mercoledì 30 luglio 2008

PERÒ, CARO BRUNETTA, COSÌ NON SI PREMIA IL MERITO...

Premessa: sono stato fin dall’inizio un sostenitore addirittura entusiasta della Sua svolta: bene sanzionare il demerito di assenteisti e fannulloni; e benissimo insistere ancora di più sulle responsabilità di chi questi comportamenti permette, cioè i dirigenti. Così si riconosce, sia pure indirettamente, il merito di chi continua nonostante tutto a comportarsi irreprensibilmente (e con ciò stesso assicura un minimo di decente funzionamento alla pubblica amministrazione).
In chiave con questi obbiettivi mi aspettavo che i Suoi primi provvedimenti avessero un carattere selettivo, andassero cioè a colpire chi si comporta male e non chi fa il proprio dovere. Apprendiamo invece che fin dal primo giorno di assenza lo stipendio di chi si ammala verrà comunque decurtato di circa il 25-30%. Non si potrebbe immaginare un criterio più “antimeritocratico” per cominciare una battaglia a favore del merito. E ne scaturirà un giusto risentimento proprio in coloro che potrebbero in modo più convinto appoggiare la Sua svolta politica. Tanto più che anche la seconda misura da Lei prevista fa un po’ di ogni erba un fascio, con il controllo obbligatorio per tutti fin dal primo giorno da parte di un medico fiscale; misura che è già stata sperimentata in passato con scarsi risultati sul piano del rigore (forse a causa di una normativa inadeguata) e un forte aumento di spesa da parte dello Stato. O si decide che non si responsabilizzano i dirigenti o si affida alla loro discrezionalità la decisione su chi controllare e chi no. In genere infatti i dirigenti sanno benissimo chi è scorretto. Se non si assumono le proprie responsabilità lo fanno o per quieto vivere (tanto non gli succede nulla) o per i limiti ipergarantisti imposti da leggi e contratti.
Come tutti gli insegnanti coscienziosi, che spesso evitano di stare assenti pur non sentendosi bene, mi spiacerebbe davvero essere colpito da misure indiscriminate; tanto più dopo le belle speranze da Lei coraggiosamente suscitate.

Cordialmente, Giorgio Ragazzini

Commenti

Maria Giovanna Ragionieri: D'accordo con la lettera, forse un po' generica, ma necessaria. Un'altra precisazione: le visite fiscali costano: chi le paga? E poi, si dispongono anche per i dirigenti (non dico solo i presidi)? Negli annali della mia famiglia si racconta di uno zio, economo di una (allora) USL, che passò l'intera settimana bianca sciando con passamontagna e occhialoni perché coperto da un certificato medico: temo che per ruoli apicali questo sia ancora possibile. Buone vacanze (legittime).

Giuseppe Moncada. Ho letto la lettera di Giorgio Ragazzini e la condivido in pieno. Sono un Dirigente Scolastico, ormai all’ultimo anno della mia permanenza presso un Liceo Scientifico in un paese della provincia di Catania. Ho quarantasei anni di servizio. Fino al 1982/83 docente di Matematica e Fica e successivamente Preside, che preferisco a Dirigente. All’età di 69 anni sono in servizio per aver avuto confermata la dirigenza dal giudice del lavoro di Caltagirone. Ho fatto causa per una questione di principio, perché ho amato e amo ancora la scuola. Purtroppo a parole dicono di voler responsabilizzare i Dirigenti ma non lo fanno. Responsabilizzazione significa verifica del lavoro che si svolge e del modo come lo si fa. Ho letto parecchi vostri articoli che vanno nella direzione di voler ottenere una scuola del merito e non del tira a campare, come è oggi. Vi segnalo, se non lo avete letto un articolo di Andrea Ichino, sole24ore del 23/7, sulla valutazione per gli esami di maturità. Ho scritto al Professore e mi ha inviato delle sue note che condivido. Cosa ne pensate di introdurre il criterio proposto?
Con cordialità
Giuseppe Moncada

sabato 26 luglio 2008

"Il giudizio complessivo sulla maturità degli studenti dipende dalle verifiche sulle materie, ma anche dai comportamenti"

