente in disaccordo. Il pedagogista Vertecchi: giusto, vanno eliminati i giudizi morali. Il presidente Durnwalder: chi mette 2 sbaglia, così gli studenti non riescono a recuperare più.


MILANO — Poi uno dice, le coincidenze. Perché sarà un caso, ma se la studentessa di Pontremoli avesse saputo delle rivendicazioni portate avanti dai suoi coetanei di Bolzano, forse non si sarebbe spinta fino al punto di farsi picchiare da due amiche per «distogliere» l’attenzione dei genitori dalle imminenti udienze con i prof. Motivo: voti bassi, bassissimi. Impresentabili. E così — pare — ieri è scattato il diabolico (e autolesionistico) piano. A Bolzano, invece, hanno deciso di lavorare d’anticipo. A scendere in piazza per il «4 politico », contro quei 2 e 3 «troppo difficili da recuperare», sono stati, giovedì scorso, duemila studenti delle superiori tedesche. E a sorpresa, lunedì è arrivata l’adesione di Luis Durnwalder, il «presidentissimo» della Provincia autonoma: i ragazzi hanno ragione, ha dichiarato, interverremo in tal senso. Al telefono, «Durni» conferma e approfondisce: «Dobbiamo dare un incentivo ai nostri giovani. Non basta dire che vale la pena studiare: se prendo 2 e alla verifica successiva prendo 8, ecco, 10 diviso due fa 5, no? Così si perde il coraggio, il senso del recupero». C’è anche, in quei numeri, il rischio di un’ulteriore ingiustizia: «Il 90% dei docenti già usano solo i voti dal 4 in su, mentre c’è un 10% di prof che, se non sai niente, ti dà 2. Così abbiamo deciso di intervenire. Non in maniera diretta, la legge non lo prevede; parleremo con gli insegnanti, le scuole». E così, a quarant’anni dal «6 politico», il gioco ricomincia. Al ribasso, però. «Mi sembra che questi studenti del Trentino si sottostimino: se proprio devi chiedere, chiedi il 6, no? Ragazzi, imparate dalla politica: se con l’1% Lombardo in Sicilia chiede un ministro, chi ha 2 in matematica almeno la sufficienza la deve pretendere...», rilancia il comico Dario Vergassola. Con tutto che, a ben guardare, quel 4 lì proprio da buttare via non sarebbe: «Se vi sembra un brutto voto, chiedetelo a Bertinotti...». Politica a parte, la battaglia di Durnwalder divide gli addetti ai lavori. Paola Mastrocola, autrice de La scuola raccontata al mio cane e docente in uno scientifico torinese, riassume: «Sono profondamente in disaccordo ». Comunicazione breve (causa impegni non rimandabili) ma inequivocabile. Il pedagogista Benedetto Vertecchi è invece meno netto: «Questi ragazzi non dicono "promuoveteci tutti", il 4 politico è anche una richiesta di uniformità di comportamento da parte dei docenti ». Più in generale, in Italia «abbiamo una scala di valutazione con lo stesso numero di posizioni sia nella parte positiva, che in quella negativa. Ma una volta distinto tra moderata e forte insufficienza, che senso ha? Poi un 2, un 3 sono più giudizi morali che di apprendimento». La soluzione? «Una scala a 5 punti, in cui la posizione centrale è la sufficienza». Ma il problema, per Eraldo Affinati (prof-scrittore che alla sua scuola, la Città dei Ragazzi, ha dedicato l’ultimo libro), sta ancora più a monte. «Definire con un numero la preparazione è sempre una convenzione tra studente e docente. L’importante non è il 4 o il 6, ma questo patto segreto; la percezione del voto non dev’essere matematica, il giudizio va argomentato, l’oggettività è illusoria. Ai ragazzi va spiegato che il voto è solo l’esito finale di un percorso educativo complesso. E il "4 politico", in questo senso, è una finta soluzione».

COMMENTO: Alle medie da molto tempo c'è solo il "Non sufficiente" (probabilmente ritenuto meno duro dell' "insufficiente " da qualche pedagogista "antitrauma"). Risultato: tra noi insegnanti c'è chi ha introdotto, almeno per le verifiche, il "parzialmente insufficiente", chi il "gravemente insufficiente" o il "Non del tutto sufficiente". Ma nella scheda quadrimestrale tutto torna a appiattirsi.
Differenziare il grado di insufficienza è essenziale anche per gli allievi. I progressi di chi parte da una totale impreparazione devono poter essere evidenziati il più possibile con precisione da una valutazione corretta, il che presuppone una maggiore scelta che non quella tra il "quattro" e il "cinque".
Anche questo fa parte ovviamente del contorto armamentario messo in piedi negli scorsi decenni per spuntare le unghie ai cattivi e aridi insegnanti.
Da notare infine la disinvoltura con cui il presidente Durnawalder si ripromette di "intervenire" a sostegno dei poveri studenti. Sarà l'ennesimo capitolo di quel disconoscimento della natura professionale dell'insegnamento che ha prodotto più di un mostro nella storia recente della scuola italiana. (GR)

lunedì 21 aprile 2008

GIANNI RIPARTE DA ZERO di Valerio Vagnoli


Sottopongo con piacere ai lettori del blog un documento umano, ancor prima che pedagogico, che un docente di un Istituto professionale dell’area fiorentina mi ha gentilmente trasmesso in fotocopia: la riflessione scritta di uno studente che a fine anno scolastico ha abbandonato la scuola in seconda superiore, dopo ripetute bocciature, per intraprendere un altro percorso formativo
Mi limiterò a trascriverla fedelmente nella speranza che possa essere letta almeno da qualcuno di quelli che “ad alto livello” si occupano di istruzione e che si ostinano a pensare e, ahimé, a permettere che l’obbligo scolastico si contempli solo nel sistema d’istruzione con conseguenze, nella formazione dei giovani, assai nefaste. Conseguenze che, da quanto si può leggere nel tema dello studente, appaiono ben intuibili nel percepire quanta frustrazione, alienazione e tristezza esistenziale gli abbiano procurato. Ma di questi perversi aspetti del nostro sistema scolastico, come Gruppo di Firenze, ci siamo più volte occupati.
Il ragazzo che ha scritto questa riflessione – chiamiamolo Gianni – è, come ho scritto sopra, un pluriripetente di un Istituto professionale da lui frequentato fino a poche settimane fa. Per sua fortuna, in questi giorni si è potuto iscrivere ad un percorso finanziato dalla Provincia di Firenze, finalizzato ad espletare l’obbligo formativo attraverso un progetto al di fuori del sistema scolastico tradizionale che gli possa dare, finalmente, la possibilità di cimentarsi con attività tecnico-pratiche, ridimensionando ad un terzo il peso di quelle tradizionalmente “scolastiche”.
Molti addetti ai lavori si ostinano a non voler diversificare le modalità con le quali i ragazzi potrebbero assolvere il nuovo obbligo scolastico. E’ probabile che molti di questi siano però favorevoli a concedere il voto ai sedicenni, ma agli stessi sedicenni ritengono giusto negare la libertà e la piena autonomia nel poter delineare il proprio futuro secondo le proprie aspettative e i propri desideri. Solo dopo ripetuti insuccessi scolastici si può concedere che si possano avviare verso una formazione veramente professionalizzante, ufficializzandola così come una sorta di ultima spiaggia per gli incapaci e immeritevoli. Non a caso così la percepiscono, anche a dispetto dei loro figli, i genitori e, giustamente, il ragazzo temeva che anche stavolta i propri sarebbero stati contrari a fargli abbandonare “la scuola”.
Buona lettura!

