mercoledì 28 novembre 2018

«NIENTE ADDETTI? TUTTA COLPA DI DUE RIFORME»

Parla Valerio Vagnoli, storico dirigente del Saffi: nei professionali troppe materie e poca formazione.

di Marzio Fatucchi, “Corriere Fiorentino”, 28 novembre 2018
«Bernabò Bocca [Presidente di Federalberghi] ha perfettamente ragione». Valerio Vagnoli, storico dirigente del Saffi, è un fiume in piena. Con lui proviamo a capire perché le aziende del turismo hanno questa grande difficoltà nel trovare personale qualificato.
Vagnoli, cosa è successo? «Tutta colpa di due riforme, la prima nel 2010, la seconda più recente — ma fatta sempre dagli identici esperti, dirigenti e funzionari del ministero che hanno realizzato la prima. Queste due riforme hanno snaturato i nostri istituti professionali che, fino ad allora, funzionavano molto bene».
Ci può fare un esempio? «Fin dal primo anno, i ragazzi devono affrontare 16 materie diverse, e quelle professionalizzanti sono minoritarie rispetto a quelle standard. Un ragazzo si perde, con 16 materie. C’era un modello che andava benissimo negli anni ‘80. In altre parti d’Europa, l’indirizzo professionale è diventato simile a quello di un tempo in Italia. Ancora oggi, e solo lì, il Trentino Alto Adige fa solo formazione, non istruzione. E gli istituti professionali in quella regione, che guarda al modello austriaco e tedesco, preparano a livelli altissimi».
Bocca parla proprio della scuola di formazione alberghiera di Vienna, come modello da «importare» in Italia...
«E fa bene, perché lì si fa davvero formazione professionale. Da noi, si parte con italiano, storia, geografia, educazione fisica, matematica, diritto, scienze della terra, naturali, nel biennio. Poi, certo, ci sono le materie come l’accoglienza turistica, la gestione della sala, il ricevimento e l’ospitalità. Ma sono piccoli bocconi rispetto alle altre. Così come le due lingue straniere, che hanno solo due ore la settimane, e tali restano anche dopo per alcuni percorsi. Temo che con quella riforma che si sia provato davvero ad evitare disoccupazione professionale: ma quella dei docenti, non dei ragazzi e ragazze presenti nelle nostre scuole».
L’altro fronte toccato da Bocca è quello delle nuove professioni digitali. Però quelle competenze sono di tipo elevato: come formarle?
«Sono competenze che si acquisiscono solo a livello universitario o con corsi di alta formazione professionale, corsi post diploma. Ma anche qua c’è un problemi: questi corsi li seguono solo 9 mila studenti in tutta Italia. Troppo pochi, rispetto alle esigenze attuali».
Le imprese vi hanno parlato di questa difficoltà nel trovare personale qualificato?
«Veramente è l’opposto: siamo stati noi del Gruppo di Firenze a dirlo alle imprese, che per anni non ci hanno ascoltato. Finalmente sta cambiando qualcosa. Ho cominciato 12 anni fa a dirigere un professionale. Organizzammo subito un convegno, dopo 6 mesi. Da allora, ci siamo trovati davanti solo un muro di gomma: l’episodio più eclatante fu un assessore provinciale alla Pubblica istruzione che abbandonò il tavolo durante il convegno, perché era imbarazzato che si sostenesse di dover professionalizzare gli studenti dei professionali. Invece gli studenti sono stati liceizzati. Quello che viene denunciato da Bocca è vero, tanto che sono sempre di più i corsi post diploma svolti da agenzie private, dall’altissimo costo. Così però si penalizzano i “privi di mezzi”, come dice la Costituzione, che restano privi di formazione e poi del lavoro».
E ora, ci sono segnali di cambiamento?
«Sì ma in peggio, con l’ultima misura del ministro attuale: è stata quasi dimezzata l’alternanza scuola-lavoro nei professionali e tecnici, passata da 400 ore a 280. Un colpo di grazia».