Questo ha detto il ministro della Pubblica Istruzione Mariastella Gelmini. Siamo perfettamente d'accordo; anzi, il progetto sembra concordare largamente con una delle nostre proposte specifiche per cominciare ad attuare i principi di merito e responsabilità (ci riferiamo a Riconoscimento del comportamento corretto). Naturalmente la condotta dovrebbe influire anche sulla valutazione finale degli anni precedenti a quello dell'esame.
Le vacanze non ci consentono di commentare il lavoro del ministro con la puntualità che vorremmo; più in là sarà necessario tentare un primo bilancio. Certamente ci sono luci e ombre, intenzioni assolutamente in linea con la necessaria svolta della serietà solo avviata da Fioroni e altre che appaiono o molto generiche o senz'altro discutibili. Tuttavia i passi nella giusta direzione vanno sempre salutati con favore e riconosciuti come meritano.

(GdF)

martedì 22 luglio 2008

SETTE IN CONDOTTA, UNA SCELTA GIUSTA di Mario Pirani

(La Repubblica - 21.7.2008)
Vi è qualcosa di desolante nelle geremiadi, nelle patetiche deplorazioni, nei tanti «ben altro è il problema» che si sono levati da alcuni ambienti del pedagogismo di sinistra, per nulla consapevoli delle responsabilità che portano per lo stato disastroso in cui si trova la scuola italiana. E invece di domandarsi perché è esploso in questi anni un bullismo incontrollato, perché il grado di apprendimento, misurato secondo parametri internazionale, veda lo scivolamento verso il basso dei nostri ragazzi, perché questi si presentino spesso all’università digiuni delle più elementari cognizioni di sintassi e persino di ortografia, ebbene costoro seguitano a vantare le loro dissennatezze, dal 3+2 allo Statuto dei diritti degli studenti, che abolì la validità del 7 in condotta e praticamente la disciplina scolastica. Si arrivò così al massimo di caricatura della lotta di classe (una cosa che avrebbe fatto orrore al partito di Palmiro Togliatti e di Concetto Marchesi) immaginandosi l’istituto scolastico non il luogo deputato a realizzare un servizio pubblico dove i nostri figli, giustamente ancora privi di diritti politici e sindacali, sono chiamati a formarsi in un quadro di norme eguali per tutti e regolate da una disciplina che assicuri il buon funzionamento del rapporto docente-discente e della normale convivenza fra gli alunni; non questo, quindi, ma a somiglianza delle fabbriche, il luogo di una dialettica contrapposizione dove il legislatore era chiamato ad intervenire con uno Statuto che, come nelle aziende dove vige lo sfruttamento, difendesse la parte più debole (gli studenti) dalla prevaricazione padronale, impersonata dagli insegnanti. Così, come l’idiozia di destra aveva portato qualche anno innanzi (primo governo Berlusconi) all’abolizione degli esami di riparazione e al “diritto” di trascinarsi i “debiti” fino alla licenza liceale, così il primo centro sinistra abrogò la valenza del 7 in condotta, le espulsioni o altre punizioni giudicate eccessive. Così come, giustamente, nelle fabbriche non si poteva licenziare, altrettanto con una estensione assurda della stessa logica, nella scuola non si poteva più bocciare né punire. L’indispensabile autorità dell’insegnante ne uscì vanificata. Si salvarono solo i pochi dotati di un proprio, particolare, carisma ma non potevano fare la regola. E neanche lo potevano quei pochi istituti particolarmente qualificati o certe oasi fortunata in qualche regione, specie del Nord. Il permissivismo teorizzato portò, invece, con se altre degenerazioni nella «costituzione materiale» della scuola: le inutili okkupazioni annue in nome dell’autogestione, il diritto alle assenze, le interrogazioni predeterminate a data fissa, le contestazioni, spalleggiate dalle famiglie, dei voti di insufficienza, magari con ricorso al Tar. La derubricazione del voto di condotta, incentivò e allargò le frange bulliste, intimorì e ridicolizzò la maggioranza normale degli alunni. L’offesa e l’aggressione verso l’altro, verso il diverso, verso l’insegnante, verso edifici e suppellettili scolastiche rientrò nei “diritti” acquisiti e, comunque, nei comportamenti non punibili, meno che mai con una bocciatura, Solo una forma patologica di atarassia culturale può spiegare che di fronte a un minimo di recupero del buon senso pedagogico si parli di ritorno «dell’incubo del 7 in condotta», di «regressione verso il passato» o di «restaurazione autoritaria». È pur vero che quando negli anni scorsi sollevai le stesse tematiche un ministro di sinistra dell’epoca, illustre cattedratico, mi tacciò di nostalgie fasciste, ma io non me ne dolsi più che tanto. Mi confortò l’appoggio di tanti insegnanti, come di molti studenti seri E soprattutto, durante l’ultimo governo Prodi, l’operato del duo Fioroni- Bastico alla Pubblica Istruzione che avevano rovesciato l’andazzo precedente, bloccato il trascinamento dei debiti, dato un primo avvìo al loro recupero, epurato lo Statuto delle sue norme assolutorie. Con ciò dimostrando che la stupidità pedagogica non è un obbligo morale per la sinistra. Il 7 in condotta non è un incubo ma soltanto un segno visibile di confine. Può contribuire al recupero fra i giovani del concetto, in gran parte annebbiato, di «limite». Oltre il quale si apre la trasgressione, più o meno grave, che comporta una sanzione. È decisivo sapere che non c’è assoluzione in partenza. Questo è il senso della presa di posizione di Maria Angela Gelmini, un ministro che sta dimostrando gran buon senso (vedi anche il ritorno all’egualitario grembiule) C’è solo da augurarsi che non si arresti alle interviste ma le traduca in legge.

