venerdì 22 dicembre 2017

TROPPA DEMAGOGIA, COSÌ LA SCUOLA FABBRICA RAGAZZI INFELICI

Nel suo bel saggio Teoria della classe disagiata sulla crisi, forse epocale, di quello che un tempo si definiva “ceto medio”, il giovane e brillante studioso Raffaele Alberto Ventura dà ampio spazio all'analisi del nostro sistema scolastico, visto come uno dei più demagogici della nostra epoca. Ispirandosi anche alle riflessioni di altri sociologi ed economisti,  Ventura afferma che negli ultimi decenni, soprattutto in Italia, abbiamo reso infelici le persone abituandole a uno stile di vita che ora non possono più permettersi; e che questo le porterà prima o poi a ribellarsi contro una società che ha fatto sentire come necessari anche molti beni superflui. Da parte mia ho pochissimi rimpianti per quando la quasi totalità delle strade erano bianche, i campi arati grazie ai buoi e nei paesi un' unica bottega vendeva di tutto, dall'ago per cucire al lievito per fare il pane in casa. Resta il fatto che la crisi economica, il disorientamento, la sfiducia, a volte il nichilismo che da tempo colpiscono il nostro paese non affliggono in maniera così profonda altre nazioni europee, anche perché, al contrario di noi, hanno salvaguardato, pur riformandoli,  l'ossatura dei loro sistemi scolastici, contribuendo così a mantenere, malgrado la crisi, solide le loro economie. Inoltre, al contrario di noi, non si sono «affidati [...] alla propaganda dell'industria culturale e alle prediche degli intellettuali, che fin da piccoli ci hanno educati ai lussi dello spirito e alla dissimulazione di tutto ciò che, attorno a noi, è ‘economico’, ovvero la realtà». Così, per evadere dalla realtà, ci siamo serviti anche della scuola, diventata generalista, facile e realmente omologante nel far perdere, salvo il Liceo classico e pochissimo altro, identità alla gran parte degli altri storici indirizzi,  illudendo  peraltro i ragazzi  che scegliersi a quindici-sedici anni  il futuro  avrebbe significato comprometterlo per sempre.  E per il  trionfo  di una scuola del genere si sarebbero ideati curricula scolastici fatti di “paccottiglia alla moda”. E, aggiungo io, si sarebbe alimentato il disprezzo per il lavoro manuale, sottovalutato l'impegno nello studio, reclutato molti docenti e dirigenti senza adeguata preparazione per poi trattarli in maniera poco decorosa. Non fa così un paese che ha veramente a cuore il futuro dei ragazzi ove quelli svantaggiati stanno, non a caso verrebbe da dire,  inesorabilmente crescendo! La conseguenza di tutto ciò è che tra i due milioni di candidati al prossimo concorso per il pur nobilissimo lavoro di collaboratori scolastici (un tempo, di cui evidentemente vergognarsi chiamati bidelli o custodi ) vi sono centinaia di migliaia di diplomati e laureati. In altre parole, per dirla con l’autore del saggio, “la mobilità sociale è diventata oggi più difficile di quanto fosse nel dopoguerra”. Intanto le università sono spinte dal ministero, che finanzia di più chi sforna più laureati, a raggiungere l’obiettivo in ogni modo, compresa una grande generosità nel distribuire titoli e voti.  Una università di questo genere non dà molte prospettive alla maggior parte degli studenti e “avvantaggia chi può spendere più degli altri” potendo permettersi, dopo la laurea, master e specializzazioni varie, anche all'estero, che garantiranno una professione corrispondente agli studi fatti. Non vedo quindi perché molti rettori si stupiscano se i giovani sono poco attratti dalla laurea. Per gli altri, cioè per la gran parte dei laureati, rimane la desolazione di doversi inventare, spesso intorno ai trent'anni e oltre, un lavoro e un futuro radicalmente diversi da come li avevano sognati. Un numero crescente di giovani finisce così per scomparire dalla vita sociale chiudendosi in casa o sopravvivendo grazie alle risorse delle famiglie, tuttavia sempre più scarse. Non pochi scappano all'estero; e non solo i cosiddetti “cervelli”. Molti lo fanno anche per andarvi a svolgere dei lavori di cui qui si vergognerebbero, perché li vivrebbero come l'esibizione del loro fallimento. Ma il vero fallimento è quello di una buona parte della classe dirigente e probabilmente, se non interveniamo con urgenza e fuor di demagogia, anche quello dell'intero Paese.
Valerio Vagnoli
(“Corriere Fiorentino”, 21 dicembre 2017)