giovedì 22 novembre 2018

IL VIZIETTO DI DISTRUGGERE


Secondo una consolidata tradizione, anche l’inizio di quest’anno scolastico è travagliato dalla faticosa ricerca di supplenti per le cattedre vacanti. Un problema che tutti i ministri hanno promesso di risolvere senza riuscirci. Certo è molto più facile governare distruggendo l’opera dei predecessori che non agire sull’esistente cercando di migliorarlo. Se poi un sistema del genere lo si applica alla scuola, le conseguenze possono essere disastrose, perché nulla per la formazione dei giovani è più deleterio della giostra dei docenti a cui spesso sono sottoposti. In questo modo d’intendere il proprio ruolo il nuovo ministro della Pubblica istruzione sembra muoversi benissimo, visto che ha provveduto a eliminare alcuni punti chiave della cosiddetta Buona scuola, probabilmente per trovare consensi in chi, docenti, sindacati e studenti, si era fortemente schierato contro la riforma. Una riforma, quella della legge 107 che, insieme ad aspetti assai discutibili, conteneva però alcune positive novità. Invece il ministro Bussetti ha immediatamente deciso di ridurre in modo drastico le ore dell’alternanza scuola-lavoro, sminuita anche nel nome: «Percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento».
Ha inoltre rivisto in gran parte l’esame di Stato e cancellato, a favore del tradizionale concorso a cattedre, il sistema di formazione e reclutamento dei docenti che prevedeva una selezione molto più accurata, con un periodo di prova di durata triennale. E infine ha provveduto a ridimensionare il «potere» dei presidi che non potranno più nominare alcun docente, con conseguente eliminazione dell’organico funzionale, cioè degli insegnanti a disposizione per le esigenze specifiche di ogni scuola. Era un punto innovativo della riforma, rivendicato fin dagli anni settanta del secolo scorso dalle allora avanguardie pedagogiche e sindacali. È questo il principale motivo per cui ancora oggi, dopo la positiva esperienza dello scorso anno, molte classi risultano scoperte, cioè prive di qualche docente. Le nomine sono infatti sottoposte a iter burocratici non del tutto comprensibili anche da chi ha la malasorte di doverli gestire. Si pensi soltanto che alcune supplenze sono di competenza degli uffici scolastici provinciali e altre delle scuole.
Quando a fare le nomine sono quest’ultime, può accadere di dover convocare, per una supplenza anche di pochissimi giorni, centinaia e centinaia di aspiranti, con la conseguenza che le segreterie in questi primi mesi dell’anno sono concentrate quasi esclusivamente su questo ginepraio, aggravato dalla prospettiva di molteplici ricorsi. Per questo Antonello Giannelli, presidente dell’Associazione nazionale dei presidi, propone che a nominare almeno i supplenti siano direttamente i presidi stessi, in modo che tutti i ragazzi possano avere fin dal primo giorno di scuola i loro insegnanti. La nomina avverrebbe tenendo conto del loro curriculum e magari di un colloquio con il dirigente. Scomparirebbe così il principio della sola anzianità di servizio e insieme a quello la desolazione di dover vedere classi intere costrette a iniziare il loro anno scolastico con due-tre mesi di ritardo rispetto alla norma. Senza contare infine quanta poca fiducia nello Stato si possa trasmettere ai ragazzi quando si rendono conto che questo si presenta loro quasi con rassegnazione.
Valerio Vagnoli
“Corriere Fiorentino”, 22 novembre 2018