Tutto ricomincia da zero

Niente da fare, avevo fallito anche questa volta. La scuola non la sopportavo proprio, naturalmente sarei bocciato anche quest’anno e sono sicuro che i miei non l’avrebbero digerita, mi sembrava tutto finito finché la bella notizia arrivò: un corso speciale di pasticceria con un mucchio di ore pratiche e poca teoria. Wow sembrava veramente un sogno, l’unica cosa che guastava era: i miei avrebbero acconsentito? Tornai a casa tutto contento del mio progetto e miracolosamente acconsentirono senza obbiezioni. Dio esiste, e questa è la prova! Qualche giorno dopo incominciai il corso e fortunatamente stà andando alla grande; ho professori bravi, compagni ancora meglio, e i miei voti stanno andando bene, che voglio di +. Morale. A volte ripartire da zero è veramente positivo.

SENZA SCUOLA NON C'E' SVILUPPO di Giorgio Israel ("Il Mattino")

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LA GERMANIA SI INTERROGA: PERCHE' I FIGLI DEGLI IMMIGRATI ITALIANI A SCUOLA SONO I PEGGIORI? di Chiara Saraceno ("La Stampa")

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Commento all'articolo: Come si vede neppure alla sociologa Saraceno (come in genere agli autori di articoli sui sistemi scolastici altrui) viene in mente un'ipotesi: e se fosse il risultato di una cultura (la nostra) che ha per decenni contrastato il rigore e il merito nella scuola e fuori? Una cultura arrivata a vergognarsi di valori come serietà, disciplina, doveri, contrapponendoli erroneamente alla comprensione e alla vicinanza emotiva con i figli e gli allievi...
E' solo un dubbio, si capisce. Ma sarebbe bene che gli studiosi cominciassero a prenderlo in considerazione. GR

giovedì 17 aprile 2008

BRUTTA SCUOLA SE PROMUOVE IL BULLISMO (di Marcello D'Orta) e ALTRI ARTICOLI DAI GIORNALI DI OGGI

Una scelta di articoli sulla scuola dalla rassegna stampa del Ministero della Pubblica Istruzione.
BRUTTA SCUOLA SE PROMUOVE IL BULLISMO, di Marcello D’Orta (“Quotidiano Nazionale”)
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È PIÙ FACILE RIFARE UNA TESTA CHE EDUCARE, PER QUESTO TEMONO LA SCUOLA DEL MERITO, di Giorgio Israel (“Il Giornale” e “Tempi”)
http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?go=Articolo+successivo&numart=HTGZK&tipcod=0&numpag=1&maxpag=2&tipimm=1&defimm=0&titolo=&tipnav=1


ZERO IN CONDOTTA DIECI IN SERIETÀ, di Cesare Paroli (“Quotidiano Nazionale”)
http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?go=Articolo+successivo&numart=HTB53&tipcod=0&numpag=1&maxpag=1&tipimm=1&defimm=0&titolo=&tipnav=1


AVANTI COSÌ E LA SCUOLA FINISCE COME L’ALITALIA, di Giuseppe Bertagna (“Liberal”)
http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?go=Articolo+successivo&numart=HTED4&tipcod=0&numpag=1&maxpag=1&tipimm=1&defimm=0&titolo=&tipnav=1


LA LEZIONE COME PRESUPPOSTO DELL’APPRENDIMENTO, di Giancristiano Desiderio (“Liberal”)
http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?go=Articolo+successivo&numart=HTF2W&tipcod=0&numpag=1&maxpag=1&tipimm=1&defimm=0&titolo=&tipnav=1

domenica 13 aprile 2008

BERLINGUER AL CONTRATTACCO di Giorgio Ragazzini

[A destra una vignetta del 2000: la pagella di Berlinguer dopo i primi tre anni di ministero]


Il sito ilsussidiario.net ospita una lunga intervista a Luigi Berlinguer, che ultimamente si fa sentire con frequenza, soprattutto da quando ha letto la lettera ai partiti di Pirani, Israel, Ferroni, Belardelli, Givone, Sartori, Veca, Schiavone e diversi altri intitolata Scuola: un partito trasversale del merito e della responsabilità. Sulle reazioni a questo documento e alle ragioni con cui alcuni dei firmatari hanno motivato la loro adesione si legga poco sotto l’intervento del professor Giorgio Israel.
Per parte mia mi limito a commentare due passaggi dell’intervista, per altro cruciali. Il primo riguarda i possibili sviluppi di carriera professionale dei docenti.

D. Entrambi i programmi parlano di carriera per gli insegnanti basata sul merito: ma come si attua concretamente, e con quali criteri, una carriera per gli insegnanti? Allo stato attuale è ancora una cosa tutta da inventare…


R. Prima una battuta: dov’erano tutti i signori che ne parlano quando io ci ho provato senza il sostegno necessario per introdurre una novità così radicale? Io mi sono sentito un po’ solo; ho commesso qualche errore, ma avevo ragioni da vendere. Venendo alla questione in sé: non si può essere insegnanti allo stesso modo i primi due o tre anni di lavoro e gli ultimi cinque dieci anni di lavoro, perché anche l’esperienza didattica fa parte dell’arricchimento professionale. Non piace la parola carriera? A me sì. A chi non piace, si parli di una crescita professionale degli insegnanti verificata e riconosciuta, sia nella successiva funzione da svolgere, sia nello stipendio. Questo avviene in tutte le professioni e non capisco perché non debba avvenire nel mondo dell’insegnamento. Dove si fonda la presunzione sbagliata di chi è contrario alla carriera? Nell’idea che esista una sola funzione di insegnante, quella “ex cathedra”. Ma la scuola moderna, la comunità educante, prevede anche diverse figure: dal coordinatore di un dipartimento disciplinare dentro la scuola (per esempio il dipartimento di scienze), a colui che si occupa prevalentemente di discipline più teoriche, a tutta l’attività che si intreccia tra pratica e teoria e quindi alle forme organizzate di una scuola fatta di équipe e non solo di singoli. Quindi mi sembra molto importante che si preveda questo sviluppo professionale riconosciuto.


Sembra proprio che l’ex ministro si sia dimenticato di quello che aveva deciso nel 1999: cento quiz e una prova pratica per selezionare una quota prestabilita – il 20% – di docenti da pagare di più (circa trecentomila lire al mese). Il merito sarebbe entrato nella scuola attraverso un’avvilente lotteria (come la definì Riccardo Chiaberge sul “Corriere della Sera”) e per di più questa fascia di “eccellenza” avrebbe continuato a fare lo stesso lavoro di prima. Oggi, molto più sensatamente, ma con il torto di far finta che anche allora la proposta fosse questa, Berlinguer prospetta la necessità di dotare le scuole di figure professionali a cui affidare ruoli ormai indispensabili quali (traduco dal contorto berlinguerese) il coordinamento della ricerca didattica, l’aggiornamento, la progettazione curricolare (dove necessaria), il sostegno ai nuovi docenti. La valorizzazione di questi e altri talenti professionali connessi, ma non identici, all’insegnamento, fa indubbiamente parte dei problemi all’ordine del giorno; e avviene, si può dire, in ogni altro ambiente professionale. Anche se la priorità delle priorità (purtroppo sgradita alla delicata sensibilità italica e acuita dalla pluridecennale cura sindacal-corporativa) sarebbe quella di eliminare le “mele marce” (chi si comporta male) e quelle che non ce la fanno essere mele (i pur rari casi di totale inettitudine).
Andando un po’ avanti nell’intervista, Berlinguer ci offre un chiarissimo esempio di come i grandi voli della “nuova” metodologia, a cui dovrebbe piegarsi la scuola italiana, atterrino miserevolmente e un po’ comicamente sul terreno della concretezza:

D. Ritiene cioè necessario far in modo che l’autonomia porti a un cambiamento delle tecniche di insegnamento?


R: Le rispondo con un esempio: se un viaggiatore dell’Ottocento girasse per una città italiana, non riconoscerebbe quasi nulla, né del modo dei trasporti urbani, né dell’urbanistica, né del tipo di traffico, né persino ormai della consistenza urbana: non riconoscerebbe niente, se non una piccola parte del centro storico. Quando entrasse in una classe troverebbe la classe di quando lui era bambino, di quando vi avevano studiato i propri figli: la cattedra, il banco, le mura. Anche le discipline sono le stesse, e poi l’alternarsi di seconda ora, terza ora, quarta ora, la ricreazione e poi lo sciamare alla fine delle lezioni: identico. Non c’è niente che sia rimasto fisso e identico come a scuola. Oggi le necessità e le forme dell’apprendimento sono completamente cambiate. La comunità educante deve invece darsi la propria forma organizzata nuova. Ad esempio, in certe occasioni si riuniscono dieci ragazzini a parlare in inglese tra di loro o a fare un esperimento in laboratorio; in un altro momento si riuniscono invece trenta ragazzini, per una lezione di storia. Significa un organizzarsi in cui i docenti, il collegio, il preside dettano le regole e diventano centrali. La centralità del docente è nell’autonomia intesa come ricerca didattica; è questa la vera rivoluzione.


