giovedì 26 settembre 2019

LOTTARE PER IL FUTURO E PRENDERE SUL SERIO LA SCUOLA. Lettera aperta agli studenti italiani

"Corriere Fiorentino", 26 settembre 2019) 
È un’ottima cosa che nel mondo tanti ragazzi si mobilitino in difesa del loro futuro e cerchino di evidenziare la gravità del problema climatico e l’urgenza di prendere i provvedimenti necessari.
Nel riconoscere e apprezzare tutto questo, allo stesso tempo dobbiamo segnalarvi un grosso rischio: quello di svalutare la grande importanza della scuola, se considerate la partecipazione alle manifestazioni di mattina, cioè in orario scolastico, come l’unica o la più importante forma di impegno.
Anche per uno scopo nobile come questo, è sbagliato perdere ripetutamente ore di lezione (se ne perdono già molte per tante e non sempre valide ragioni). Il primo motivo è il mancato arricchimento culturale, cioè un danno alla capacità di comprendere il mondo e costruire il proprio futuro. A scuola è possibile approfondire anche i problemi del clima, invece di accontentarsi di informazioni  superficiali raccolte spesso dai social network. Molti vostri compagni intervistati nelle manifestazioni della scorsa primavera ammettevano francamente la loro ignoranza in materia. Insomma, per uno studente la scuola dovrebbe essere anche il più importante luogo di impegno civile.
C’è poi da considerare lo spreco di risorse che la perdita di giorni scuola comporta e che rende contraddittorie le vostre frequenti e giuste richieste di più fondi per l’istruzione. Una scuola di medie dimensioni costa allo Stato 30.000 euro al giorno, mille scuole 30 milioni di euro.
È poi importante che le forme di lotta siano credibili al 100%. Si deve allontanare anche il solo sospetto che si eviti il pomeriggio per aumentare opportunisticamente la partecipazione.
È bene infine essere consapevoli che è una grande fortuna poter studiare; una possibilità che troppi bambini e ragazzi nel mondo non hanno ancora. Battetevi dunque per i vostri ideali continuando a frequentare tutti i giorni la scuola. In tanti apprezzeranno questa dimostrazione di maturità.
Aggiungiamo soltanto che come insegnanti e come cittadini avremmo preferito sentirvi rivolgere considerazioni come le nostre – ben più autorevolmente – dal Ministro dell’Istruzione, che vorremmo più attento nel valorizzare un’istituzione così fondamentale per il vostro e nostro futuro.
Sergio Casprini, Andrea Ragazzini, Giorgio Ragazzini, Valerio Vagnoli