domenica 18 novembre 2018

PER L’AGGIORNAMENTO RICOMINCIAMO DAGLI ESPERTI: GLI INSEGNANTI

Rielaborazione scritta dell’intervento svolto al Convegno “Quali competenze per la scuola oltre il digitale?”, organizzato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze, che si è tenuto nella giornata di venerdì 16 novembre (v. programma).
Comincio con una riflessione di George Bernard Shaw: “Se io e te abbiamo una mela ciascuno e ce le scambiamo, abbiamo sempre una mela ciascuno; ma se ognuno di noi ha un’idea e ce le scambiamo, allora abbiamo due idee ciascuno”. Mettiamola insieme al titolo del mio intervento e abbiamo una buona sintesi della tesi che voglio sostenere.
Infatti una caratteristica poco sottolineata della scuola italiana è l’estrema scarsità delle occasioni di confronto e di scambio di idee tra insegnanti, soprattutto nel livello secondario, di primo e di secondo grado. Questo ha impedito di mettere in circolazione esperienze, metodi, risultati che quasi sempre rimangono confinati nella testa dei singoli docenti. Negli scorsi decenni la forma quasi esclusiva di aggiornamento è stata di tipo verticale, basata cioè su una relazione tra chi sa (l’esperto) e chi non sa. Ovviamente è una delle modalità necessarie, se porta davvero il contributo di conoscenza che può venire da persone di grande preparazione nel loro settore. Quando però diventa l’unica modalità e a questo si aggiunge: che l’argomento viene imposto dal ministero e non interessa alla gran parte di quelli che ascoltano; che si fa capire più o meno apertamente che bisognerebbe fare tabula rasa del modo di lavorare fin qui adottato; che infine si capisce che il relatore non ha la minima idea di quello che succede nella realtà delle classi e procede per belle astrazioni, quale può essere l’utilità per chi insegna, quale il suo grado di frustrazione?
È invece proprio tipico delle professioni l’utilizzo frequente del metodo seminariale per accrescere la propria preparazione, affrontare problemi, confrontarsi. Avvocati, medici, ingegneri, economisti organizzano seminari sui più vari argomenti. “Seminario” è un termine che ha varie accezioni, che ruotano tutte ruotano intorno all’idea di semina, di vivaio... Ma il significato che qui ci interessa è lo scambio di idee tra pari, una relazione quindi orizzontale, tra esperti. E l’esperto è appunto chi ha “esperienza” di qualcosa.
Sappiamo bene che l’esperienza concreta, quotidiana, di un insegnante è fatta di decine e decine di particolari, su ciascuno dei quali si può lavorare insieme per raffinarli, perfezionarli. Ci si può confrontare su temi e problemi trasversali alle discipline, come il piano relazionale con gli allievi, il loro comportamento, il rapporto con i genitori (per esempio come condurre il colloquio scuola-famiglia); oppure sui contenuti e i metodi propri di una materia. Si può prendere l’avvio da una lettura fatta da tutti i partecipanti, dalla relazione di un collega che ha studiato un argomento, dalla correzione in comune del compito in classe di un allievo.
Il principale vantaggio del metodo seminariale è quello di sentirsi finalmente professionisti in grado di arricchirsi a vicenda, anche interrogandosi l’un l’altro, condividendo risultati e difficoltà. L’ho sperimentato di persona, insieme a numerosi colleghi, organizzando un certo numero di incontri di questo genere. Possono essere coinvolti anche insegnanti di altre scuole o di diversi gradi di istruzione. Ed è infine proprio da un confronto fra colleghi che può scaturire l’esigenza di incontrare uno specialista di un argomento da approfondire.
Ho accennato all’inizio al fatto che la mancata condivisione e collaborazione, a quanto mi consta, è più una caratteristica delle superiori e anche delle medie. So che nella scuola dell’infanzia e nella primaria in genere si progetta e si programma abbastanza regolarmente. Una cosa però è riunirsi in vista (e a volte per l’urgenza) di un accordo sul lavoro da fare, un’altra avere la possibilità di uno scambio di idee “disinteressato”, o meglio non immediatamente finalizzato al lavoro in classe.