domenica 17 dicembre 2017

IL CELLULARE A SCUOLA: PERCHÉ NO E PERCHÉ SÌ (“la Repubblica Firenze” di oggi)

Lo smartphone
in classe?
È un incentivo
alla distrazione


Il proibizionismo
non funziona
La scuola insegni
a essere liberi
GIORGIO RAGAZZINI
Sull’uso scolastico dello smartphone, di cui si è occupata Valeria Strambi su La Repubblica Firenze, si discute da tempo e in modo particolare da quando la ministra Fedeli ha deciso di creare due gruppi di “super esperti, per elaborare, entro gennaio, linee guida e proposte operative”. A parte il fatto che i veri super esperti in materia sono i docenti, che da qualche anno devono combattere un avversario in più della già labile capacità media di attenzione dei loro allievi, mi permetto di mettere in fila i principali motivi per cui si tratta di un’iniziativa profondamente nociva. Lo farò subito dopo aver ricordato che proprio in questi giorni il ministro francese dell’educazione ha deciso di vietare l’uso dei cellulari, già operativo durante le lezioni, anche durante pause e intervalli. "Oggigiorno – ha dichiarato – i bambini e i ragazzi non giocano più nelle pause, sono tutti di fronte ai loro smartphone e dal punto di vista educativo questo è un problema". Detto questo, i cellulari in mano ai ragazzi durante le lezioni sono un formidabile incentivo a distrarsi praticamente impossibile da controllare. Lo conferma lo stesso presidente dell’Indire Biondi citato nell’articolo, che pone come condizione necessaria per permetterlo il “ribaltamento di spazi e tempi dell’apprendimento”. Qualunque cosa significhi, non sarà così né domani né l’anno prossimo, il che equivale alla necessità di vietarli. Secondo motivo per dire no: non è affatto un bene che la scuola si faccia invadere da tutti i fenomeni “che ormai fanno parte della quotidianità di tutti noi”, come dice la professoressa Ranieri. Al contrario, gli allievi devono poter fare esperienza della possibilità di non rimanere rinchiusi in tutto ciò che il mondo esterno ci propone e propina. Esistono poi ormai numerose conferme scientifiche della diffusione di una vera e propria dipendenza dal cellulare, diventato per molti ragazzi fonte di stress e di ansia, per il bisogno di essere sempre contattabili e la paura di esaurire la carica. E secondo una ricerca britannica, il 60% dei giovani tra i 18 e 29 anni va a letto con lo smartphone. Non si capisce quindi perché, mentre si mettono in guardia i giovani rispetto a fumo, alcol e droghe, si debba poi addirittura nobilitarlo come insostituibile strumento didattico.
L’autore è tra i fondatori del Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità


