martedì 9 marzo 2021

C’È IL DIRITTO ALL’ISTRUZIONE, NON QUELLO ALL’APPRENDIMENTO



Nel suo blog su “Huffington Post” l’ex ministra Valeria Fedeli presentava ieri, Festa della donna, un incontro da lei promosso e programmato per il pomeriggio, che si poteva seguire attraverso la web tv del Senato. Titolo: Diritto all’istruzione e all’apprendimento per un’economia della conoscenza e il superamento di ogni disuguaglianza.

Il “diritto all’apprendimento” è chiaramente una variante del “diritto al successo formativo”, entrato da molti anni nel lessico ministeriale. Si tratta di concetti di carattere ideologico, nel senso di un pensiero che non fa i conti con la realtà. I saggi padri fondatori degli Stati Uniti d’America non inserirono tra i “diritti inalienabili” la felicità, ma, più realisticamente, “il perseguimento della felicità”, per l’ovvio motivo che nessuna legge e nessuno Stato può garantirla.

Possiamo parafrasare in molti modi le espressioni “diritto allo studio” o “diritto all’istruzione”, come preferisce dire la Fedeli, per dire comunque che le istituzioni devono fare ogni sforzo possibile per assicurare alle nuove generazioni insegnanti e prèsidi preparati, piani di studio ben fatti, ambienti piacevoli e funzionali, ogni genere di sussidi didattici e aiuti economici per i meno fortunati. Ma ogni allievo sarà chiamato, per sua fortuna, a metterci del suo, senza di che niente sarà abbastanza utile. Invece col “diritto al successo formativo” e simili, in un colpo solo si chiede alla scuola di essere onnipotente e, se non ci riesce, colpevole, mentre si aboliscono il merito e la responsabilità dei discenti.

L’ex ministra spiega che il “diritto all’apprendimento è fondamentale perché non basta la mera trasmissione delle nozioni per considerare assolta la funzione costituzionale della scuola”. Ma chi sostiene che lo scopo della scuola è “la mera trasmissione delle nozioni”? I buoni docenti hanno sempre insegnato anche a comprendere e a ragionare oltre che a memorizzare. Ma se si tratta di garantire buoni insegnanti a tutti, allora siamo in prima linea, mentre non lo è stato nessuno dei Ministeri passati, tutti incapaci di selezionare in entrata i docenti e togliere dalla cattedra quelli rivelatisi inadatti. Non si parli quindi di “diritto all’apprendimento”, il cui succedaneo, purtroppo, sono inevitabilmente le promozioni immeritate. Nessuna scuola può esonerare i ragazzi da un impegno responsabile.

Giorgio Ragazzini

lunedì 1 marzo 2021

MOTIVATI AD APPRENDERE SOLO DA DIVERTIMENTO E PIACERE?

 Rispondendo a un lettore, il direttore della “Tecnica della scuola” Reginaldo Palermo  afferma che i bambini non imparano per i voti, ma solo perché sono spinti “da una motivazione interna, per il gusto e per il piacere di scoprire cose nuove”. Qui si può leggere tutto l’articolo. Ma le cose non stanno proprio così. Ecco la nostra risposta. 

Carissimo dottor Palermo,

le scrivo per contestare garbatamente la “teoria del risotto”, cioè l’idea che l’unica motivazione che spinge a imparare sia il gusto di conoscere cose nuove, un po’ come si cucina il primo piatto di cui sopra per poter dire “Mmm, che buono!” C’è del resto chi va oltre e pensa che solo a forza di manicaretti, cioè di una nuova didattica accattivante, si risolvano anche tutti i problemi di disciplina, determinati dalla lontananza della scuola dai “giovani d’oggi” e dalla conseguente noia.

Naturalmente è fondamentale che un insegnante sappia essere un buon “cuoco” della sua materia, abbia cioè quelle competenze disciplinari, metodologiche e relazionali che rendano il più possibile interessanti le sue lezioni. Ma il luogo comune della scuola divertente giocato contro la scuola “tradizionale” è sbagliato. La “motivazione interna” che spinge il bambino e il ragazzo sulla strada della conoscenza è fatta di altre cose non meno necessarie: la scuola è una cosa importantissima, ci vanno tutti i bambini, ci sono andati papà e mamma, serve a imparare com’è il mondo, a farsi nuovi amici, ci sono spesso difficoltà che dobbiamo imparare a superare, ci si deve impegnare per ottenere dei risultati, si deve stare attenti, studiare e fare i compiti a casa; più impariamo, più facilmente troveremo un lavoro che ci piace; una ricompensa per la fatica che facciamo sono gli elogi della maestra o della professoressa e anche i buoni voti per cui i genitori si congratulano. Come disse Barack Obama agli studenti, “noi possiamo avere gli insegnanti più appassionati, i genitori più attenti e le scuole migliori del mondo: nulla basta se voi non tenete fede alle vostre responsabilità. Andando in queste scuole ogni giorno, prestando attenzione a questi maestri, dando ascolto ai genitori, ai nonni e agli altri adulti, lavorando sodo, condizione necessaria per riuscire.[...] Non vi piacerà tutto quello che studiate. Non avrete la stessa sintonia con tutti i professori. Non tutti i compiti vi sembreranno così fondamentali. E non avrete necessariamente successo al primo tentativo. È giusto così.”

Aggiungo in chiusura che la scuola, come faceva notare il suo “attento lettore”, avrebbe il preciso dovere di certificare quello che gli allievi hanno imparato. Una valutazione ci deve quindi essere. L’uso dei voti (quanto, quando, come) è un tema didattico che si può approfondire, ma chi non li vuole deve almeno sostituirli con qualcosa che sia altrettanto comprensibile e che renda chiari i meriti e le carenze, invece di nasconderli con locuzioni cervellotiche. Ricordandosi comunque che non qualificano la persona, ma solo una sua prestazione o la sua preparazione in un dato momento.  

Cordialmente,

Giorgio Ragazzini

 "La Tecnica della scuola", 28 febbraio 2021