mercoledì 29 marzo 2017

LA SCUOLA ITALIANA E QUELLE STRANIERE, ALTRO CHE BARZELLETTE

Quando ero ragazzo, nei primi anni ’60, molte barzellette ruotavano intorno ai più stravaganti confronti tra un italiano, un inglese e un tedesco, che, quasi a voler esorcizzare il dramma della Guerra, era il più caricaturale.
Naturalmente anche a lui sarebbe toccata poi la sorte degli altri: quella di soccombere alla furbizia dell’italiano, che in virtù di questa sua «dote» sapeva riscattarsi rispetto al nostro atavico pressapochismo e trionfare così sull’efficientismo e la temerarietà degli altri.
Oggi, viste le distanze abissali che ci separano da altri Paesi su molti aspetti della vita sociale, culturale ed economica, non c’è spazio per le barzellette, anche perché è sempre più difficile sperare, come negli anni ‘60, in un nostro rapido riscatto. Tra queste differenze, colpisce, quando capita di recarsi in scuole di altre nazioni, la distanza abissale fra altri sistemi scolastici e il nostro. Visitare una scuola liberamente scelta da noi e non indicata dagli ospiti, in Paesi come la Francia, la Germania, l’Inghilterra o il Canada, fa saltare subito agli occhi quanto sia deprimente il confronto; e non solo sul piano delle strutture, delle risorse e del loro utilizzo. Nelle scuole di quei Paesi, infatti, gli studenti vivono solitamente l’esperienza scolastica con responsabilità ed educazione, come si deve a un’istituzione che prepara davvero il futuro della società. Il rispetto delle regole, in queste scuole da me visitate, non è messo assolutamente in discussione e se qualcuno le infrange ne paga le conseguenze; e tra queste, in Inghilterra, al terzo richiamo vi è automaticamente l’espulsione. È impensabile entrare in scuole in cui uno studente, anche durante la ricreazione, urli o fugga a nascondersi per fumare. Altrettanto impensabile che presso gli edifici scolastici o al loro interno operino spacciatori più o meno organizzati e più o meno «innocenti».
Peraltro, nella mia esperienza, in queste scuole il personale di sorveglianza è quasi inesistente: a Ingolstadt per 2.800 studenti dell’istituto professionale ci sono tre custodi e poco più di tre per i 5.000 studenti del professionale di Londonderry. Le portinerie non esistono perché uscire da scuola o entrarvi senza autorizzazione se esterni, avrebbe delle conseguenze che nessun Tar o giudice civile potrebbe irresponsabilmente cancellare. A dimostrazione che una solida cultura delle regole non porta meno, ma più libertà. Da noi, come sappiamo, le cose sono molto diverse e comminare una sospensione di oltre quindici giorni diventa un problema degno di un racconto tragicomico alla Carlo Emilio Gadda. Di conseguenza la scuola viene sempre meno presa sul serio, ma in compenso si prendono sul serio, molto sul serio, le scuole di calcio, i cui allenatori hanno diritto al titolo di Mister: proprio come i docenti in Inghilterra. Molti nostri docenti invece si accontentano dell’appellativo di «Profe» e tra una pacca e l’altra sulle spalle si prende sempre più consapevolezza che non ci salveremo più, neanche con le barzellette.
Valerio Vagnoli
(Corriere Fiorentino, 29 Mar 2017)

