(ilSussidiario.net –
15 ottobre 2019)
«È un disastro, un vero disastro»: così pochi
giorni fa un noto docente della facoltà fiorentina di giurisprudenza
sintetizzava il suo giudizio sui tanti suoi studenti che faticano a comprendere
e riassumere un semplice testo; e che poi, da laureandi, non sanno utilizzare
le indicazioni del relatore per riscrivere le parti inadeguate della tesi. Una
testimonianza drammatica ma non sorprendente. Basta pensare alla massiccia
adesione di docenti universitari – 770 firme – all’appello del 2017 “contro il
declino dell’italiano a scuola”, un’adesione spesso accompagnata da commenti
altrettanto sconfortati. D’altra parte i sintomi di una situazione allarmante
si manifestano ben prima dell’università attraverso i dati dell’Ocse e
dell’Invalsi, quelli sull’analfabetismo funzionale, sull’insuccesso scolastico
e sui ragazzi che non studiano e non lavorano.
In questo quadro i cortei giovanili dell’ultimo
“venerdì per il futuro” hanno fatto da test sulla consapevolezza del ceto
politico rispetto ai problemi che ho elencato. Consapevolezza confermatasi come
tendente a zero. Infatti la proposta di Enrico Letta di dare il voto ai
sedicenni è stata subito accolta anche da Conte, Di Maio, Zingaretti e Salvini;
insomma, quasi da tutti. La motivazione addotta da Letta suona più interessata
che convincente. Si tratterebbe di dire ai giovani che hanno sfilato nelle
strade italiane: “Vi prendiamo sul serio e
riconosciamo che esiste un problema di sotto-rappresentazione delle vostre
idee, dei vostri interessi”. È sfuggito a Letta che per correggere la
“sotto-rappresentazione” dei giovani si dovrebbero (semmai) abbassare le soglie
dell’elettorato passivo, attualmente fissate a 25 anni per la Camera e a 40 per
il Senato.
Il bello è che cominciano a
levarsi diverse voci contrarie proprio tra i diretti interessati, i sedicenni.
Il “Corriere della Sera”, per esempio, ha pubblicato la lettera di
un’insegnante che sintetizza il senso di una discussione in una seconda liceo.
In breve, questi ragazzi ritengono di non avere ancora maturato una coscienza
politica e di essere quindi facilmente influenzabili; vedono anzi nella
proposta un tentativo di strumentalizzarli. Insomma capiscono quello che Letta
e gli altri sembrano ignorare, cioè che due anni di scuola e di maturazione in
meno sono un handicap da evitare.
Dunque la logica e il buon senso dovrebbero
consigliare, invece delle fughe in avanti a caccia dei voti degli adolescenti,
di impegnarsi a fondo per far crescere nell’elettorato la conoscenza dei
problemi di cui si devono occupare il governo e il parlamento. Nel preparare i
futuri elettori a esercitare il diritto di voto con cognizione di causa, un
ruolo decisivo deve per forza averlo la scuola; e questo ci riporta ai suoi
problemi e alle loro cause. Mettiamola così: in nessun settore della società
che funzioni – per esempio in quello della ricerca scientifica, nella vita
delle aziende, nello sport agonistico – si trascura la verifica dei risultati
(spinta anzi al massimo grado), l’accurata selezione in base al merito di chi
insegna e dirige, l’importanza dell’impegno, della puntualità, del rispetto dei
propri doveri. Altrove no. E purtroppo la scuola, salvo eccezioni, è in questo
altrove. Tutti i partiti ne proclamano l’importanza decisiva, ma – ministro
dopo ministro – evitano accuratamente di garantire le condizioni di cui sopra
per mettere in pratica le buone intenzioni. Si scelgono scorciatoie che
occultano i problemi invece di risolverli: spingendo i docenti a evitare le
bocciature per “diminuire” la dispersione; creando i Bisogni Educativi Speciali
che sfociano in autostrade verso la promozione; legittimando negli scrutini la
falsificazione di fatto di molte valutazioni. Gli esami, così importanti per
mobilitare le energie degli studenti, sono stati tutti aboliti, meno i due di
Stato che però diventano sempre più facili. L’importanza di avere buoni
insegnanti viene contraddetta da una debole selezione in entrata, da un gran
numero di assunzioni ope legis e dal
rifiuto granitico di occuparsi del demerito, cioè dei casi di grave inadeguatezza
professionale o deontologica.
Ci sono anche fattori esterni alla scuola che
rendono più difficile la crescita di cittadini interessati alla res publica. I politici sembrano spesso
più preoccupati di ottenere un facile consenso con slogan e battute a effetto
piuttosto che di spiegare bene i problemi da affrontare e le loro proposte. Non
pochi programmi televisivi preferiscono attirare spettatori con le risse
verbali che dedicare tempo a un’informazione esauriente. I notiziari danno
spesso per scontata la comprensione di espressioni o concetti solo perché sono
stati già usati. Ma il fatto forse più dannoso di tutti è stato il successo
dell’ “anti-politica”, che, partendo dall’intento di purificare la vita
pubblica dalla corruzione, ha finito per rendere condannabile o almeno sospetta
agli occhi di molti la politica in quanto tale; ed è probabile che questo abbia
spinto moltissimi ragazzi a estraniarsene.
Non è quindi la presunta “responsabilizzazione”,
attraverso il diritto di voto, di giovanissimi non ancora maturi che può
servire al progresso civile, ma in primo luogo una scuola più efficace nel
creare cittadini preparati e capaci di ragionare con la propria testa.
Giorgio Ragazzini