Aggiungo soltanto, ripromettendomi di dedicare un intero intervento alla questione, che da trent’anni ad oggi la “centralità” e l’autonomia dei docenti sono state concepite, dall’alleanza tra pedagogisti e sindacati, come mero adeguamento a un’indiscussa verità calata dall’alto ad opera delle varie “agenzie” abilitate e dalle facoltà di scienze dell’educazione. In altre parole: per gli scolari, “l’autoapprendimento”; per i professionisti della formazione, l’imbonimento.

(L'intervista completa a Berlinguer si può leggere al seguente indirizzo: http://www.ilsussidiario.net/articolo.aspx?articolo=1422 )

È IL BLOCCO SINDACAL- PEDAGOGISTA A STRANGOLARE LA SCUOLA, di Giorgio Israel

(da http://www.loccidentale.it/)
"Sono solo capaci di seminare odio, contrapposizione e passato" ha detto Veltroni dei suoi “avversari” politici, ovvero del centro destra. Ma è facile constatare chi sono i veri seminatori di odio e contrapposizioni, abili nel porre il divieto di parlare del passato soltanto quando esso riguarda i propri errori. Un esempio?
È bastato un appello bipartisan, che evocava soltanto due temi, il “merito” e la “responsabilità” – due soltanto, per non alimentare divisioni entrando troppo nello specifico e a costo di restare sul generico – per scatenare un’ondata di odio e di contrapposizioni inimmaginabili.
Giova ricordare che questo appello alla “scuola del merito e delle responsabilità” è stato promosso da un gruppo di docenti fiorentini (Gruppo di Firenze); firmato (in ordine alfabetico) da Giorgio Allulli, Gian Luigi Beccaria, Giovanni Belardelli, Remo Bodei, Piero Craveri, Giorgio De Rienzo, Giulio Ferroni, Ernesto Galli Della Loggia, Sergio Givone, Giorgio Israel, Mario Pirani, Lucio Russo, Giovanni Sartori, Aldo Schiavone, Sebastiano Vassalli, Salvatore Veca; e presentato con una conferenza stampa al Liceo romano Visconti.
La prima ondata di odio incontenibile è venuta nel corso di un’assemblea sindacale. Il segretario della Cisl scuola ha chiesto come potessero "perorare la causa del merito un gruppetto di docenti universitari ed editorialisti - fuori dal sistema scolastico da 30 anni e che percepiscono 800 euro ad articolo - se prima non ci spiegano come hanno raggiunto il loro status professionale"… Non intendiamo soffermarci ulteriormente su questa vicenda perché è stata già commentata benissimo su L’Occidentale da Gaetano Quagliariello (“Pure Fioroni ha svenduto la scuola ai sindacati”)
Rifletta soltanto il lettore a questa anomalia tutta italiana, per cui mentre si strombazza da mane a sera la “cultura della valutazione”, un burocrate sindacale, invece di rendere conto lui di quali titoli possieda per pontificare e fare piani sulla scuola, chiede a studiosi come quelli succitati di render conto di come sono andati in cattedra.
E non si dica che questa faccenda non riguarda il centro sinistra perché davanti al sindacalista padrone sedeva il ministro Fioroni che non ha fatto una piega nonché il professor Silvano Tagliagambe, consigliere dell’ex-ministro Berlinguer e di certo non “berlusconiano”.
Ma non è bastato. In un articolo pubblicato su L’Unità il 2 aprile 2008, Andrea Ranieri, responsabile scuola del Pd, ha apprezzato i vari appelli bipartisan sulla scuola, meno uno, guarda caso il nostro. Ha ripetuto la solita tiritera e cioè che «ben vengano gli appelli al merito e alla responsabilità, purché non fatti con la testa rivolta all’indietro». Al che va risposto che soltanto i cocciuti se finiscono sul ciglio di un burrone non tornano indietro, e che le persone libere di mente guardano dappertutto, davanti, indietro, a destra, a sinistra, sopra e sotto ed evitano la consunta quanto vacua retorica del “Terzo Millennio”. Siamo stati gratificati del titolo di «laudatori del bel tempo passato, cui evidentemente la scuola è andata bene, tanto è vero che scrivono sui libri e sui giornali». A parte il fatto che almeno io – ma penso anche gli altri firmatari dell’appello – scrivo libri e non scrivo “sui” libri, questa faccenda che scriviamo sui giornali (oltre che sui libri) deve essere un tormentone per questi signori. Non ci vuole uno psicanalista a capire che sarebbero felici che la stampa ci chiudesse le porte. Tutti con questa storia dei giornali: prima il segretario Cisl, che addirittura fissa una tariffa astronomica di prestazioni, poi Ranieri, e infine, a quanto raccontano, anche l’ex-ministro Berlinguer.
Difatti, a quanto viene riferito, nel corso di un’iniziativa elettorale del PD sulla scuola (il 7 aprile a Roma, con la partecipazione dello stesso Ranieri, di Maria Coscia, Silvia Costa ed altri, e l’intermezzo musicale di un gruppo rock) pare che egli abbia duramente attaccato i firmatari dell’appello per la scuola del merito e della responsabilità definendoli (ma che coincidenza) “laudatores temporis acti”, relitti del passato capaci soltanto di pontificare sui giornali, ma per il resto spazzati via dalla storia. Pare che egli abbia lamentato che l’Italia sia l’unico posto al mondo in cui esiste ancora una simile cultura “morta”, “deduttivistica” e “selettiva” ed ha accusato i suoi decrepiti fautori di essere responsabili del fatto che gli insegnanti proseguono nel loro sciagurato attaccamento alla didattica ex-cathedra. Insomma, è esploso un incontenibile fastidio per questi maledetti insegnanti che non si adeguano ai precetti del pedagogismo progressista. Berlinguer avrebbe anche parlato di una rivoluzione epistemologica in atto, sostenendo che la scuola deve fondarsi su una riconciliazione tra emisfero destro e sinistro (quelli del cervello) che, secondo rigorosissimi studi cognitivi-pedagogici-psicometrici, sarebbe l’unico possibile fondamento di un apprendimento che promuove e include anziché selezionare ed escludere. E avrebbe proclamato che è ora di abbattere definitivamente la cattedra per realizzare la scuola-servizio.
Nell’ambito di tutte queste manifestazioni è stata puntualmente riproposta l’ideologia del metodologismo pedagogico secondo cui quel che conta è “come si fa” e non “quel che si fa”, non le discipline ma le competenze, non i contenuti ma le tecniche di apprendimento, l’ideologia dell’autoapprendimento, dell’insegnante come “facilitatore”, come “guida”, come “accompagnatore”. «Meglio una testa ben fatta che una testa piena» ha proclamato Tagliagambe davanti a sua maestà il sindacalista Cisl e a Fioroni (rinvio al commento che ne ho fatto su Il Messaggero, vedi anche gisrael.blogspot.com ). E Berlinguer – presentando i risultati della sua commissione ministeriale – ha riproposto il solito mantra dell’approccio “laboratoriale” alla scienza; analogo al principio secondo cui la musica si studia suonando e senza apprendere il solfeggio e il nuoto entrando in acqua. (È soltanto nei film di John Wayne che i bambini, lanciati in acqua senza apprendere loro come stare a galla, sopravvivono). Di passaggio, è bene notare che, se l’Italia è un paese pieno di “laudatores temporis acti”, di certo è l’unico in cui un giurista presiede al contempo una commissione per la cultura scientifica tecnologica ed una per la musica. Ma di che stupirsi? Da noi, chi ha testa nel Terzo Millennio sa le conoscenze non contano nulla, contano soltanto le metodologie.
Altro quindi che clima tranquillo. Basta pronunziare le parole “merito” e “responsabilità” per scatenare la reazione virulenta della triade che da un trentennio almeno tiene la scuola sotto il suo tallone: sindacati, settori della burocrazia ministeriale ad essi strettamente collegati e i “consulenti” pedagogisti, questi sì personaggi eminentemente trasversali, capaci di migrare in ogni contesto politico pur di conservare il loro influsso. Non è certamente un caso che costoro reagiscano al malcontento che sentono montare in modo duplice: picchiando duro contro coloro che osano mettere in discussione il loro modello (definiti lodatori del passato, decrepiti relitti della storia, ormai spazzati via: ma allora perché prendersela tanto?); e, d’altra parte, proponendo un gestione bipartisan, o addirittura un “inciucio” che però – guarda caso – dovrebbe preservare soltanto i punti che interessano a loro, inclusa la continuità del loro potere, e non quelli che interessano agli altri. Corrispondentemente, mentre cavalcano i rapporti Ocse-Pisa come pretesto per riproporre le loro disastrose ricette, sono costretti a dire che poi le cose non vanno tanto male. Come potrebbero evitare questa contraddizione, visto che sono loro i padroni del sistema dell’istruzione da decenni?
Di qui il carattere falsamente bipartisan dell’appello “Patto per la scuola” di cui gli autori principali sono tra i massimi interpreti dell’ideologia berlingueriana: esso rappresenta il tentativo di riproporla sotto (neanche tanto) mentite spoglie. Questo appello ha raccolto firme di quasi tutte organiche a quell’ideologia nonché quelle dei soliti pedagogisti la cui unica preoccupazione è di veder applicate – non importa quale forza politica lo conceda – le loro bizzarre teorie, come quella dell’apprendimento olistico che dovrebbe sostituire quello disciplinare.
La consapevolezza della natura del nodo scorsoio che strangola la scuola – l’intreccio sindacal-burocratico-pedagogista – è sempre più diffusa e l’impopolarità di questi attori è crescente in modo vistoso. Sarebbe bene rendersene conto, soprattutto a livello politico. Se nessuno se la sentirà di tagliare questo nodo scorsoio, se non si smetterà una buona volta di parlare sempre di metodologie, di tecniche, di ingegnerie gestionali invece che guardare a fondo a quel che si sta insegnando – perché è qui che si annida il germe della catastrofe – allora non vi sarà possibilità di arrestare il declino della scuola italiana. Questa sarebbe l’unica intesa bipartisan sensata e possibile.