LUDOVICO ARTE
Il Gruppo di Firenze ha da tempo dichiarato guerra alla scuola che considera “buonista”. E non perde occasione per ribadire che occorre recuperare autorevolezza e serietà attraverso l’ordine e la disciplina, il rigore e i divieti. Così si chiedono più bocciature, si rivaluta il voto di condotta, si propongono i cani antidroga per far paura ai ragazzi, si esigono misure esemplari verso chi non rispetta le regole. L’ultima crociata è quella contro i telefonini, i nuovi demoni dei tempi moderni. Il Gruppo di Firenze rappresenta, naturalmente, una idea di scuola legittima. Che trova facile consenso in quella parte di opinione pubblica che cerca certezze nel ritorno al passato. Noi la pensiamo diversamente.
Ripartiamo dalla questione dei telefonini. Che oggi se ne faccia un uso eccessivo è certo. Ma è altrettanto certa la loro utilità, come dimostra il fatto che tutti li abbiamo in tasca. A meno che non si pensi che il demonio si sia impossessato di noi. La scuola non deve seguire le mode, ma non può essere fuori dalla realtà. Perché la scuola fuori dalla realtà l’abbiamo conosciuta e non la rimpiangiamo. Il problema non è il telefonino in sé. E’ l’abuso. Ma contrastarlo con i divieti sarebbe come bloccare le auto perché ci sono gli incidenti stradali. Il proibizionismo ha già dimostrato storicamente la sua inefficacia e, oltretutto, impedire qualcosa agli adolescenti alimenta spesso il loro desiderio. Lo psicoterapeuta Renato Palma racconta una simpatica storiella in cui la comunità dei Sissipole si contrappone a quella degli Unsipole. La scuola italiana è stata per troppo tempo vittima degli Unsipole, che vietavano di tutto. Riempire di mostri l’immaginario dei nostri ragazzi non ci sembra la strada giusta. Vorremmo una scuola in cui le regole liberino e non imprigionino, dove si educhi a essere autonomi e responsabili, anche rispetto ai telefonini. Il modello autoritario, che, per dirla con Recalcati, pretende di indicare la retta via e raddrizzare le viti storte, non è il nostro. Perché le viti storte le amiamo e perché vorremmo che ognuno la retta via se la trovi da solo. In una parabola un uomo va dal dottore per un terribile mal di testa. Racconta che non beve mai, non fuma, non fa sesso e va a letto presto. E’ moralmente rigoroso e non cede alle tentazioni. “Il suo problema è semplice”, gli dice il dottore, “Ha l’aureola troppo stretta, non c’è che da allentarla un po’”. Ecco, una scuola che fa venire quel genere di mal di testa non ci interessa.
L’autore è dirigente scolastico e collaboratore di “La Repubblica Firenze”

sabato 16 dicembre 2017

UN CHIARIMENTO: AUTORITÀ, AUTOREVOLEZZA, AUTORITARISMO

Facciamo un po' di chiarezza su tre termini ricorrenti nel dibattito sulla scuola: autorità, autorevolezza, autoritarismo. E' importante non confondere autorità e autorevolezza, tanto meno legittimare la seconda rifiutando la prima. L'autorevolezza è il prestigio conquistato sul campo dal singolo, quando dà dimostrazione di serietà e di capacità. Il numero di insegnanti autorevoli è tanto più alto quanto maggiore è la selezione in entrata e l'esperienza acquisita nel corso degli anni lavorando con impegno e senso di responsabilità. L'autorevolezza è anche legata alle caratteristiche personali. Sarebbe dunque irrealistico pretendere da tutti i docenti italiani, che sono più di settecentomila, lo stesso grado di autorevolezza. 
L'autorità è invece l'appoggio e la legittimazione che la società assegna comunque a TUTTI gli insegnanti in relazione al ruolo che rivestono, a cui sono connessi diritti, mansioni, poteri e ovviamente doveri. L'autorità degli insegnanti è stata irresponsabilmente indebolita confondendola con l'autoritarismo. Il Dizionario Italiano Ragionato (DIR) così definisce "autoritario": "Che fa valere in modo eccessivo la propria autorità, o si comporta come se avesse un'autorità che di fatto non detiene". Minare l'autorità degli insegnanti, dunque della scuola, per esempio legando i provvedimenti disciplinari a un eccesso di procedure burocratiche e di condizioni o impedendo che si possa bocciare un allievo per comportamenti gravemente inadeguati, è stata una grave responsabilità dei governi negli ultimi decenni. E ha prodotto in misura crescente logoramento dei docenti, scadimento degli apprendimenti a danno dei ragazzi educati e bullismo. (GR) 

domenica 3 dicembre 2017

IL BUON SENSO NON PUÒ SOSTITUIRE LE REGOLE

(“Corriere Fiorentino”, 3 dicembre 2017)
In un’intervista al “Corriere Fiorentino” di ieri, il sottosegretario all’Istruzione Gabriele Toccafondi aveva preso le distanze dalla richiesta di maggiore severità sulla condotta degli allievi che è emersa dal sondaggio della società Eumetra di Renato Mannheimer. Lo stesso quotidiano pubblica oggi la risposta di Valerio Vagnoli e Andrea Ragazzini del Gruppo di Firenze.