mercoledì 25 settembre 2019

E ROMA RISBAGLIA


Nel riflettere sulla straordinaria manifestazione per il clima del 15 marzo scorso, che aveva visto la massiccia partecipazione di studenti e insegnanti, avevamo sottolineato la necessità che il suo svolgimento in orario scolastico rappresentasse un’eccezione e non diventasse una consuetudine. Sembra invece che ci si avvii su questa strada: venerdì prossimo si replica e con l’incoraggiamento del nuovo ministro, che auspica una grande partecipazione degli studenti. A questo scopo ha emanato un’infelice circolare alle scuole con cui invita presidi e insegnanti ad accogliere le giustificazioni degli studenti che dichiareranno di avere preso parte alle manifestazioni. Non c’era del resto da farsi illusioni. Chi conosce la scuola sa quante ore e giornate di studio si perdono per i più vari motivi; eppure per l’istruzione i contribuenti spendono molto, se pensiamo che, per esempio, una scuola di 30 classi ci costa 30 mila euro al giorno. Non è quindi una bella cosa che i «Venerdì per il futuro» rischino di diventare, proprio come sembra, dei venerdì in fuga dalla scuola e perciò dal futuro stesso, che vediamo tanto più grigio, se le nuove generazioni non acquisiscono, accanto alla capacità di mobilitarsi, la solida e approfondita preparazione culturale necessaria per cambiarlo. Ai piani alti della scuola, a dire il vero, le cose cambiano con notevole rapidità e chiunque viene chiamato a fare il ministro sembra fare a gara contro il tempo e i suoi predecessori per annunciare, e spesso purtroppo per mettere in atto, cambiamenti che servono innanzitutto a giustificare il proprio arrivo in viale Trastevere. Eppure l’attuale ministro, avendo riconosciuto al momento del suo insediamento di essere competente sulle questioni universitarie, ma totalmente inesperto di scuola, ci aveva fatto illudere che, al contrario di tanti suoi predecessori, fosse disponibile a mettersi con umiltà a conoscerla e a studiarla con attenzione e con il senso di responsabilità che si richiede quando siamo chiamati a incidere sul destino dei ragazzi. Invece ancor prima di varcare la soglia del ministero si è lasciato andare a una serie inarrestabile di proposte e riflessioni che lasciano il più delle volte basiti.
Come l’auspicio di ispirarsi alla rinfusa alla scuola finlandese, a Maria Montessori, a Don Milani, all’esperienza di Reggio Children... Qualcuno dovrebbe informare il ministro Fioramonti che blandire gli studenti non porta fortuna. Prima di lui lo ha fatto l’ex ministra Carrozza: anche lei, appena varcata la soglia di viale Trastevere e dichiaratasi come Fioramonti incompetente del sistema scolastico, sollecitò tuttavia gli studenti a ribellarsi ai genitori, alla scuola e ai professori. E peggio di lei avrebbero poi fatto l’ex sottosegretario Davide Faraone che esaltò il valore formativo delle occupazioni e l’ex vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini, che elogiò gli studenti che anziché essere a scuola andavano ai suoi comizi. Un comportamento del genere certamente fa molto male alla scuola e al Paese, e a pensarci bene non giova neanche al miglioramento del clima stesso se nel suo nome ci permettiamo di sperperare milioni di euro per fare, al mattino, ciò che si potrebbe fare, anche con maggior credibilità, di pomeriggio.
Valerio Vagnoli
(Editoriale del “Corriere Fiorentino” di oggi)

lunedì 23 settembre 2019

I “VENERDÌ PER IL FUTURO” SONO UNA BELLA COSA. MA PERCHÉ FERMARE LA SCUOLA?


Venerdì scorso la faccetta di Greta Thunberg sprizzava soddisfazione. Centinaia di migliaia di ragazzi di tutto il mondo stanno forse spingendo davvero i governi a un impegno maggiore per ridurre le emissioni di gas serra. È un movimento che può anche servire a rincuorare una generazione che le vicende economiche hanno indebolito in molti casi il naturale slancio verso il proprio futuro. Questo non ci esime, però, come facemmo  la scorsa primavera per la prima ondata di manifestazioni, dal sottolineare di nuovo che c’è un serio problema se l’impegno politico-sociale svaluta di fatto la frequenza scolastica, già erosa da molteplici interferenze, oltre che dalla possibilità di stare assenti senza conseguenze cinquanta giorni l’anno. La domanda è: c’è davvero qualche serio impedimento nel collocare le manifestazioni al di fuori dell’orario scolastico? Se disertare le lezioni poteva essere comprensibile in una fase di contestazione globale quale quella del ‘68, nel tempo è cresciuta (anche se sottaciuta) un’ovvia motivazione opportunistica: se ci mobilitiamo di mattina, viene anche chi di pomeriggio non lo farebbe. 
Di fronte a questa malsana tradizione, sarebbe ovvio un forte richiamo dei ministri di turno alla necessità di una assidua presenza a scuola, a valorizzare ogni singola ora di lezione. E al fatto che una cosa è un’ eccezione, un’altra le ripetute assenze dalle lezioni.
Alla vigilia  del primo “Venerdì per il futuro”, quello del 15 marzo di quest’anno, il ministro Bussetti si limitò a dire: “Si andrà a scuola regolarmente”. Un richiamo flebile e burocratico al valore della frequenza, ma ci fu. In vista del “Friday for Future” di ieri, invece, il suo successore lo ha definito “la lezione più importante che possano frequentare”. La scuola e gli insegnanti ne escono ovviamente svalutati. Il Ministro dell’Istruzione avrebbe fatto meglio a dire agli studenti che la scuola è il luogo dove le tematiche ambientali possono essere adeguatamente approfondite e non solo orecchiate dai media. Peraltro Fioramonti non è certo il primo che da viale Trastevere ha contribuito a indebolire l’autorevolezza dell’istruzione pubblica: basti ricordare Maria Chiara Carrozza, che incitò gli studenti a ribellarsi “ai genitori, ai prof, alla scuola”; gli elogi delle occupazioni e delle autogestioni di Davide Faraone; e – da un altro pulpito – quelli di Matteo Salvini.
Alla scuola, insomma, si dà importanza a parole, non nei fatti. Quante dichiarazioni programmatiche abbiamo sentito incentrate sul tempo scuola come migliore antidoto alla dispersione scolastica?  
Forse una maggiore consapevolezza di quanto pagano per la scuola i contribuenti potrebbe farci fare un passo avanti. L’Associazione Nazionale Presidi  tempo fa calcolò  quanto costano le occupazioni studentesche.  ”Uno studente – spiegava l’Anp – costa allo Stato circa 8mila euro l’anno.  Una classe di 25 studenti ne costa mille al giorno. Il ‘fermo’ di una scuola di 30 classi ne costa 30mila, sempre al giorno. In due giorni  di sospensione delle lezioni – evidenzia – una scuola di medie dimensioni ha ‘bruciato’ l’equivalente di quanto riceve in un anno di finanziamenti”.  Dunque, se anche solo 1000 scuole superiori su circa 12.000  si fermano per una giornata, se ne vanno in fumo 30 milioni di euro. Pensiamoci.
Giorgio Ragazzini
"ilSussidiario.net", 23 settembre 2019