giovedì 10 aprile 2008

SCUOLA: LIBRI DI STORIA CON TESI A CONFRONTO (con una postilla su Berlusconi e l’egemonia della sinistra)

L’intenzione manifestata da Marcello Dell’Utri di far riscrivere la storia della resistenza nei manuali scolastici all’indomani delle elezioni è già stata abbastanza sbertucciata dai commentatori. Rimane semmai insoddisfatta la curiosità sul come: una velina di Palazzo Chigi indirizzata a tutti gli editori? Il commissariamento pro tempore della case editrici? Come dicono i politici, però, “il problema esiste” (benché dagli anni settanta di passi avanti verso un maggiore equilibrio se ne siano fatti). Ed esiste non soltanto riguardo alla resistenza. Se come insegnante di lettere posso esprimere un auspicio è che i libri di storia, oltre a fornire una narrazione degli eventi passabilmente obbiettiva, mettano a confronto le tesi degli studiosi su alcuni temi storiograficamente più controversi. Citando passi delle loro opere o sintetizzandone le opinioni. È questo confronto di idee che veramente manca quasi sempre nei testi scolastici e che potrebbe illuminare i giovani sulla problematicità della ricostruzione storica.
Detto questo, mi pare giusto aggiungere una considerazione sull’ egemonia della cultura di sinistra, non a torto ricordata più volte da Berlusconi. Il leader del PdL non è solo un politico di indubbie capacità, ma anche il proprietario del Gruppo Mondadori, nonché produttore televisivo e cinematografico ed editore di giornali. Non era proprio possibile fare qualcosa di più per ricordare l’altra Shoah, quella provocata dalle rivoluzioni comuniste?
Anni fa cercai il film La confessione di Costa Gavras (1970), sui processi staliniani a Praga, per farlo vedere (altro non conoscevo) ai miei allievi di terza media. Appresi che nessun produttore ne aveva mai fatto una videocassetta.
Quanto dovremo attendere il diario di un’Anna Frank dell’est europeo o uno Spielberg che documenti, per le nuove generazioni, “il passato di un’illusione” con le sue tragedie?

(Giorgio Ragazzini)

mercoledì 9 aprile 2008

UN INCIUCIO VIRTUOSO PER LA SCUOLA di Attilio Oliva*

('Corriere della Sera' 9 aprile 2008)

Caro direttore, le cronache di queste settimane offrono motivo di cauta speranza a chi, come TreeLLLe, è impegnato da anni nel promuovere una cultura della qualità e del merito nella scuola. Abbiamo letto prese di posizione di soggetti autorevoli: penso al decalogo di Confindustria, alla proposta dell’Anp sulla scuola, all’appello del Gruppo di Firenze, alle firme raccolta del Gruppo del Buonsenso. Non meno incoraggiante è stato leggere i commenti di apprezzamento espressi in merito da esponenti politici di primo piano dei due schieramenti, quali Bastico, Ranieri, Aprea e Valditara. Un positivo atteggiamento bipartisan su un tema strategico come la qualità dell’istruzione non correrebbe certo il rischio di essere confuso con “inciuci” di alcun genere.Tutto bene, dunque: o quasi. Perché al coro manca una voce importante, quella dei sindacati del personale della scuola, una voce che fino a oggi ha espresso orientamenti di segno molto diverso. Perché la nostra scuola volti pagina, si deve allora sollecitare un nuovo atteggiamento del sindacato che non può più avere, come di fatto finora ha avuto,, una pesantissima influenza sull’organizzazione del servizio: solo l’amministrazione ne ha la responsabilità piena.Ma il nodo sta soprattutto nel ruolo della politica e delle responsabilità che questa si deve assumere per privilegiare gli interessi dei cittadini insegnanti. Purtroppo a prevalere son spesso gli interessi di questi ultimi, come rappresentati daai sindacati, complici delle debolezza della politica e subalternità dell’amministrazione: così si determinano orari insostenibili per gli sutdienti, un eccesivo numero di discipline, sanatorie per il reclutamento, gonfiamento dei posti di lavoro, etc. Proprio l’abnorme espansione del numero degli addetti ha costituito il principale ostacolo alla possibilità di riconoscer loro trattamenti economici più dignitosi. Si tratta ora di invertire una politica che ha prodotto danni gravi. Ciò di cui il nostro Paese ha bisogno non è dell’ulteriore impiegatizzazione degli insegnanti, ma della loro incentivata professionalizzazione.

