venerdì 11 marzo 2016

SCUOLA E DIBATTITO PUBBLICO NEL PAESE CHE NON SA DISCUTERE

Un paio di settimane fa il “Corriere della Sera” pubblicava un editoriale di Ernesto Galli Della Loggia, Un paese che non sa discutere. L’Italia, diceva, è caratterizzata da “un vasto brodo di cultura che, seppure involontariamente, nutre di continuo gli slogan più esasperati alimentando ogni giorno questa cieca irragionevolezza, questo pensare in bianco e nero”. Spiace constatare  che non di rado tutto questo vale anche per il dibattito sui problemi della scuola. Ci sono stati perfino casi in cui gruppetti di docenti hanno impedito di parlare a esponenti politici; episodi sporadici e minoritari, ma non sempre adeguatamente stigmatizzati dai sindacati più rappresentativi. Non  manca certo, anche su questo blog,  chi si esprime all’altezza del proprio ruolo anche nel motivare il più severo dissenso. Ma se si pensa che gli insegnanti dovrebbero dare esempio di pensiero critico ai loro allievi, c’è a volte da trasecolare. Peraltro temo che l’espressione “pensiero critico” (o in alternativa “spirito critico”) venga intesa da molti come sinonimo di “criticare” sempre e comunque, col che ogni bastian contrario diventerebbe per ciò stesso un modello da seguire. Ma pensare criticamente è, com’è ovvio, qualcosa che ha a che fare con la riflessione, la revisione delle proprie idee, le lezioni dell’esperienza, la considerazione di altri punti di vista. Comunque lo si voglia definire, non è certo un talento innato, ma una vera e propria conquista. Si nasce egocentrici e, a dispetto della migliore educazione e del più perseverante esercizio, un po’ lo si rimane per forza. Abbiamo tutti un gran bisogno di avere ragione, di non provare lo smacco di soccombere in quel gioco a somma zero che chiamiamo discussione. Se non ne siamo abbastanza consapevoli, sappiamo bene cosa può succedere: un “crescendo” emotivo che sfocia spesso nella caricatura di quello che l'altro ha veramente detto, nel sarcasmo e nell’insulto. Tutti poi sperimentiamo, in noi stessi e nei nostri interlocutori, la difficoltà di ascoltare sul serio. Tempo fa mi è capitato di prendere parte a una riunione in cui uno dei partecipanti tentava di rispondere a una critica. L’interlocutrice, però, non riusciva a starlo a sentire e continuava a interromperlo dopo le prime parole. Lui ha cercato più volte di andare avanti, anche alzando la voce, fino a che lei è sbottata: “È inutile, tanto lo so cosa vuoi dire!”. Eppure, saper ascoltare, aspettare il proprio turno, sorvegliare le proprie emozioni con un pizzico di distacco può farci ritrovare, per dirla ancora con Galli Della Loggia, “il gusto e il piacere per la discussione, per una discussione vera tra opinioni diverse che interloquiscono tra loro nel mutuo rispetto”. In questa direzione il mondo della scuola può dare un importante contributo di serietà e di rigore democratico, non solo nelle aule a contatto con le nuove generazioni, ma anche nel vivo del dibattito pubblico.
Giorgio Ragazzini

mercoledì 2 marzo 2016

LA DISPERSIONE SCOLASTICA: DI CHI LA COLPA?

Nei giorni scorsi “La Stampa” ha commentato i risultati del progetto “Fuoriclasse” contro la dispersione condotto da Save The Children in alcune scuole di sei città italiane, integrandoli con i dati di inchieste internazionali del 2010 e del 2011. L’articolo sposa senz’altro il luogo comune che vede nella scuola primaria un segmento di eccellenza e nella  media il “buco nero” o “anello debole” della scuola italiana. Tra l’altro il titolo in prima pagina, La grande fuga dalle medie, non rispecchia neppure il contenuto dell’articolo, che parla di una dispersione intorno al 15% nell’intero sistema scolastico, che si verifica quasi tutta dopo le medie. Detto questo, gli stessi grafici intitolati Divari sociali mostrano chiaramente che il declino dei punteggi nelle prove delle indagini parte almeno dalla quarta elementare, mentre lo stesso Invalsi ha smentito che ci sia un problema specifico della scuola media e ha ricordato che nella preadolescenza – sempre più anticipata – per tanti motivi può diminuire il desiderio di imparare, mentre crescono altri interessi tra cui l’importanza del gruppo. Questo non significa che il triennio delle medie non abbia bisogno di un ripensamento, anche nella sua capacità orientativa per la scelta della scuola superiore. Ma che la scuola primaria sia immune da carenze nell'assicurare un’adeguata preparazione in uscita non lo si può certo sostenere.

Ma non tutte le colpe della dispersione sono del primo ciclo, anzi. Abbiamo più volte ripetuto che  gli istituti tecnici e ancora di più i professionali, sempre più “licealizzati” dai primi anni novanta in poi, non sono tali da poter valorizzare le attitudini di tutti quelli che si rivolgono a loro. Né  possiamo ignorare le differenze sociali tra zone d’Italia e anche tra quartieri delle medesime città; e che le condizioni di povertà coinvolgono ora milioni di immigrati che spesso non possono neanche più contare su mestieri che gli italiani, per decenni, si sono abituati a non svolgere. Le periferie di molte nostre città, non solo del sud, sono talvolta abbandonate a sé stesse o dominate dalla malavita e solo la scuola offre spesso in quelle realtà un servizio sociale decisivo per la vita di molti bambini, anche dando loro la possibilità di fare un pranzo degno di questo nome e di restare fino alle cinque del pomeriggio in un ambiente protetto.
Fatto sta che non possiamo più permetterci di ignorare che moltissimi ragazzi arrivano alle superiori, dopo ben otto anni di scuola dell'obbligo, con una preparazione inadeguata che in molti casi non è neppure quella che un tempo si acquisiva con la terza elementare. E che una parte consistente delle matricole universitarie, come da tempo avvertono i docenti universitari, è priva di un adeguato bagaglio lessicale e di un compiuto controllo ortografico e sintattico della lingua italiana. Se vogliamo cominciare a ragionare seriamente sull’istruzione pubblica, dobbiamo abbandonare le retoriche modaiole, tra cui quella della personalizzazione come dogma di fede, e tornare a pensare la scuola anche dal punto di vista della collettività e non solo da quello del singolo allievo e dei suoi genitori. Questo significa in sintesi: una scuola più esigente nel verificare il sicuro possesso degli strumenti di base almeno alla fine del primo ciclo (scrivere correttamente, leggere e capire, “far di conto” come si diceva un tempo); più ferma nel chiedere la correttezza dei comportamenti, che non è solo doverosa in sé, ma influisce moltissimo sull’apprendimento; più determinata nel favorire la qualità media del corpo docente. Non c'è tempo davanti a noi, occorrono anni e anni per costruire  un futuro migliore del presente e portarci al livello dei più avanzati paesi europei, almeno nella diminuzione del tasso di dispersione; che è di dimensioni tali da chiederne conto a chi, con le chiacchiere e la demagogia, ha ridotto la nostra scuola a questo livello indecoroso. Giorgio Ragazzini e Valerio Vagnoli