Nel documento iniziale della “Buona scuola”, quello di 136 pagine del settembre 2014, a proposito dell’aggiornamento avevamo apprezzato come Gruppo di Firenze alcuni segni di resipiscenza, anzi a tratti di una critica o autocritica piuttosto severa del modo in cui era stato in genere dispensato l’aggiornamento. Si parlava di occasioni formative “troppo spesso frontali, poco efficaci e in genere non partecipate”, dove è mancato quasi sempre “un confronto interattivo”. Si sarebbe dovuta favorire la definizione a livello di ciascuna scuola dei programmi formativi, senza più calarli dall’alto. Vanno superati, si aggiungeva, gli “approcci formativi a base teorica” e valorizzata la “forma esperienziale tra colleghi”. Asserzioni non molto lontane da quanto ho appena detto.
Nel “Piano per la formazione dei docenti” presentato nel 2016 dalla ministra Giannini, di “sole” 88 pagine, che eufemisticamente si possono definire “non tutte essenziali”, si dice che i programmi di aggiornamento a livello di istituto dovranno basarsi sulle esigenze formative espresse dai singoli; ma, se non mi è sfuggito qualcosa (perché non essendo una lettura avvincente confesso che alcune parti le ho scorse) non ci sono altre aperture verso quello che, con un’espressione in voga qualche anno fa, si potrebbe definire il “giacimento culturale”, in gran parte, come abbiamo detto, non sfruttato.
Insomma, non può esistere una didattica di Stato, o, con terminologia più moderata, una metodologia imposta dall’alto; e alle ragioni di principio si aggiunge una solida motivazione di tipo psicologico, perché il modo in cui si insegna ha a che fare anche con la personalità del docente, con i suoi talenti e i suoi limiti, compreso il suo stile relazionale. In parole povere, è normale che sia più bravo o brava con un approccio piuttosto che con un altro, che gli riesca meglio e faccia fare con più piacere il lavoro di gruppo, l’apprendimento cooperativo o magari la recente “classe capovolta”. Di fronte a nuove proposte didattiche deve essere libero di accettarle, respingerle, adattarle alle situazioni, modificarle secondo un unico criterio: quello di sentirsene potenziato.
È invece diffusa fra i dirigenti ministeriali e di riflesso tra i ministri (che in genere di scuola sanno poco o nulla) una tendenza dirigista a fare in modo che si adottino le linee metodologiche che si ritengono corrette: ora la didattica per obbiettivi, poi il portfolio delle competenze, eccetera. L’idea di fondo, che io chiamo “illusione procedurale”, è che questo si possa ottenere facendo riempire schede, tabelle, relazioni, progetti, eccetera; o che cambi qualcosa in meglio sostituendo i voti con dei giudizi.
L’anno scorso, quando fu resa pubblica la bozza del decreto sulla valutazione, quello che voleva reintrodurre le lettere nella valutazione oltre a escludere totalmente la possibilità di far ripetere l’anno alle elementari, fummo cortesemente invitati a un incontro in Senato. L’esponente della maggioranza che aveva un ruolo in questa materia ci disse papale papale che il decreto serviva “a costringere gli insegnanti a modificare la didattica”. E noi ovviamente rispondemmo: “Guardi che non funziona; dover fare cose di cui non si è convinti non fa che demotivare invece che aiutare un insegnante”.
Allora, invece di pensare che si debba buttare via tutto per adeguarsi al nuovo che avanza, la giusta strada è quella di fare in modo di avere più frecce al proprio arco, più risorse per essere più efficaci. In altre parole è bene che ogni docente conosca e nei limiti del possibile sperimenti vari approcci didattici, magari tramite forme di aggiornamento esperienziale, e all’interno di questa varietà adotti quelle più utili a seconda delle situazioni e delle proprie attitudini, ma anche per evitare una possibile monotonia nell’insegnamento. Per questo motivo io più che di innovazione della didattica, che implica qualcosa di vecchio da abbandonare, preferirei parlare di arricchimento della didattica.