Vorrei ricordare quali sono, secondo TreeLLLe, gli interventi realmente indispensabili, già praticati da anni nei Paesi più evoluti:
alleggerimento degli ordinamenti. Non più di 30 ore settimanali di lezione, articolate fra un nucleo di saperi fondamentali comuni a tutti e una significativa quota di materie opzionali, fra le quali gli studenti dovrebbero poter scegliere. Del nucleo comune dovrebbe far parte un rafforzamento dell’inglese e delle materie scientifiche;
autonomia per le scuole. Si tratta di dare maggior fiducia agli operatori e incoraggiarne l’orgoglio professionale attraverso la valutazione del merito e il riconoscimento dei risultati; istituire un nuovo modello di governante degli istituti a partire da organi collegiali snelli, aperti al territorio ed a persone competenti ed inserite nel mondo della produzione e della cultura; attribuire alle scuole risorse finanziarie più consistenti delle attuali ed alleggerire i troppi vincoli che ancora gravano sul loro utilizzo; trasferire alle scuole una progressiva autonomia nella gestione degli organici a cominciare con la chiamata diretta di tutto il personale a tempo determinato e di quello impegnato sulla quota del 20% di autonomia didattica, rafforzare la leadership delle scuole, professionalizzando i dirigenti, consentendo loro di scegliere tra gli insegnanti i collaboratori più stretti;
valutazione dei risultati. I governanti e le famiglie sono privi di indicatori affidabili sulla qualità delle scuole. All’Invalsi (Istituto nazionale di valutazione del sistema) reso ancor più indipendente e autorevole, vanno attribuiti due compiti: innanzitutto rilevare, attraverso test centralizzati a intervalli predefiniti, gli apprendimenti di tutti gli studenti sulle materie chiave e poi renderli pubblici; in secondo luogo, valutare il lavoro ed i risultati dei dirigenti delle scuole perché da loro dipende la qualità del clima scolastico e il valore aggiunto che si può ottenere da insegnanti motivati e ben supportati nel loro sviluppo professionale;
riconoscimenti per il merito. La valutazione non ha senso se non si accompagna a riconoscimenti concreti per chi fa meglio. Il collegamento stretto fra valutazione costante e attribuzione di premi per i migliori (le migliori scuole, i migliori dirigenti e i migliori insegnanti) è una regola aurea per dare efficacia a qualunque sistema. Dimenticarlo nella sucola significa minare quel principio di emulazione che è una delle componenti essenziali del processo educativo.
*Presidente dell’Associazione TreeLLLe

TESTE VUOTE MA "BEN FATTE" di Giorgio Israel

«Meglio una testa ben fatta che una testa piena». Questo è uno dei tanti slogan di coloro che propugnano la sostituzione della “scuola delle conoscenze” con la “scuola delle competenze”, il primato delle metodologie didattiche sui contenuti dell’insegnamento, il passaggio dal “sapere” al “saper fare”. Tralasciamo qui l’imbarazzante questione di chi si arroga il diritto di stabilire come sia una “testa ben fatta” (presupponendo che tale sia la sua) e ha la presunzione di “fare” quella degli altri su questo modello: è un modo di vedere che evoca un’inveterata propensione totalitaria di stile sovietico a “rifare gli uomini” su basi ideologiche, qui rappresentate dalle ideologie didattiche. Concentriamoci piuttosto sulla visione soggiacente della conoscenza e della scienza. È una visione che ispira anche il documento prodotto dalla commissione per la cultura scientifica e tecnologica presieduta dall’ex-ministro Luigi Berlinguer, che ha proposto come panacea per la crisi attuale la sostituzione di un apprendimento «scolastico, cartaceo, nozionistico e deduttivistico» – si noti l’attribuzione di una valenza negativa al termine “scolastico” – con un approccio sperimentale, pratico, «laboratoriale». È una proposta basata su una visione riduttiva, se non banalmente sbagliata della scienza. Come ha osservato il matematico Enrico Giusti, in una pungente e dettagliata critica del documento (Notiziario di ottobre 2007 dell’Unione Matematica Italiana) «il laboratorio non è la scienza, meno che mai tutta la scienza» e «appiattirsi su un’immagine unidimensionale della scienza porta a un impoverimento altrettanto se non più grave di quello lamentato». Non è fuggire nell’astrazione ricordare l’idea su cui si è costruito il successo della scienza moderna. Essa è stata così descritta dal grande storico della scienza Alexandre Koyré: «È curioso: Pitagora aveva proclamato che il numero è l’essenza stessa delle cose, e la Bibbia aveva insegnato che Dio aveva fondato il mondo sopra “il numero, il peso, la misura”. Tutti l’hanno ripetuto, nessuno l’ha creduto. Per lo meno, nessuno fino a Galileo l’ha preso sul serio. Nessuno ha mai tentato di determinare questi numeri, questi pesi, queste misure. Nessuno si è provato a contare, pesare, misurare. O più esattamente, nessuno ha mai cercato di superare l’uso pratico del numero, del peso, della misura nell’imprecisione della vita quotidiana – contare i mesi e le bestie, misurare le distanze e i campi, pesare l’oro e il grano – per farne un elemento del sapere preciso». Koyré spiegava che il padre della scienza moderna non è Bacone – che proponeva la semplice registrazione e classificazione dei fatti – bensì Galileo e la sua visione matematica del mondo. Può sembrare paradossale che un grande sperimentatore come Galileo definisse la sua scienza “matematica purissima”. Egli seguiva il principio che la raccolta indistinta di fatti non porta da nessuna parte e che le scoperte si fanno seguendo principi concettuali. Il cannocchiale di Galileo non è un marchingegno come le macchine medioevali con cui si strappavano segreti alla natura, ma un oggetto concettuale, un’applicazione delle leggi dell’ottica e, in quanto tale, replicabile in modo uniforme.Il successo della scienza occidentale e la possibilità stessa della tecnologia sta qui: in una relazione tra teoria e pratica in cui la scienza teorica ha un ruolo primario. La grande scienza – dalla meccanica di Newton alla relatività di Einstein alla progettazione del computer digitale – è soprattutto deduttiva. È un modello che gli Stati Uniti hanno ereditato dall’Europa e sviluppato. La chiave del successo di questo modello sta nei finanziamenti a fondo apparentemente perduto di ricerche di cui non si vedono le applicazioni immediate.Sembra che ciò sia stato dimenticato da chi propone ostinatamente un modello di insegnamento basato sulle “pratiche”, sul “laboratorio”, sulla preminenza del “saper fare” sul “conoscere” e va contro il principio che ha decretato il successo storico della scienza e della cultura occidentali, nonché la loro globalizzazione, per cui oggi sono altri a impossessarsi di quel modello mentre noi lo abbandoniamo. È un principio che non implica alcuna contrapposizione tra “sapere” e “saper fare” e anzi porta alle forme più efficaci e trasmissibili del “saper fare”. Se lo abbandonassimo torneremmo alla scienza pratica dei babilonesi o degli antichi egizi, a un mondo del pressappoco più arretrato di quello della civiltà greca la quale, se non teneva in gran conto le pratiche, esaltava le conoscenze. Mentre qui rischiamo di perdere con le seconde anche le prime.Ma v’è un altro aspetto cruciale: la centralità della conoscenza attribuisce un ruolo decisivo alla “cultura generale” come terreno di formazione di individui autonomi e capaci. Perché mai la scuola di Giovanni Gentile, malgrado l’impostazione idealistica e la scarsa attenzione per la scienza, non ha impedito che l’Italia sia rimasta a lungo un paese che sfornava scienziati di primo piano e giovani studiosi che primeggiavano all’estero? Anzi, era risaputo che i diplomati dei licei classici riuscivano meglio in materie scientifiche di quelli provenienti dai licei scientifici. Ciò è accaduto perché la riforma Gentile ha creato una scuola capace di formare uomini dotati di “cultura generale”, ovvero di quelle solide basi che permettono di orientarsi in ogni situazione e anche di essere buoni cittadini, assai meglio di quanto facciano gli attuali miserandi corsi di Convivenza Civile. Certo, oggi occorre adeguare la scuola alla società contemporanea e attribuire ben altro ruolo alla cultura scientifica. Ma se ci accingeremo a questo compito buttando alle ortiche la conoscenza a profitto di “pratiche” prive di basi concettuali – e per giunta con la diabolica presunzione di voler “rifare le teste” non importa se vuote (anzi meglio se lo sono perché così sono più controllabili) – prepareremo con certezza la nostra decadenza culturale, scientifica e tecnologica. La controprova è data dal caso francese, che pure soffre di difficoltà analoghe alle nostre: una delle poche cose che ancora funzionano in Francia è la Classe préparatoire alle “grandi scuole” tecniche che fornisce alle future élites una preparazione ad alto livello basata sulla cultura generale. Accadrà anche di peggio se insisteremo nel voler trasferire alla scuola una logica aziendalistica che non le è propria (per giunta gestita dai sindacati): difatti, ciò che rende efficiente l’istruzione è la qualità delle conoscenze trasmesse e il rapporto interpersonale tra insegnanti e allievi e non quelle tecniche organizzative che funzionano benissimo nelle aziende, e che invece nella scuola rischiano di produrre vuoto metodologismo, decadenza culturale e crollo dei principi etici.
(Messaggero, domenica 6 aprile 2008)

