L’accorato appello
degli accademici italiani contro la conoscenza precaria dell’italiano parlato e
scritto da parte degli studenti universitari ha suscitato nei giorni scorsi una
vastissima eco, superando in larga misura le aspettative dei suoi promotori. “Non
sono mancate le prese di posizione ideologiche, ma il segnale è senz’altro
positivo” ha concluso con noi Andrea Ragazzini, tra i fondatori del Gruppo di
Firenze.
Prof. Ragazzini, l’iniziativa
della lettera dei 600 professori universitari che deplorano le scarse
competenze linguistiche degli studenti italiani è partita proprio da lei e
dagli altri membri del Gruppo di Firenze. Vi aspettavate tanto clamore e tante polemiche?
“Non ci aspettavamo prima di tutto che la lettera
suscitasse un così vasto e convinto consenso fra i docenti universitari.
Comunicando la loro adesione, moltissimi hanno dichiarato il loro sollievo per
il fatto che finalmente si affronta apertamente il problema, chiedendo di
intervenire con provvedimenti adeguati. Hanno anche sottolineato che il rimedio
non possono certo essere i corsi di recupero a livello universitario.
Al di là delle più ottimistiche aspettative è stata
anche la risonanza mediatica dell’iniziativa, all’uscita dell’appello e anche
nelle settimane successive. Di questo siamo ovviamente molto soddisfatti, dato
che il nostro obiettivo era porre il problema all’attenzione dell’opinione
pubblica, oltre che dei responsabili politici, a cui l’appello era rivolto.
Quanto alle polemiche, specie quelle di un certo tipo,
direi che le davamo per scontate. Non mi riferisco a critiche argomentate nel
merito dell’analisi e delle proposte contenute nell’appello, ma ad alcune prese
di posizioni risentite e liquidatorie, che hanno attribuito ai firmatari il
rimpianto della scuola del passato, discriminatoria e di classe, quasi sempre
senza darsi la pena di
citare una sola frase della lettera che convalidasse l’accusa. Da parte nostra
e dei firmatari non c’è alcuna nostalgia di questo tipo, ma la convinzione che
una scuola più rigorosa è nell’interesse soprattutto dei ragazzi che partono
più svantaggiati socialmente e culturalmente”.
Porto alla sua attenzione la
critica che tra tutte condivido maggiormente, a firma della Prof.ssa Lo Duca:
la capacità di scrivere non si acquisisce e non si perfeziona una volta per
tutte nell’arco del primo ciclo, come il documento sembra sottintendere. Il
triennio di scuola secondaria e l’università non dovrebbero riservare anch’essi
occasioni strutturate per il suo consolidamento? Crede che almeno questa
obiezione possa essere accolta?
“Ho risposto privatamente alla Professoressa Lo Duca,
scrivendole prima di tutto del nostro apprezzamento per il tono pacato con cui
aveva argomentato il suo peraltro “parziale” dissenso e nel merito che ero
d’accordo sul fatto che si dovrebbe dare maggiore importanza allo studio e alla
pratica della lingua anche nelle scuole superiori, accanto e tramite lo studio
della letteratura, con l’obiettivo di far acquisire una più articolata capacità
di espressione e un lessico più ricco. Detto questo rimango convinto che sia
indispensabile, cito l’appello, “il raggiungimento, al termine del primo
ciclo, di un sufficiente possesso degli strumenti linguistici di base da parte
della grande maggioranza degli studenti”. Senza i quali anche
l’acquisizione di più evolute competenze, nel corso delle superiori e poi
all’università, mi pare un obiettivo assai poco realistico”.
In molti atenei si sta, anzi, affermando
una prassi opposta: ci sono corsi di laurea, persino a indirizzo
linguistico-letterario, che non prevedono nemmeno più la tesi di laurea, come a
dire: visto che gli studenti non sanno scrivere, copiano, non hanno idea di
cosa sia una bibliografia ecc., risparmiamo questo stillicidio a loro e a noi.
È un atteggiamento che possiamo comprendere?
“Posso ben capire le difficoltà di un docente
universitario che ha commentato l’appello e che ha raccontato di avere bocciato
per tre volte uno studente per il pessimo livello del suo italiano, ma quando
si è presentato la quarta volta, senza che le sue competenze linguistiche
mostrassero significativi miglioramenti, ha dovuto prendere atto che lo
studente non era in grado di fare meglio, nonostante fosse evidente che si era
molto impegnato, e lo ha promosso. Ma quello che lei riferisce, cioè delle
università che di fatto rinunciano alla propria ragion d’essere, devo
supporre per non perdere iscritti, non è evidentemente accettabile”.
Non le sembra che il vostro
documento addossi alla scuola responsabilità che non appartengono
esclusivamente a essa? Come la mettiamo con i consumi culturali delle famiglie?
Se i ragazzi non vengono abituati dai genitori a frequentare librerie e
biblioteche e se, anzi, vengono lasciati liberi, a ogni ora del giorno e della
notte, di esporsi alle nuove ‘agenzie formative’, tanto più insidiose,
invadenti e totalizzanti (pensiamo ai social network, su cui si interagisce
esclusivamente attraverso la lettura e la scrittura), quale reale influenza
potrà mai esercitare la scuola? È una lotta che sembra oggi più che mai davvero
impari.
“I
genitori hanno ovviamente una grande responsabilità nell’educazione dei loro
figli, anche nel fargli capire l’importanza dell’istruzione e della cultura, così
come sono evidenti le possibili implicazioni negative di un uso incontrollato
dei social network. Tuttavia è innegabile che in materia di educazione
linguistica è la scuola l’attore principale e la lettera è centrata sulle sue
specifiche responsabilità. Registra una situazione di fatto e si rivolge al
governo e al parlamento perché prendano dei provvedimenti. Colgo l’occasione
della sua domanda per ribadire che la
lettera non è in alcun modo un atto di accusa verso gli insegnanti della scuola
primaria e della media, come chiunque può verificare leggendola. È invece un
richiamo alle responsabilità di orientamento, di sollecitazione e di controllo
che competono al Ministero della Pubblica istruzione e che noi riteniamo molto
carente”.
Vi hanno accusati anche di non avere letto o
interpretato bene le Indicazioni Nazionali…
“È
possibile che su questo punto la sintesi sia andata a scapito della chiarezza.
È vero infatti che le Indicazioni per il primo ciclo relative all’Italiano non
mancano di indicare traguardi, obiettivi e tipologie di esercitazioni. Io penso
però che occorrerebbe un testo molto più essenziale, in luogo dei
lunghissimi elenchi che attualmente lo caratterizzano. Per la primaria vengono
indicati 10 traguardi finali e 37 obiettivi di apprendimento, per la secondaria
di primo grado 13 traguardi finali e 41 obiettivi di apprendimento. Forse si
dovrebbero proporre obiettivi più limitati, su cui focalizzare maggiormente la
didattica. Ma è fondamentale che il Ministero eserciti una attività di indirizzo,
di supporto e di controllo, attualmente quasi del tutto assente, in questo come
in altri aspetti della vita scolastica, con l’eccezione delle questioni
burocratiche, sui cui abbondano invece i richiami. Per quanto riguarda le
indicazioni non mi risulta che ne venga adeguatamente favorita e
sollecitata la conoscenza, tanto meno che siano state fatte da parte del
Ministero delle indagini sulla loro funzionalità nell’orientare la didattica”.