mercoledì 16 luglio 2008

SUL SETTE IN CONDOTTA C’È CHI RISPOLVERA L’ARMAMENTARIO BUONISTA INVECE DI DISCUTERNE SERIAMENTE

Sul tema della condotta scolastica si manifestano ciclicamente i vizi e i tic culturali di una parte della sinistra. È bastato che il ministro Gelmini dicesse che è necessario tenerne conto nella valutazione di fine anno, che si è rivisto il solito repertorio di frasi fatte e di accuse grossolane. Il Coordinamento dei genitori democratici afferma: “Non è con gli schemi sanzionatori che si risolvono i problemi” (è la vecchia idea chic che sanzione è uguale a autoritarismo). L’Unione degli studenti democratici: “Un ragazzo può essere irrequieto, non impeccabile [maleducato? insopportabile?], eppure dotato di competenze e capacità” (un giorno si proclama fondamentale l’educazione alla cittadinanza, il giorno successivo ci si rifugia dietro una netta separazione di comportamento e “competenze”). “L’Unità” è felicissima di tornare allo scontro ideologico e apre un pezzo dall’originalissimo titolo Gelmini zero in condotta con una citazione di Edoardo Bennato (da I buoni e i cattivi dei gloriosi anni '70), in cui i bambini sono in fila per tre, devono dire sempre di sì, eccetera. Berlinguer su Radio 1 duetta con Bertagna. Per l’ex ministro, nutritosi di letture pedagogiche “moderne” e di articoli di Umberto Galimberti (ma dimentico di Gramsci), questa scuola che ha separato il cuore e la ragione dovrà essere sostituita da un luogo in cui un gruppetto di allievi gioca a scacchi, altri due dipingono, altri conversano in inglese su problemi di attualità (ma dove sono finiti gli insegnanti, in qualche gulag?). Bertagna interloquisce: “Il professore ha ragione, la scuola italiana è ancora concepita come una caserma!”.
Eppure è stato proprio un ministro democratico, Giuseppe Fioroni, a sottolineare per primo, e con lodevoli provvedimenti concreti, la necessità di dare il giusto peso al comportamento e di non continuare a farne una variabile ininfluente della vita scolastica. Fino a quando c’è stato lui a Viale Trastevere gli antiautoritari professionali hanno taciuto obtorto collo o bofonchiato; ora che c’è un’esponente del centrodestra si sentono come liberati da un incubo. Il ministro ombra Maria Pia Garavaglia traccheggia: un po’ critica: “si parla della scuola solo sul piano del colore” (forse perché se ne vedono di tutti i colori); un po’ cautamente consente: “La proposta può essere un utile terreno di confronto, sempre che si trasformi in fatto concreto”. Viene spontanea una domanda: perché l’ex-ministro tace? Non s’era detto, in campagna elettorale, che la scuola, patrimonio fondamentale della società, deve essere terreno di dibattito senza preconcetti e mediocri tornaconti politici?
Per fortuna, comunque, in tanti hanno ormai capito, nella scuola e fuori, che la fermezza nel far rispettare le regole della convivenza deve tornare un caposaldo dell’educazione tanto in classe che in famiglia, anche sulla scorta di ormai innumerevoli raccomandazioni di psicologi e psichiatri, oltre che dell’irrefutabile verdetto dell’esperienza. Si può in proposito rileggere utilmente nel nostro archivio Il tabù della condotta di Valerio Vagnoli.