mercoledì 18 settembre 2019

TRECCINE BLU E LIBERTÀ INDIVIDUALE

È un attentato alla libertà individuale imporre a un allievo di non venire a scuola con un fascio di treccine blu elettrico in testa? La risposta è affermativa per la mamma del ragazzo di Scampia che ha dovuto tagliarsele per rientrare in classe, ma anche per il sottosegretario De Cristofaro, che chiederà all’Ufficio scolastico regionale “di intervenire per ripristinare un principio di libertà”.
Si sa però che le libertà in qualsiasi campo trovano qualche inevitabile limite; e anche la crescita esponenziale dell’informalità dopo il ’68 non ha reso raccomandabile andare a messa in bikini, con infradito e bermuda dal presidente di un’azienda o a torso nudo a un colloquio di lavoro. Su questo punto la scuola ha il duplice compito di contrastare l’esibizionismo, cioè il "guardate qua! guardatemi, vi supplico!" (Michele Serra), e quello di far capire che crescere significa anche saper adattare linguaggio, atteggiamenti e abbigliamento alle diverse situazioni. Far rispettare queste e altre regole a Scampia è poi, com’è intuibile, doppiamente importante.
Ma chi lo decide – si obbietta – che le treccine colorate, le mutande in vista e le natiche che occhieggiano sopra i jeans non vanno bene a scuola? La risposta è che spetta alla scuola stessa, come a chiunque abbia un ruolo educativo, applicare a casi concreti dei principi generali condivisi (cioè discussi). Nella media dove ho insegnato per dieci anni il regolamento di disciplina prescriveva semplicemente: “L’abbigliamento con il quale i ragazzi si presentano a scuola deve essere sempre decoroso e adatto al lavoro scolastico”. Punto. Ne avevano discusso una commissione, poi il Collegio dei docenti e infine il Consiglio di Istituto, evitando di elencare una casistica e affidando agli insegnanti il compito di applicare la norma con buonsenso e fermezza. E ha funzionato benissimo.
Giorgio Ragazzini