lunedì 7 aprile 2008

SCUOLA, ABOLIAMO IL RECUPERO DEGLI ASINI di Paola Mastrocola

(“La Stampa”, 7 aprile 2008)
In questi mesi le scuole italiane sono impegnate nella «Missione Recupero». Credo che tutti lo sappiano perché se n'è parlato molto da dieci anni a questa parte: il recupero fu introdotto dal ministro Berlinguer, fu conservato mirabilmente intatto dal ministro Moratti ed è ora più che mai voluto, sostenuto e moltiplicato dal ministro Fioroni; è quindi un concetto - nonché una legge - che transita beatamente da un governo all'altro, di qualsivoglia colore politico esso sia. Credo altresì che tutti non possano che essere d'accordo sull'opportunità di recuperare gli allievi: per una ragione molto semplice, che la parola recupero è una bellissima parola! Rimanda a nobilissimi sentimenti di umanità e fratellanza. Chi mai potrebbe dire, infatti, che non è bene recuperare - cioè salvare - qualcuno o qualcosa? È bene recuperare relitti in fondo al mare, recuperare fondi e refurtive, recuperare l'uso di un arto… A maggior ragione, è bene, anzi, benissimo recuperare ragazzi in difficoltà nello studio. Credo però, anche, che nessuno (se non un'esigua minoranza) sappia veramente che cosa sia nella sostanza il recupero. E quindi vorrei provare a raccontarlo. Partiamo da un allievo, ad esempio di prima liceo, che prenda quattro di italiano per quattro mesi di fila. Lo chiameremo Giovanni.Giovanni prende quattro perché non sa l'analisi logica. Davanti alla frase «Si vedono gabbiani al mare», egli scrive: Si: soggettovedono: predicato verbalegabbiani: complemento oggettoal mare: complemento di termine.Piccola parentesi: potremmo chiederci perché Giovanni non sa l'analisi logica. Forse alle elementari e alle medie la grammatica non va più di moda, l'hanno abolita e si son dimenticati di dircelo? Oppure sono i ragazzi che non la studiano, o dimenticano all'istante quel che (labilmente) studiano? Nel qual caso, perché mai sono arrivati fino al liceo? Domanda oziosa: c'è la scuola dell'obbligo. Come potremmo obbligarli ad andare a scuola e nello stesso tempo, solo perché non studiano, cacciarli dalla scuola? Fine della parentesi.Ma non importa: i ragazzi arrivano digiuni di grammatica e noi, buoni buoni, alle superiori gliela insegniamo daccapo, come se nulla fosse mai stato prima. Nessun problema, siamo gente responsabile, ci mancherebbe! Rispieghiamo tutto a Giovanni, dall'articolo in poi. Ma Giovanni continua a prendere quattro. Si: soggetto; gabbiani: complemento oggetto. Oibò! Che fare? Ecco che scatta il magico recupero! Ci travestiamo da agenti in missione speciale (calzamaglia blu con R cubitale sul petto e mantello rosso) e recuperiamo Giovanni! In due possibili modi. Modo A: interrompiamo le lezioni del mattino, sospendiamo i programmi e ripetiamo per la centoquarantesima volta che differenza c'è tra soggetto e complemento oggetto. Modo B: diciamo a Giovanni di venire al pomeriggio e facciamo a lui e a tutti i Giovanni delle altre classi un corso supplementare. Ottenendo i seguenti risultati: con il modo A, obblighiamo tutti gli altri allievi, anche quelli bravi e studiosi che prendono 10 in grammatica, a ristudiare gli articoli non insegnando loro nulla di nuovo e più difficile; con il modo B, occupiamo il tempo pomeridiano di Giovanni, che egli dovrebbe passare, finalmente!, a studiare. Già, perché è inutile centuplicare le ore di lezione, se poi uno non apre un libro! Il sapere non passa ancora così, via etere, wireless o con altra diavoleria elettronica.Giovanni quindi, dopo la prima dose di recupero, continua a prendere quattro. E siamo ad aprile. Dobbiamo ora iniziare la seconda dose, e poi una terza, una quarta e via così fino ad agosto, fino alla prova finale, detta un tempo «esami di riparazione». Ed è qui che mi nasce la domanda: siamo sicuri che la scuola debba diventare un recuperificio? Siamo sicuri che l'Italia debba pagare così tanto denaro pubblico perché Giovanni si ostina a non aprire un libro? (ogni ora di recupero è pagata 50 euro e, così a naso, i Giovanni di ogni singola classe si aggirano tra il 30 e il 50 per cento). Ma soprattutto, pensiamo davvero che faccia bene ai ragazzi essere così tanto imboccati, pedinati, inseguiti e perseguitati: in una parola, recuperati? Non dovrebbe esserci un tempo in cui gli insegnanti, dopo avere svolto e ri-svolto con professionalità e passione gli argomenti del programma, li lascino finalmente soli a rispondere delle loro azioni o non azioni? Non dovremmo esigere che diventino responsabili dei loro insuccessi? Responsabili e liberi, anche di non studiare. Non sarebbe questa un'azione nobilmente educativa? Di qui, quattro piccole pulci nell'orecchio: e se il recupero fosse una violenza ai ragazzi? E se fosse, da parte nostra, un'ignobile ipocrisia, visto che per recuperare 8 anni di totale ignoranza grammaticale (3 anni di medie e 5 di elementari), ci vorrebbero tutte le ore di lezione di almeno 2 anni e non certo le miserabili 15 ore a cui ci impegna il decreto ministeriale? E se, a forza di recuperare, non avessimo più il tempo di fare i programmi? Chi li svolgerebbe, l'università? E chi farebbe i programmi universitari, le case di riposo? E se il recupero non fosse che l'ennesimo escamotage per autoesentarci dal nostro compito educativo di formare persone responsabili? Fine delle pulci.Siccome caso vuole che ci si trovi in periodo elettorale, mi piacerebbe molto che si parlasse di scuola. Non le solite generiche parole in libertà: riconosciamo alla scuola la sua centralità per la crescita del Paese… blablabla. Vorremmo scendere nei dettagli. Vorremmo sapere cosa pensa l'un partito e l'altro a riguardo del recupero. C'è una forza politica, almeno una!, che ritenga il recupero un obbrobrio, e pertanto s'impegni a raderlo al suolo? O qualcuno che ci dica che semmai è l'analisi logica da radere al suolo? Non so, vedete voi, cari partiti.