venerdì 11 luglio 2008

LETTERE

Dalla "Gazzetta di Mantova" la lettera di un'insegnante sui voti segretati: MATURITÀ, VOTI SEGRETI: L'ULTIMO COLPO INFERTO ALLA SCUOLA .
Da "La Repubblica" una singolare richiesta di uno studente svogliato e pentito
: MINISTRO GELMINI, ABBASSI IL MIO VOTO DI MATURITÀ.
Sulla "Nazione", ancora di uno studente, un'altra tra le tantissime lettere contrarie alla segretazione dei voti:
SCELTA INUTILE.

giovedì 10 luglio 2008

VALUTAZIONE, PARITÀ SCOLASTICA, LIBRI DI TESTO: TROPPE DOMANDE SENZA RISPOSTA

Si riparla di valutazione delle scuole e nelle scuole in due articoli di Enrico Lenzi su "Avvenire": I VOTI ALLA SCUOLA e L'ESEMPIO DEL TRENTINO. Come sempre colpisce, specie nel primo pezzo, la genericità delle proposte e la scarsa chiarezza sugli scopi dei diversi tipi di valutazione (dei docenti, dei progressi dell'allievo, del singolo istituto, del sistema nel suo complesso), senza mai accennare a qualche difficoltà messa in risalto dall'esperienza. Quella del Trentino viene illustrata in una conversazione con il professor Allulli. Vengono spiegate le tappe di un percorso ventennale: valutazione del sistema, autovalutazione delle scuole, sperimentazione di una valutazione da parte di tre esperti esterni (ma per ora l'hanno chiesta dodici scuole). Si ha l'impressione, però, che tutto questo, se può aver giovato al sistema e agli istituti (di cui manca però il parere) e in attesa di convincersi dell'attendibilità dei metodi usati, in nulla conferma le disinvolte affermazioni che via via si leggono sulla stampa: così le famiglie sapranno dove mandare i figli, così finanzieremo di più le scuole migliori, eccetera,
Trova spazio su "Avvenire" anche il "problema" dei libri di testo (scritto polemicamente tra virgolette, dato che in realtà non si capisce perché non si possano spendere per la cultura qualche centinaio di euro - salvo che in accertati casi di reddito molto basso - quando almeno altrettanti molte famiglie li sperperano in fesserie alla moda, cellulari accessoriati e via dicendo). L'articolo si intitola GELMINI, TETTO DI SPESA PER I LIBRI ALLE SUPERIORI.
Viene dunque estesa alle scuole superiori la normativa sui “tetti di spesa” per i libri di testo che vige da alcuni anni nella media inferiore. In poche parole, ciascun consiglio di classe non può far spendere ai propri allievi una cifra superiore a quella stabilita dal Ministero, con una tolleranza del 10% in più. Vuol dire che ha funzionato, dirà qualcuno; ma quali sono i dati che lo dimostrano? Ci dovrebbero dire, per esempio, se l’incremento annuale della spesa delle famiglie per i libri è stato inferiore a quelli registrati negli anni precedenti all’Importante Riforma, singolarmente condivisa da mercatisti e statalisti (questi ultimi più comprensibilmente). Nessuna attenzione poi a come concretamente funziona la faccenda. Cosa succede se si verifica uno sforamento? Chi fra i vari docenti deve rinunciare al proprio manuale preferito? E poi: visto che non si può cambiare un testo dopo la classe iniziale, come ci si regola, per esempio, in seconda e in terza media? E se più o meno tutti i libri di una materia hanno lo stesso costo? E via dicendo. La