Purtroppo nel mondo della scuola è facile sentir fare la caricatura di un metodo per sostenere l’adozione di altri. Di recente c’è stato a Rimini un grande convegno organizzato dalla casa editrice Erikson. In uno dei moltissimi incontri una docente ha esclamato sarcasticamente: “Come godiamo noi insegnanti quando sentiamo ripetere parola per parola quello che abbiamo detto!” E fra i materiali che si trovavano nel sito del convegno, c’era anche la presentazione del metodo della “classe rovesciata”, che prevede una lezione registrata da ascoltare a casa e il giorno dopo un approfondimento in classe sull’argomento. Per far capire di che si tratta, si istituiva il confronto tra questo metodo e la lezione frontale, presentata con un’animazione come una situazione in cui, mentre il docente parla alla lavagna, c’è un allievo che scarabocchia, un altro che si distrare, eccetera. Del resto la lezione cosiddetta frontale è diventata negli ultimi anni il bersaglio polemico preferito di molti “innovatori”, soprattutto in quanto responsabile di un’impostazione “trasmissiva” dell’insegnamento. Nessuno però dice mai che una lezione di quel tipo può essere – come tutti sanno benissimo – noiosa o affascinante, ben impostata o confusa, utile o inutile; e che anche sulla lezione frontale ci si può aggiornare per essere più coinvolgenti. Per esempio, la capacità di parlare in pubblico (e la classe è indubbiamente anche un pubblico) è ormai considerata una risorsa indispensabile in numerose professioni e comprende anche una buona dizione, utilissima per chi deve leggere testi ai suoi allievi. In conclusione, non esiste metodo che possa funzionare in mano a un docente svogliato o impreparato: il “fattore umano” resta fondamentale.
Per fortuna il diritto di scegliere il metodo più adatto è garantito dalle leggi e in primo luogo dalla Costituzione: “L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento”. Sulla scia dell’articolo 33, il testo unico delle leggi sull’istruzione, del 1994, stabilisce che ai docenti è garantita la libertà di insegnamento intesa come autonomia didattica e come libera espressione culturale del docente.
Per la legge 15 marzo 1997,“L'autonomia didattica [delle scuole] si sostanzia nella scelta libera e programmata di metodologie, strumenti, organizzazione e tempi di insegnamento, da adottare nel rispetto della possibile pluralità di opzioni metodologiche”.
Infine il Dpr 275/1999, noto anche come Regolamento dell’Autonomia, afferma: “Il Piano dell'offerta formativa [...] comprende e riconosce le diverse opzioni metodologiche, anche di gruppi minoritari, e valorizza le corrispondenti professionalità”.
Avviandoci alla conclusione, chiediamoci come mai è così diffusa nella scuola l’insofferenza per le riunioni. La risposta è molto semplice: quasi nessuno pensa che anche una riunione abbia bisogno di alcune regole per funzionare. Di qui confusione, inconcludenza, fatica, perdite di tempo. L’organizzazione e la conduzione di un seminario, così come di qualsiasi tipo di riunione, sono i due aspetti da curare per la sua riuscita. Fa parte del primo aspetto una preparazione accurata: orari, tempi, spazi, materiali necessari, numero dei partecipanti sono tutti punti da decidere prima, pur concedendo qualche spazio alla necessaria flessibilità. Altrettanto importante è il modo in cui si guida una riunione, una responsabilità che secondo la mia esperienza non molti gradiscono assumere per timidezza o per timore di non essere adeguati, ma forse anche perché in Italia un po’ in tutti i campi il far rispettare le norme e le procedure viene associato facilmente all’autoritarismo e quindi all’impopolarità. Invece è un servizio importante ai colleghi. Con un po’ di garbata fermezza non solo si garantisce la produttività della riunione, ma anche la sua piacevolezza. C’è sicuramente una notevole soddisfazione, anche estetica, nella partecipazione a una riunione ben regolata, con i suoi ritmi, con l’attenzione che si riserva a tutti, con il rispetto dei tempi e la capacità di ascoltare in modo attivo. S’intende che i partecipanti devono essere motivati e deve essere diffusa una cultura della responsabilità da parte di tutti: conduttori e partecipanti. Molto si impara con l’esperienza e/o con un aggiornamento esperienziale mirato. Esistono diverse pubblicazioni sull’argomento e anche in rete si trovano parecchie indicazioni.
Mi auguro, concludendo, che molti colleghi rivalutino l’importanza di essere protagonisti del proprio aggiornamento professionale e rivendichino questa esigenza all’interno del proprio istituto.
Giorgio Ragazzini
gruppodifirenze@libero.it