sabato 5 aprile 2008

UNA LETTERA DEL PROFESSOR MICHELE ZAPPELLA

Pubblichiamo la lettera inviataci dal professor Michele Zappella dell'Università di Siena, già primario di Neuropsichiatria infantile all'Ospedale regionale di questa città e autore di libri molti noti, come Il pesce bambino e Il bambino nella Luna.
Caro Prof. Vagnoli,
faccio seguito alla mia telefonata di pochi secondi fa per richiederle il documento che è stato presentato al Liceo Visconti a Roma.
Questo materiale mi interessa molto perché come parte del mio lavoro di neuropsichiatria infantile mi sto in questo momento occupando di bullismo (terrò una conferenza per l'Unicef a Firenze il 21 aprile su questo tema) e l'evidenza che ho dalla letteratura internazionale è che il permissivismo di cui è permeata buona parte della letteratura italiana sull'argomento non solo non è di nessun aiuto per risolvere il fenomeno, ma probabilmente è un cofattore: come percentuale siamo in testa alla classifica mondiale in proposito, preceduti dalla Lituania. Prendo l'occasione per inviarle i miei cordiali saluti.
Prof. Michele Zappella
Università di Siena

giovedì 3 aprile 2008

LA RISCOSSA DEI PROFESSORI, di Giorgio Ragazzini

("Liberal" 3 aprile 2008, p.12)
Nella lettera aperta ai partiti presentata a Roma giovedì scorso, alcuni notissimi studiosi e commentatori chiedevano di ancorare saldamente la politica dell’istruzione e la vita delle scuole a due criteri fondamentali: merito e responsabilità. Nei molti commenti e resoconti è rimasto un po’ in ombra il secondo elemento del binomio, che invece costituisce una chiave altrettanto essenziale per leggere la realtà della nostra scuola e della società.
La responsabilità consiste nel dover render conto dei nostri comportamenti e delle loro conseguenze. Questo può comportare una sanzione o un rimprovero, il chiedere scusa, la riparazione di un danno. Assumersi la responsabilità di un errore richiede un certo grado di maturità, ma insieme la crea e la fortifica.
Purtroppo un simile comportamento non è la regola nel nostro paese. È forse più frequente che gli adulti insegnino, anche solo con l’esempio, a “farsi furbo” o a scaricarsi la coscienza invocando il “così fan tutti”. Chi poi ha compiti di controllo o di sorveglianza in qualche settore, soprattutto nella pubblica amministrazione, sa benissimo che se svolge sul serio il suo compito, rifiutandosi di lasciar perdere o far finta di non vedere i comportamenti scorretti, spesso si affatica e si logora senza costrutto e a volte con proprio danno (leggi parcella dell’avvocato), tanto numerose sono le cavillose tutele di cui può farsi scudo il demerito.
Per costruire il senso di responsabilità negli allievi, come del resto nei figli, non è sufficiente enunciare delle regole, benché sia ovviamente necessario. È essenziale farle rispettare. Con perseveranza e con coerenza. E senza escludere a priori provvedimenti disciplinari. È questa la più efficace “educazione alla legalità”. Altrimenti non si mette in moto un’autentica dinamica educativa, perché ben presto un bambino capisce che le regole sono solo parole.
E si educa alla responsabilità anche non “regalando” sufficienze o promozioni immeritate, specie se le carenze dipendono dalla pigrizia più che da reali difficoltà. Non pochi colleghi invece, anche seriamente dediti al loro lavoro, non dubitano (in buona fede) di godere in sede di scrutinio di una discrezionalità quasi assoluta, che consente di trasformare in sufficienza anche un quattro, purché venga addotta una qualche pseudomotivazione di tipo psicologico o sociale. Il risultato è che molti studenti pensano giustamente che sia inutile studiare regolarmente tutte le materie; anzi, due o tre si possono anche trascurare del tutto, tanto la promozione è assicurata.
Il fatto è che per “assumersi” responsabilità come quelle di educare e di valutare è necessaria una virtù poco di moda, di cui si era quasi perso anche il nome fino a tempi recenti: la fermezza. La capacità, cioè, di prendere e mantenere decisioni giuste sul piano educativo, anche se emotivamente costose (come spiega un libro utilissimo, Non ho paura a dirti di no, di Osvaldo Poli). Dico sul piano educativo perché di questo parliamo; ma potrei dire sul piano politico o sociale, come la cronaca insegna ogni giorno.
La fermezza è invece indispensabile per dare ai giovani dei chiari punti di riferimento e la sicurezza di una guida; e non è affatto alternativa al “dialogo” e alla “comprensione” che molti gli contrappongono, ma ne è anzi la precondizione: nel caos notoriamente non si dialoga.
Essendo però l’esatto contrario del “chi me lo fa fare”, la fermezza non è facile. Si deve far fronte alle nostre umane fragilità emotive (i ragazzi mi odieranno? subiranno un trauma? sarò meno popolare della collega di musica?), ma anche alla pressione dei dogmi messi in giro dalla pedagogia permissiva, di cui per fortuna si cominciano a valutare – anche se in ritardo – gli enormi danni.
Sul lato della “condotta” l’interdetto è stato violentissimo. La parola stessa e altre come “disciplina”, “punizione”, “autorità”, sono state per decenni innominabili, perché considerate inscindibili da un’educazione autoritaria. In molte scuole si è potuto per anni farne di cotte e di crude, rischiando al massimo un bonario predicozzo. Pende poi sulle valutazioni finali il severo monito “la bocciatura è sempre un fallimento della scuola”, che implicitamente azzera ogni responsabilità dell’alunno. Se questo non bastasse, si devono fare i conti col timore dei sempre più frequenti ricorsi dei genitori. Un vero killer della fermezza, poi, è la paura che l’allievo bocciato “commetta qualche sciocchezza”. E, per dare il colpo di grazia ai docenti, non c’è niente di più efficace di una lettera dello psicologo che consigli “di non interrompere il processo di maturazione in atto”. Si sa del resto che la colpevolizzazione dei docenti, dal sessantotto in poi, ha raggiunto livelli inimmaginabili, tanto da renderli spesso confusi e incapaci di farsi rispettare. Sdoganare la fermezza come qualità insostituibile nella preparazione di ogni educatore è quindi urgente, per dare seguito all’inversione di tendenza inaugurata dal ministro uscente. Ma, come si è chiesto Mario Pirani lunedì scorso, “supererà le elezioni il coraggioso tentativo di riportare la serietà, il merito e l’eguaglianza nelle scuole italiane?”. Eppure anche le graduatorie internazionali dei sistemi scolastici sembrano confermare che una scuola più rigorosa sostiene i giovani nel loro impegno molto più efficacemente della scuola dell’ “accoglienza”. I paesi orientali infatti, dove la scuola, severissima, è ancora circondata da rispetto e prestigio e vista come mezzo di ascesa sociale, sono tutti nei primissimi posti. E sarebbe forse utile inserire, nelle analisi dei risultati, il “fattore serietà”, che finora non mi risulta essere stato preso in considerazione. Senza il quale, è bene ripeterlo, ogni riforma della scuola non può che costruire sulla sabbia.

Risposta a CIDI e ADi

I commenti del CIDI e dell’ADi alla lettera su Merito e Responsabilità sono riconducibili all’idea che tutti i problemi che si manifestano in classe (demotivazione, disattenzione, comportamenti scorretti, insuccesso scolastico) possano essere completamente riassorbiti dall’innovazione didattica, magari nel quadro di una compiuta professionalizzazione dei docenti e di uno sviluppo ulteriore dell’autonomia scolastica. Si tratta di un’illusione che ignora quella crisi dell’educazione manifestatasi da qualche decennio nei paesi occidentali e che non riguarda solo la scuola, ma investe anche la famiglia e la sua capacità di fornire modelli. In sostanza è stato messo in discussione il rapporto tra genitori e figli oltre che fra insegnanti e allievi, cioè la capacità degli adulti di guidare con sufficiente sicurezza le nuove generazioni. Fare i genitori e fare i docenti è diventato molto più difficile di un tempo, per svariati motivi sociali e culturali, uno dei quali è senz'altro costituito dalle cantonate della pedagogia e della psicologia post '68.
La lettera è in realtà esplicita sul fatto che i due criteri/valori che porta all’attenzione del paese e della classe politica costituiscono una pre-condizione di ulteriori scelte metodologiche, organizzative, programmatiche, non un’alternativa ad esse. Non esiste quindi un metodo (né una preparazione iniziale dei docenti) che da solo miracolosamente risolva i problemi relazionali. È invece necessario affiancare alla preparazione disciplinare e metodologica degli insegnanti sia una loro più solida e consapevole “attrezzatura” psicologica rispetto al rapporto con gli allievi (qualcuno ha mai visto un corso di aggiornamento sulla condotta?), sia la revisione (in parte in corso) di quelle leggi e di quei regolamenti che erano nati spesso col preciso scopo di ipertutelare i ragazzi.