verità è che si tratta di una misura populista, di un provvedimento-manifesto di scarsissima utilità pratica, che provoca solo altri adempimenti burocratici. Tanto è vero che si cerca di rimediare in altro modo: con i "manuali digitalizzati" (che oltretutto non pesano negli zainetti). Il provvedimento sembra partire dal presupposto che in classe i libri non servano a molto, cosa del tutto falsa: almeno nelle medie spesso si legge una parte del testo, si spiega, si insegna a sottolineare le parti essenziali, si svolgono esercizi direttamente sul testo. Pare però che, su richiesta dei docenti, i ragazzi dovranno stampare le pagine necessarie. La spesa fissa di 9,90 euro per il testo elettronico verrà quindi dilatata da carta e inchiostri (costosissimi). E si può immaginare l'infinita varietà di scuse con cui gli allievi scansafatiche potranno giustificarsi: la stampante non funziona, internet era bloccato, ieri sera è terminata la carta... E poi quei fogli che volano, cadono, si disperdono per ogni dove... Auguri.
Infine su "Economy" , il business magazine di Mondadori, un intervento di Gianpiero Cantoni (Forza Italia) sulla parità e la concorrenza fra le scuole: SCUOLA PUBBLICA, MA AD ARMI PARI. Vi si riafferma tra l'altro "la sacrosanta libertà delle famiglie di scegliere un'educazione a misura dei propri figli". Scuole "di tendenza", quindi: la cattolica, la mussulmana, la padana. In teoria un sistema pubblico, articolato in scuole statali e in scuole non statali, è concepibile, purché tutti rispettino le stessissime regole, comprese quelle relative al reclutamento dei docenti. Ma nel sistema costituzionale italiano la libertà di insegnamento è garantita (un po' come l'indipendenza dei giudici) proprio dalla necessaria neutralità ideologica del sistema stesso; il che in pratica significa che non ci deve essere discriminazione tra i docenti in base al loro credo religioso o politico. Quindi i finanziamenti alle scuole paritarie sono illegittimi fino a quando esse potranno discriminare un docente se divorziato o ebreo o ateo.
Su questo punto si può leggere una delle interviste disponibili su internet al professor Carlo Marzuoli, docente di diritto amministrativo nell'Università di Firenze, per esempio LIBERTÀ DI INSEGNAMENTO del 2003.
(G.R.)

martedì 8 luglio 2008

RIFLESSIONI AMERICANE

Dai giornali di oggi due articoli che dovrebbero far riflettere. Su che cosa? Il primo, MA IN USA SI VA IN CONTROTENDENZA: MEGLIO PIU' TEORIA CHE TANTE IMMAGINI ("ItaliaOggi"), sui rischi che si corrono trasformando in dogmi le ipotesi pedagogiche; il secondo, IL SUCCESSO AMERICANO DELLE "SCUOLE SU MISURA" ("Liberal") sui fattori che influiscono sulla qualità della scuola. Infatti, sia pure en passant, l'autrice cita tra le caratteristiche di una delle scuole "charter" da lei visitata, "un'accentuazione quasi esasperata sulla disciplina e la riuscita". Strana coincidenza: anche le scuole asiatiche che occupano i primissimi posti delle classifiche internazionali hanno questa caratteristica. Non sarà che, ancor più di autonomia e concorrenza, ricette didattiche e valutazione, Stato e privato, conti moltissimo se una scuola è seria ed esigente?