sabato 7 settembre 2019

INSEGNARE LA DEMOCRAZIA: L’IMPORTANZA DELLA DISCUSSIONE


Il governo attraverso la discussione: è questo il modo migliore per definire la democrazia, quello che ne coglie il nucleo profondo, che non è tecnico, ma umano, come vedremo tra poco. La definizione è dell’economista James Buchanan, poi ripresa da Amartya Sen in un saggio pubblicato sul “Foglio” nel 2003. Questo punto di vista, scrive lo studioso indiano, ci consente di ampliare la storia delle idee democratiche e in particolare di correggere la convinzione “che la democrazia sia un’idea esclusivamente occidentale”. Sen sottolinea infatti l’esistenza di “lunghe tradizioni di incoraggiamento e protezione della discussione pubblica su temi politici, sociali e culturali, ad esempio in India, Cina, Giappone, Corea, Iran, Turchia, nel mondo arabo e in molte regioni dell’Africa”. Tutto questo, aggiunge, non diminuisce certo l’importanza di elezioni e votazioni, che però sono in realtà un mezzo per dare uno sbocco concreto a quello che è maturato nel dibattito pubblico; se accompagnato, s’intende, dalla garanzia di poter parlare e ascoltare liberamente.
Ma l’idea della democrazia come “governo attraverso la discussione” ci spinge ad andare oltre le considerazioni di Amartya Sen e a scoprire il legame tra democrazia e natura umana. Pensiamo al modo in cui tutti noi prendiamo piccole o importanti decisioni: in famiglia, fra amici, nei gruppi di cui facciamo parte. Lo facciamo quasi sempre discutendo. Fin da ragazzi: A che si gioca? Chi ha ragione fra Paolo e Teresa? È meglio il Liceo classico o lo scientifico? Lo stesso avranno fatto anche i nostri lontani antenati per organizzare la caccia, la pesca o la raccolta, per scegliere la direzione verso cui migrare o, successivamente, per distribuirsi i compiti nei lavori agricoli.
La democrazia è quindi radicata in una caratteristica fortemente evolutiva dell’essere umano: la capacità di scambiarsi delle idee, di confrontarsi su diverse opzioni, di accordarsi e collaborare in vista di uno scopo. Non solo: la democrazia ha radici anche nella testa di ognuno di noi, dato che vi si svolge quel dialogo “tra me e me” che è, come sottolinea Hanna Arendt nel suo libro su Socrate, “condizione basilare del pensiero” (fu infatti il filosofo ateniese a sostenere che siamo tutti “due-in-uno”).
Del legame con queste caratteristiche degli esseri umani – in cui, come sappiamo, possono prevalere altre e opposte tendenze – dovrebbe tenere conto la scuola nella didattica dell’educazione civica (o della storia), specie nel primo ciclo di studi, in cui gli allievi non hanno sviluppato compiutamente la capacità di astrazione e in genere apprendono meglio in base a esempi concreti, anche tratti dall’esperienza personale. Spiegare la democrazia cominciando da elezioni, diritto di voto, maggioranze e minoranze, parlamento, può essere un po’ come iniziare dal tetto la costruzione di una casa (questo non esclude che ci siano altri percorsi didattici adatti all’età).
Questa concezione della democrazia rende più evidente l’importanza della qualità della discussione pubblica. Perché un sistema democratico funzioni non basta discutere: bisogna farlo bene. Purtroppo il dibattito politico lascia molto a desiderare, sia che ci si riferisca al dialogo tra i politici, sia a quello tra i cittadini interessati ai problemi della società e al confronto tra i partiti. Sotto accusa in particolare la Rete, che, se rende possibile diffondere un’idea intelligente anche se espressa da un signor Nessuno, allo stesso tempo non solo fa circolare una valanga di sciocchezze e di offese, ma, come ha ben detto Luca Ricolfi, “è il luogo nel quale si celebra e si conferma quotidianamente la distruzione della distinzione tra fatti e opinioni sui fatti”.
Quanto alla discussione a voce, quella tradizionale “in presenza”, spesso càpita di assistere a “dibattiti” in cui ci si interrompe in continuazione, si urla, si squalifica l’interlocutore, si sostituisce l’argomentazione con etichette, sarcasmi, caricature delle idee altrui. E non c’è quasi problema complesso che non venga iper-semplificato.
Neppure per migliorare il livello della discussione pubblica esiste una soluzione semplice. Potrebbero fare molto nel proprio àmbito soprattutto i giornalisti, i conduttori televisivi, i partiti. E ovviamente anche la scuola. Non basterà però un’ora di educazione civica, la cui reintroduzione, peraltro, proprio in questi giorni è stata rimandata all’anno prossimo. Per formare i futuri cittadini democratici c’è prima di tutto bisogno di una scuola che non transiga sull’impegno nello studio, faccia capire quanto è complessa la realtà, scoraggi la presunzione. Altrettanto esigente la scuola deve essere sul rispetto delle regole della convivenza civile, compreso il modo di discutere correttamente. Solo così formeremo persone culturalmente più preparate, capaci di attenersi alle leggi che la società si è data a garanzia dei diritti di tutti e rispettose dei punti di vista diversi dal proprio.

Giorgio Ragazzini
(“ilsussidiario.net”, 6 settembre 2019)