Giorgio Ragazzini

mercoledì 2 aprile 2008

Il commento dell'Associazione Docenti Italiani (ADi)

(Dal sito dell'ADi: http://ospitiweb.indire.it/adi/index.html#new)
La lettera, pregevolmente stringata, si apre con un'affermazione assolutamente condivisibile "Sia le riforme, sia il governo e la vita della scuola a tutti i livelli dovranno ispirarsi ai criteri di merito e di responsabilità” . Dopo aver sentito, però, alcuni dei firmatari esplicitare il loro pensiero, la lettera, già meno condivisibile nelle parti successive, ha assunto tutt'altro tono. Ascoltare l'ineffabile Mario Pirani tuonare contro “un presunto inesistente diritto al successo formativo”, causa di tanti guai, sinceramente preoccupa.
Se è pur vero che tante critiche al permissivismo, alla mancanza di impegno e di responsabilizzazione, all'ignoranza preoccupante, colgono un sentire comune e diffuso fra tanti insegnanti e non solo, la mancanza di un'analisi seria di questa situazione e dei rimedi che non siano un semplice ritorno al passato, fa apparire gli autori di questo appello poco più che dei semplici laudatores temporis acti. Il problema vero da porsi è quello di una scuola che, diventata di massa, è stata incapace di riorganizzarsi, ha continuato ad essere impostata per una classe media borghese, è stata sorda nei confronti dell'esigenza di nuovi modelli e contenuti educativi, esattamente come oggi è cieca davanti ai nuovi modi di apprendere dei giovani.
No, non è di questi appelli che abbiamo bisogno, ma di saldare rigore e responsabilità alla capacità di interpretare i nuovi scenari che si sono già aperti di fronte a noi e di ricercare strumenti adeguati per governarli.

RASSEGNA STAMPA DEL SITO "pubblica.istruzione.it"

Da oggi abbiamo aggiunto ai collegamenti a siti e blog quello alla rassegna stampa quotidiana del il sito del Ministero della Pubblica Istruzione.
E' uno strumento molto utile, perché, oltre a fornire tutte le principali prime pagine, permette di leggere gli articoli che riguardano in qualche modo la scuola. Tra i commenti segnaliamo in particolare quello di Paolo Pombeni: Il merito, la grande sfida del Paese di domani (sul Messaggero, che si conferma il capofila dei quotidiani su questi temi).

martedì 1 aprile 2008

Sul sito del CIDI un commento alla Lettera aperta

La scuola è seria quando è in grado di dare un’istruzione che costruisce e consolida cultura e cittadinanza; di valorizzare l’eccellenza, senza lasciare indietro nessuno. Va da sé che insegnanti capaci di questo sono anche in grado di esigere responsabilità, rigore, rispetto delle regole. In caso contrario, la serietà e la credibilità della scuola non la si può costruire a tavolino, piuttosto con una formazione iniziale adeguata al ruolo e alla funzione che i docenti devono assolvere, con un investimento economico - questo sì - credibile sulla scuola, con misure amministrative adeguate alle innovazioni che si introducono, con una diversa considerazione sociale sul valore della cultura, della scuola e del lavoro degli insegnanti.
(Emma Colonna)
http://www.cidi.it:80/newsletter/maillist/newsletter.htm

OGGI APREA E BASTICO A CONFRONTO

Collegamenti alla Rassegnata stampa del Ministero della Pubblica Istruzione per leggere i tre articoli dedicati oggi alla scuola dal "Corriere della Sera":

Aprea: è tempo di chiudere il '68 e ricominciare con rigore e merito
http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?numart=HMW7K&numpag=1&tipcod=0&tipimm=1&defimm=0&tipnav=1

Bastico: accordo per l'istruzione tra opposizione e maggioranza
http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?numart=HMW7H&numpag=1&tipcod=0&tipimm=1&defimm=0&tipnav=1

Scuola: le cifre dell'emergenza, di Gian Antonio Stella
http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?numart=HMW6B&numpag=1&tipcod=0&tipimm=1&defimm=0&tipnav=1

PURE FIORONI HA SVENDUTO LA SCUOLA AI SINDACATI! di Gaetano Quagliarello

Un appello di dodici professori tra cui Ernesto Galli della Loggia, Giorgio Israel, Aldo Schiavone, Remo Bodei, alcuni forse di destra, altri certamente di sinistra, tutti accomunati dall'aver trascorso una vita nel campo dell'istruzione, avanzava alcune semplici richieste, che tra l'altro il Ministro Fioroni non pareva aver disatteso: ritorno al merito, fine del panpedagogismo, un ruolo più equilibrato e meno invasivo del sindacato nella scuola. Nulla di rivoluzionario, insomma, e soprattutto nulla di infamante.
La risposta da parte di chi evidentemente si è sentito chiamato in causa non si è fatta attendere. Alla presenza del Ministro Fioroni, che a quanto pare non ha battuto ciglio, il segretario della Cisl Scuola Francesco Scrima, con spirito conciliante ed effettiva apertura al dibattito, ha chiesto a quella sporca dozzina come si fosse permessa. Non solo: frugando nelle loro tasche ha rimproverato loro di percepire il compenso di 800 euro ad articolo (si tratta forse di una tariffa sindacale? perché in tal caso avrei da dire qualcosa all'amministrazione dell'Occidentale...!), e - quel che più conta - li ha invitati a esibire le loro credenziali. In sostanza, in termini crudi, a dire come abbiano fatto a vincere un concorso...
Linguaggio padronale, insomma, di chi si sente indiscusso detentore della legittimità in ambito scolastico. Linguaggio che assai meglio del pur condivisibile appello dei dodici fa capire qual è il problema della scuola in Italia. E' inutile sforzarsi a elaborare progetti sulla scuola, come pure il centrodestra non ha mancato di fare. Per quanto non degnata di attenzione da commentatori e quotidiani, la Fondazione Magna Carta ha dedicato al tema studi e proposte, nei loro termini generali (e per forza di cose generici) recepiti nel programma del PdL. Quel che è assai più importante, soprattutto dopo quanto accaduto, è chiedere a schieramenti, partiti e candidati la disponibilità esplicita a non mostrarsi supini nei confronti dello strapotere sindacale.
A tal riguardo, il silenzio di Fioroni di fronte a un attacco così virulento e ingiusto è eloquente. Ci era parso, in coscienza, che con il suo operato il Ministro avesse in qualche modo voluto prendere distacco dalla sub-cultura che da trent'anni condanna la scuola italiana a un declino che sembra inarrestabile. E, se non andiamo errati, ci risulta che il professor Israel è stato anche un suo collaboratore, da lui designato quale membro di una importante commissione ministeriale.
Se non per dovere istituzionale, quantomeno per spirito cristiano - del quale Fioroni parla spesso, e spesso a sproposito - di fronte a tanta aggressività ci saremmo aspettati se non una difesa d'ufficio, almeno un cenno di disappunto. Ma evidentemente in campagna elettorale, quando il padrone chiama, anche Fioroni risponde. Seppure con il silenzio.
31 Marzo 2008 - http://www.loccidentale.it/node/15415