Un recupero, infine, di tutt'altro segno, dal numero di "Liberal" del 15 maggio scorso: l'intervista sul bullismo di Irene Trentin con Marzio Barbagli intitolata STUDENTI ITALIANI: LA PEGGIO GIOVENTU'. Finisce con questa strabiliante proposta, ancora di origine americana:

"Quale pensa sia la proposta educativa migliore?

Quella adottata nelle scuole degli Stati Uniti, dove più che punire un ragazzo per aver sbagliato, in un’età critica in cui si rischia di spingerlo sulla strada dell’emarginazione, si preferisce premiare chi si comporta bene o si impegna di più, anche se non arriva a risultati eccellenti. Faccio un esempio: se uno studente non studia e sbaglia il compito, anziché dargli tre o quattro, gli si dà la sufficienza, aumentando però i voti di tutti gli altri compagni. È un metodo che sta dando ottimi risultati: gratificando chi si comporta bene, si spingono anche gli altri compagni ad emularlo".

(GdF)

sabato 5 luglio 2008

GLI ESAMI NON COMINCIANO MAI di Valerio Vagnoli

La vera intolleranza è quella … della permissività concessa dall'alto, voluta dall'alto, che è la vera, la peggiore, la più subdola, la più fredda e spietata forma di intolleranza. Perché è intolleranza mascherata di tolleranza. Perché non è vera”. (P.P. Pasolini)
Dal normale parlare tra amici e colleghi sulle rispettive esperienze in questi esami di stato, emergono indicazioni abbastanza convergenti su cosa sia accaduto in alcune commissioni. Dai loro racconti si continua a toccare con mano la devastante decadenza in fatto di conoscenze e capacità di molti dei nostri studenti, che è progressivamente cresciuta dopo l’abolizione degli esami di riparazione e dopo l’abbandono di programmi di studio che avevano un carattere più vincolante e maggiormente condiviso a livello nazionale rispetto a quelli attuali, lasciati troppo spesso all’arbitrio dei docenti e delle loro, a volte, personalissime scelte.
Molti di questi colleghi e amici parlano di risultati veramente disastrosi per italiano e storia, soprattutto negli indirizzi tecnici e professionali. A tale proposito è bene chiarire che non è più accettabile la fin troppo scontata spiegazione che in questi indirizzi è difficile trovare studenti “versati” per le materie umanistiche, visto che da certi racconti sono venuto a sapere che diffusamente si è ignorato cosa fosse la Resistenza e che altrettanto diffusamente sono usciti dei neo-diplomati senza che questi avessero letto nella loro vita scolastica un verso di Dante o, per intero, un qualsiasi romanzo. Non voglio certamente generalizzare, ma gli amici e colleghi che mi hanno riferito di questi disastri sono persone molto serie e soprattutto in grado di capire cosa si può pretendere, per certe materie, in un indirizzo di studi rispetto ad un altro. Forse indagini ben più scientifiche delle mie potranno smentire questi risultati, ma il fatto stesso che si siano verificati, fossero anche limitati a poche classi di Firenze e provincia, dimostrano che il problema, grande o piccolo che sia, esiste.
Come esiste - in questo caso la fonte è del tutto personale e scaturisce dalle risposte dei numerosi studenti con i quali sono solito discutere - un altro sconcertante dato di fatto: il tempo che molti ragazzi dedicano allo studio personale raramente oltrepassa i sessanta minuti al giorno. Anche in questo caso indagini ben più serie delle mie potranno smentirmi, ma il problema esiste, almeno tra la maggior parte degli studenti delle scuole tecniche e professionali che io conosco ed è, ripeto, sconcertante che ci siano ragazzi di 16, 17 e 18 anni che solitamente studiano meno di un’ora al giorno. Perciò, senza che essi siano richiamati dalla necessità di dover fare i conti con uno studio mirato e sufficientemente serio, facciamo finta di ignorare come il resto dei loro pomeriggi sia quasi sempre “consumato” tra un bar e l’altro, tra una play station e lo spedire sms, tra l’assistere ad un litigio televisivo e l’attesa che comunque accada qualcosa a scuoterli dalla noia. Eppure, senza che siano necessarie tante riforme o patinature metodologiche, sarebbe sufficiente che i docenti, almeno quelli che vivacchiano e si accontentano del nulla dei loro allievi, che si accontentano delle interrogazioni programmate e rinviate dagli stessi studenti sine die, che non se la sentono di comminare voti inferiori alla sufficienza, o che cinicamente fingono di essere moderni e all’avanguardia chiacchierando sui problemi della vita come se questi non si spiegassero meglio facendo Dante o obbligandoli a leggere Una questione privata, (ri)cominciassero a lavorare e a far lavorare sul serio i loro studenti. Per dare un senso ai pomeriggi dei ragazzi, occorre dare un senso a quello che si fa loro fare a scuola, occorre chiedergli conto e far pagare anche con voti marcatamente negativi il disimpegno e il loro disinteresse, che nasce anche dal nostro disinteresse e dal nostro cinismo di adulti privi di qualsiasi speranza e inconsapevolmente (si spera) gratificati dal volerli irresponsabili, vuoti, spenti e asini.