Gentile direttore,
nell’intervista pubblicata ieri dal Corriere Fiorentino al sottosegretario Gabriele Toccafondi, che conosciamo e di cui abbiamo stima, ci sono alcune considerazioni che abbiamo trovato francamente sorprendenti.
Dire che «le regole servono a poco, è una questione culturale», è obiezione che ci saremmo aspettati da quel tardo sessantottismo da cui lo stesso sottosegretario prende le distanze. Tanto meno ci sembra appropriato sintetizzare la richiesta di una scuola più rigorosa dicendo che si vuole il ritorno alle «bacchettate sulle nocche» e «alla punizione dietro la lavagna». Quanto emerge dal sondaggio, espressione di una larga maggioranza dell’opinione pubblica, auspica semplicemente una maggiore serietà nei comportamenti e maggiore fermezza educativa da parte della scuola, non il ritorno a certi metodi del passato. Insomma, nei panni del sottosegretario noi prenderemmo più sul serio questi dati. In un Paese in cui il rispetto delle regole, a tutti i livelli, è da troppi considerato una roba da gonzi e nel quale la classe politica dà spesso in materia dei pessimi esempi, si stenta ancora a convincersi che la scuola deve essere in questo rigorosa, perché gli studenti di oggi siano domani dei buoni cittadini e magari dei politici competenti e onesti. La considerazione che un Paese civile ha delle regole è parte integrante dei suoi fondamenti culturali e civili, né le regole possono essere sostituite dal «buon senso». Devono essere, questo sì, ragionevoli e il più possibile condivise, ma poi anche applicate, pena la credibilità delle stesse e di chi le ha formulate. L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), e non per fortuna inesistenti nostalgici dei maestri con le verghe, ha di recente certificato che i migliori risultati sul piano della preparazione culturale e delle competenze vengono ottenuti, non a caso, nei sistemi scolastici che danno molto valore al comportamento corretto degli studenti. 
In questo 2017 ricorre il cinquantenario della morte di don Milani e se ne ricorda l’opera nei suoi diversi aspetti. Quasi mai però si fa riferimento al suo inflessibile rigore educativo, talvolta a dire il vero perfino eccessivo e successivamente sostituito da molti suoi tardi epigoni ( tra i quali non mettiamo il sottosegretario) con una più spendibile pedagogia giustificazionista e permissiva. Stare dalla parte dei ragazzi significava per don Lorenzo costringerli a riscattare con lo studio e il sacrificio quotidiano la propria condizione di povertà e di emarginazione. Noi pensiamo che anche oggi, se la scuola vuole essere veramente un «ascensore sociale» deve offrire agli studenti le migliori opportunità ma anche chiedere responsabilità e impegno, senza i quali quell’ascensore non può funzionare.
Valerio Vagnoli e Andrea Ragazzini

sabato 2 dicembre 2017

IL SONDAGGIO: TANTI NO ALLA SCUOLETTA DEI POCHI (RUMOROSI)