giovedì 9 marzo 2017

SE GLI STUDENTI NON SANNO SCRIVERE, IL MINISTERO ORIENTI E VERIFICHI

Intervista su "Orizzonte Scuola".
L’accorato appello degli accademici italiani contro la conoscenza precaria dell’italiano parlato e scritto da parte degli studenti universitari ha suscitato nei giorni scorsi una vastissima eco, superando in larga misura le aspettative dei suoi promotori. “Non sono mancate le prese di posizione ideologiche, ma il segnale è senz’altro positivo” ha concluso con noi Andrea Ragazzini, tra i fondatori del Gruppo di Firenze.
Prof. Ragazzini, l’iniziativa della lettera dei 600 professori universitari che deplorano le scarse competenze linguistiche degli studenti italiani è partita proprio da lei e dagli altri membri del Gruppo di Firenze. Vi aspettavate tanto clamore e tante polemiche?
“Non ci aspettavamo prima di tutto che la lettera suscitasse un così vasto e convinto consenso fra i docenti universitari. Comunicando la loro adesione, moltissimi hanno dichiarato il loro sollievo per il fatto che finalmente si affronta apertamente il problema, chiedendo di intervenire con provvedimenti adeguati. Hanno anche sottolineato che il rimedio non possono certo essere i corsi di recupero a livello universitario.
Al di là delle più ottimistiche aspettative è stata anche la risonanza mediatica dell’iniziativa, all’uscita dell’appello e anche nelle settimane successive. Di questo siamo ovviamente molto soddisfatti, dato che il nostro obiettivo era porre il problema all’attenzione dell’opinione pubblica, oltre che dei responsabili politici, a cui l’appello era rivolto.
Quanto alle polemiche, specie quelle di un certo tipo, direi che le davamo per scontate. Non mi riferisco a critiche argomentate nel merito dell’analisi e delle proposte contenute nell’appello, ma ad alcune prese di posizioni risentite e liquidatorie, che hanno attribuito ai firmatari il rimpianto della scuola del passato, discriminatoria e di classe, quasi sempre senza darsi la pena di
citare una sola frase della lettera che convalidasse l’accusa. Da parte nostra e dei firmatari non c’è alcuna nostalgia di questo tipo, ma la convinzione che una scuola più rigorosa è nell’interesse soprattutto dei ragazzi che partono più svantaggiati socialmente e culturalmente”.
Porto alla sua attenzione la critica che tra tutte condivido maggiormente, a firma della Prof.ssa Lo Duca: la capacità di scrivere non si acquisisce e non si perfeziona una volta per tutte nell’arco del primo ciclo, come il documento sembra sottintendere. Il triennio di scuola secondaria e l’università non dovrebbero riservare anch’essi occasioni strutturate per il suo consolidamento? Crede che almeno questa obiezione possa essere accolta?
“Ho risposto privatamente alla Professoressa Lo Duca, scrivendole prima di tutto del nostro apprezzamento per il tono pacato con cui aveva argomentato il suo peraltro “parziale” dissenso e nel merito che ero d’accordo sul fatto che si dovrebbe dare maggiore importanza allo studio e alla pratica della lingua anche nelle scuole superiori, accanto e tramite lo studio della letteratura, con l’obiettivo di far acquisire una più articolata capacità di espressione e un lessico più ricco. Detto questo rimango convinto che sia indispensabile, cito l’appello, “il raggiungimento, al termine del primo ciclo, di un sufficiente possesso degli strumenti linguistici di base da parte della grande maggioranza degli studenti”. Senza i quali anche l’acquisizione di più evolute competenze, nel corso delle superiori e poi
all’università, mi pare un obiettivo assai poco realistico”.
In molti atenei si sta, anzi, affermando una prassi opposta: ci sono corsi di laurea, persino a indirizzo linguistico-letterario, che non prevedono nemmeno più la tesi di laurea, come a dire: visto che gli studenti non sanno scrivere, copiano, non hanno idea di cosa sia una bibliografia ecc., risparmiamo questo stillicidio a loro e a noi. È un atteggiamento che possiamo comprendere?
“Posso ben capire le difficoltà di un docente universitario che ha commentato l’appello e che ha raccontato di avere bocciato per tre volte uno studente per il pessimo livello del suo italiano, ma quando si è presentato la quarta volta, senza che le sue competenze linguistiche mostrassero significativi miglioramenti, ha dovuto prendere atto che lo studente non era in grado di fare meglio, nonostante fosse evidente che si era molto impegnato, e lo ha promosso. Ma quello che lei riferisce, cioè delle università che di fatto rinunciano alla propria ragion d’essere, devo supporre per non perdere iscritti, non è evidentemente accettabile”.
Non le sembra che il vostro documento addossi alla scuola responsabilità che non appartengono esclusivamente a essa? Come la mettiamo con i consumi culturali delle famiglie? Se i ragazzi non vengono abituati dai genitori a frequentare librerie e biblioteche e se, anzi, vengono lasciati liberi, a ogni ora del giorno e della notte, di esporsi alle nuove ‘agenzie formative’, tanto più insidiose, invadenti e totalizzanti (pensiamo ai social network, su cui si interagisce esclusivamente attraverso la lettura e la scrittura), quale reale influenza potrà mai esercitare la scuola? È una lotta che sembra oggi più che mai davvero impari.
“I genitori hanno ovviamente una grande responsabilità nell’educazione dei loro figli, anche nel fargli capire l’importanza dell’istruzione e della cultura, così come sono evidenti le possibili implicazioni negative di un uso incontrollato dei social network. Tuttavia è innegabile che in materia di educazione linguistica è la scuola l’attore principale e la lettera è centrata sulle sue specifiche responsabilità. Registra una situazione di fatto e si rivolge al governo e al parlamento perché prendano dei provvedimenti. Colgo l’occasione della sua domanda per ribadire che la
lettera non è in alcun modo un atto di accusa verso gli insegnanti della scuola primaria e della media, come chiunque può verificare leggendola. È invece un richiamo alle responsabilità di orientamento, di sollecitazione e di controllo che competono al Ministero della Pubblica istruzione e che noi riteniamo molto carente”.
Vi hanno accusati anche di non avere letto o interpretato bene le Indicazioni Nazionali…
“È possibile che su questo punto la sintesi sia andata a scapito della chiarezza. È vero infatti che le Indicazioni per il primo ciclo relative all’Italiano non mancano di indicare traguardi, obiettivi e tipologie di esercitazioni. Io penso però che occorrerebbe un testo molto più essenziale, in luogo dei lunghissimi elenchi che attualmente lo caratterizzano. Per la primaria vengono indicati 10 traguardi finali e 37 obiettivi di apprendimento, per la secondaria di primo grado 13 traguardi finali e 41 obiettivi di apprendimento. Forse si dovrebbero proporre obiettivi più limitati, su cui focalizzare maggiormente la didattica. Ma è fondamentale che il Ministero eserciti una attività di indirizzo, di supporto e di controllo, attualmente quasi del tutto assente, in questo come in altri aspetti della vita scolastica, con l’eccezione delle questioni burocratiche, sui cui abbondano invece i richiami. Per quanto riguarda le indicazioni non mi risulta che ne venga adeguatamente favorita e sollecitata la conoscenza, tanto meno che siano state fatte da parte del Ministero delle indagini sulla loro funzionalità nell’orientare la didattica”.