giovedì 3 luglio 2008

QUALE RIFORMA PER L'ESAME DI MATURITÀ? di Sergio Casprini*

("L'Occidentale.it", 3 luglio 2008)
Tornati da appena un anno a un minimo di serietà, gli esami di Stato sono di nuovo sotto attacco in quanto anacronistici, farraginosi e onerosi per le pubbliche finanze. Tutto è iniziato con la denuncia allarmata degli svarioni ministeriali in alcune prove scritte; poi l’onorevole Aprea, che presiede la commissione Cultura a Montecitorio, ha dichiarato che vorrebbe ridurre l’esame a tre prove scritte, due formulate dai docenti delle scuole e una nazionale, che certifichi le cosiddette competenze essenziali. E ha aggiunto di essere personalmente per la soppressione del valore legale del titolo di studio.
Con ancora più forza in questa direzione si muove la proposta di Diesse, l’associazione dei docenti cattolici di Comunione e Liberazione, che chiede l’abolizione dell’esame in nome dell’autonomia delle singole scuole e della libertà dalla presenza occhiuta ed oppressiva dello Stato, e ribadisce appunto l’obbiettivo di abolire il valore legale del titolo di studio.
Tralasciamo in questa sede l’esame di quest’ultima proposta, che per la sua complessità merita una trattazione specifica. Basterà solo sottolineare che non è affatto chiaro come “una sana concorrenzialità”, come si legge nel documento, scaturisca automaticamente da questo eventuale provvedimento. È vero che eliminerebbe i diplomifici, ma quale interesse avrebbero oggi le scuole ad essere rigorose, quindi anche selettive? La concorrenza, più probabilmente, si attiverebbe per attirare i clienti con proposte tanto accattivanti quanto irrilevanti sul piano culturale.
Detto questo, sorprende che da parte di esponenti politici ed associazioni culturali che hanno in questi anni chiesto il ritorno a serietà e rigore nelle scuole si proponga di fatto una deregulation che affiderebbe all’autorefenzialità dei docenti di ogni istituto il compito di giudicare i propri studenti, con il contentino di una prova nazionale, di fatto secondaria rispetto alle prove fatte in casa. Eppure la reintroduzione di una componente esterna nelle commissioni esaminatrici (il presidente più la metà dei commissari) aveva avuto un largo consenso non più di un anno e mezzo fa e costituisce di per sé una forma di valutazione e di controllo sul lavoro delle singole scuole.
Sempre nell’ottica di un serio accertamento della preparazione degli studenti, non si capisce la ragione di ridurre l’esame alle prove scritte, con l’eliminazione di quella orale, quando invece le capacità dell’allievo emergono spesso in maniera più trasparente al momento del confronto con la commissione. E i futuri docenti fanno due anni di specializzazione post lauream per imparare a “dialogare” con lo studente e a valutarlo in base alla sua capacità di esprimersi, di ragionare, di far propria la materia.