I dati di questo sondaggio che come gruppo di Firenze abbiamo commissionato a Eumetra, autorizzano per fortuna una speranza al cambiamento. Risulta in tutta evidenza che l’opinione pubblica ha della scuola un’idea che contrasta decisamente con gli orientamenti fatti propri dai ministeri degli ultimi decenni: un trionfo di demagogia eredità del peggior Sessantotto.
Le percentuali di coloro che vorrebbero una scuola diversa, più attinente quindi con i principii della Costituzione e realmente fucina del senso di appartenenza ad una civiltà e ad una comunità che si faccia carico di tramandare entrambe queste istanze, sono inequivocabilmente in contrasto con chi ha determinato a costruire, e continua a farlo ostinatamente, la scuoletta dei nostri tempi. Una scuoletta che è il frutto di una irresponsabilità da condividere tra molte componenti. Innanzitutto i politici che, anche per quanto riguarda la scuola, hanno preferito accontentare coloro che sono abituati a fare la voce più grossa, e pertanto a contare, anziché prendersi le responsabilità di dare un senso alla vita dei ragazzi e soprattutto al loro futuro e a quello del Paese. Vi sono poi le responsabilità di quei genitori ( alcuni del Virgilio di Roma ne sono degni rappresentanti ) che non rinunciano a voler rimanere eterni ragazzi, amici dei loro pargoli ai quali nessuno può permettersi di creare ansie, difficoltà e insuccessi, tanto meno un disgraziato di docente che a malapena porta a casa i soldi per tirare a campare. Naturalmente questa tipologia genitoriale, e i dati del sondaggio sembrano confermarlo, è una minoranza ma da decenni stravince perché «conta» in quanto si fa, e sa farlo, sentire; e anche perché si richiama ad ideologie che in certe categorie culturali ed economicamente rassicurate sono graniticamente irrinunciabili. Non fosse altro perché grazie al trionfo di queste ideologie le medesime categorie si sono assicurate carriere senza tante selezioni e senza tanti sacrifici. Genitori del genere stravincono all’interno delle scuole, in particolare e non a caso nei licei, avvalendosi anche di quel carrozzone demagogico e fintamente democratico rappresentato dai cosiddetti Decreti delegati del ‘74, che permette loro sconfinamenti nella didattica e nella sua gestione, degni solo di certe dittature populiste sudamericane del secolo scorso. Naturalmente i presidi e i docenti hanno anch’essi abbondanti responsabilità per aver alla fine abdicato al loro ruolo, permettendo di essere assaliti, svillaneggiati e umiliati da personaggi, come abbiamo visto, spesso animati a rappresentare solo se stessi e a difendere le apatie o le arroganze dei loro figli. A questa categoria di genitori se ne contrappone un’altra, numericamente molto più ampia, che invece non è attrezzata, verrebbe da dire per fortuna, per ricoprire questo ruolo alla maniera dei loro colleghi «impegnati». Più silenziosa rispetto alla prima, questa categoria patisce gli insuccessi dei figli o gode momentaneamente dei loro successi sapendo però che comunque la scuola difficilmente servirà a premiare i bravi. Né forse servirà a trovare un posto di lavoro adeguato alla loro preparazione, né a rendere più educati e maturi i loro figli. Una scuola senza regole, senza rispetto e ammirazione per chi ci lavora serve solo a farci lentamente precipitare nella barbarie e a premiare alla fine proprio i furbi e gli arroganti. Per questo quando l’opinione pubblica ha ancora la possibilità di poter esternare liberamente il proprio disappunto, anche attraverso l’anonimato dei sondaggi, reclamando serietà, impegno, educazione, rispetto delle regole e quindi delle leggi, è fondamentale che Governo e Parlamento abbiano il coraggio di cambiare rotta e di dare risposte finalmente chiare e coraggiose. Guidare un Paese democratico consiste innanzitutto nel conoscerlo veramente e nell’avere come interlocutori non solo, come nel caso della scuola, i professionisti della pedagogia, delle carriere ministeriali e gli arroganti. Il risultato del sondaggio ci rassicura, perché ci autorizza a pensare che abbiamo la possibilità di salvarci in quanto la maggioranza delle persone è disposta a credere che si può ancora cambiare questo Paese; e lo si fa solo se la scuola sarà diversa, profondamente diversa da come è purtroppo da molti anni.
Valerio Vagnoli
("Corriere Fiorentino", 1° dicembre 2017)