Infine nella proposta di Diesse (che ha sempre sottolineato l’importanza dell’educazione accanto a quella dell’istruzione) si ironizza sulle notte bianche dei candidati prima dell’esame, insomma sull’esame come trauma che ritorna come sogno angoscioso negli anni successivi. Al contrario, una ragione importante per mantenere, con le necessarie correzioni, il modello attuale è il suo aspetto formativo, il suo essere rito di passaggio dall’adolescenza al mondo degli adulti e alle relative responsabilità, una funzione che il bel nome di “esame di maturità”, scioccamente abolito dalla smania nuovista, sottolineava efficacemente. E non possiamo certo delegare tale funzione all’esame per la patente.
Quanto all’esaltazione un po’ acritica dell’autonomia scolastica, e non solo da parte dei docenti di Diesse, basterebbe constatare, per indurre a un po’ di prudenza, quello che ha prodotto finora: quali dirigenti ha forgiato; quanto affidabile sia la valutazione dei “livelli di apprendimento”, spesso condizionata dal buonismo imperante nei decenni scorsi; quale profluvio di inutili e costosi progetti ne sia scaturito...
Infine l’esperienza ci ammonisce a non disfarsi alla leggera delle nostre specificità e tradizioni. Ogni volta che ci abbiamo rinunciato per abbracciare riforme scolastiche di tipo anglosassone, siamo andati, anziché incontro alla modernità, verso il più totale disorientamento. Per fare un solo esempio, il tentativo dissennato di imporre alla scuola italiana la didattica per obbiettivi (di origine americana) ha provocato fra gli insegnanti una disaffezione di massa verso il loro lavoro e quindi un danno incalcolabile per la qualità dell’istruzione.
Insomma, non ci sono ricette miracolistiche e, se la macchina si inceppa, non sembra una buona idea portarla a rottamare invece di ripararla. Il Ministro Gelmini ha promesso che non perseguirà, come in passato è stato fatto, “una palingenesi del sistema educativo”, aggiungendo che “abbiamo bisogno di buona amministrazione e buon governo, di semplificazione e di chiarezza”. Questa prudenza e questo realismo sono molto apprezzabili a fronte della sicumera con cui vengono avanzate in questo periodo le più svariate parole d’ordine, spesso brandite come la spada di Alessandro a tagliare il nodo di Gordio; e dovrebbero ispirare anche eventuali, costruttivi interventi di modifica dell’esame di Stato.
*Gruppo di Firenze
per la scuola del merito
e della responsabilità

VALENTINA APREA PROPONE UNA "RIVOLUZIONE" PER LA SCUOLA

Il consueto e meritorio "Speciale educazione", che "Liberal" pubblica ogni giovedì, si occupa del progetto di legge di Valentina Aprea, deputata del PdL e presidente della Commissione Cultura della Camera. Si apre infatti con un'intervista di Alfonso Piscitelli alla proponente, intitolata QUI SI FA LA RIVOLUZIONE. Subito dopo il primo di ben tre inviti a andarci piano con le megariforme: il primo si intitola significativamente IL BRACCIO VIOLENTO DELLA LEGGE di Beniamino Brocca, l'esperto Udc di cose scolastiche; il secondo, IMPROVVISAMENTE L'ESTATE IN CORSO di Giorgio Ragazzini del Gruppo di Firenze (anche questo è un titolo cinematografico, a suggerire forse che qualcosa di grosso accade a estate incipiente: l'originale - di Mankiewicz - era "l'estate scorsa"); il terzo insiste: ANDARE PIANO, ANDARE LONTANO di Giuseppe Lisciani, pedagogista e imprenditore specializzato in giochi educativi.
(GdF)