Qui sotto una mappa concettuale che è stata disegnata nel corso di questo come degli altri interventi.


domenica 11 novembre 2018

BAMBINI NEGLI ORGANI COLLEGIALI, UN’IDEA GIÀ BOCCIATA DA HANNAH ARENDT


L’ormai noto ddl presentato al Senato nel settembre scorso da 51 senatori leghisti oltre a proporre l’introduzione dell’insegnamento curricolare di educazione civica e la reintroduzione del voto di condotta (due novità senz’altro positive), estende la partecipazione agli organi collegiali anche agli alunni della scuola media e della quinta primaria, superando la vecchia normativa dei decreti delegati che prevede la presenza nei consigli d’istituto e di classe solo degli allievi delle scuole superiori. Non basta: l’elettorato attivo sarà allargato a tutti gli altri alunni della primaria: fin dalla prima, avete capito bene.
L’intento, chiarisce la relazione introduttiva, sarebbe quello “di creare una partecipazione più ampia possibile degli studenti, fin dai primi anni, alla vita della scuola, intesa come educazione alla democrazia, per comprendere come migliorare la scuola stessa in tutti i suoi aspetti attraverso l’azione dei propri rappresentanti”. Di questo delirio democraticistico si possono già prevedere alcuni risultati. Infatti i bambini appena entrati alle elementari voteranno per compagni appena più grandicelli probabilmente perché carini e simpatici, oppure perché propongono 10 minuti in più d’intervallo la mattina. Di più è difficile aspettarsi.
La questione seria e grave da un punto di vista culturale e pedagogico è quella di pensare che nell’età della loro formazione i giovani, e tanto più i bambini delle elementari e i ragazzi delle medie, possano essere, come gli adulti, dei soggetti politici in grado di partecipare in maniera consapevole alla gestione della loro scuola, quando già gli studenti delle superiori, in teoria più maturi, non sanno quasi mai agire in modo costruttivo nella vita scolastica e anzi si comportano spesso in maniera goliardica e talora illegale, come nelle occupazioni. La democrazia non è un gioco da consegnare ai giovani di qualsiasi età, scimmiottando le pratiche politiche degli adulti, perché presuppone un apprendistato culturale che si costruisce durante tutto il corso degli studi (e anche oltre). “Poiché il bambino non conosce ancora il mondo — ha scritto Hannah Arendt — deve esservi introdotto un poco alla volta; e poiché è una cosa nuova, occorre far sì che egli giunga a maturità rispetto al mondo qual è”.
Sergio Casprini
"ilSussidiario.net", 11 novembre 2018

martedì 6 novembre 2018

NON DELUDERE I GIOVANI (BRAVI) – Il lavoro e il ruolo delle imprese


In Italia ci sono decine di migliaia di posti di lavoro vacanti perché nessuno li vuole; e ammettiamo pure che non pochi siano i giovani “sdraiati”, secondo la definizione di Michele Serra, o un po’ “choosy”, cioè schizzinosi, come disse Elsa Fornero. Certamente non c’è da essere teneri con chi evita di fare i conti con la realtà della vita, rimandando al futuro l'incontro col mondo del lavoro, però occorre anche ricordare che molti ragazzi, soprattutto nel settore della ristorazione e in generale del turismo, trovano lavoro ancora prima di diplomarsi. E che il volto con cui si presenta il “mondo del lavoro” è spesso molto deludente, da quello che mi raccontano alcuni ex allievi dell’istituto alberghiero; ed è il volto dello sfruttamento più spregiudicato. Ci sono neo-assunti sottoposti a settimane di prova senza assicurazione, al termine delle quali non solo non vengono riassunti, ma in alcuni casi neanche retribuiti, perché i padroni (la parola imprenditore in questi casi non è appropriata) hanno a disposizione liste ben fornite di nomi di giovani disposti a mettersi alla prova e a sostituire chi viene cacciato spessissimo con scuse varie.
C’è chi assicura i “sottoposti” per 3-4  ore al giorno, mentre le sue giornate lavorative sono fatte, come per gli altri, di dodici-tredici ore. Un ragazzo addirittura mi ha riferito di essere coperto solo per cinque ore la settimana. Sono purtroppo situazioni da “prendere o lasciare”, in cui quest'ultima opzione molti giovani non se la possono proprio permettere, anche perché temono, in molti casi non a torto, che far valere i propri diritti precluda la possibilità di trovare lavoro altrove. Ci sono anche situazioni in cui il lavoro completamente al nero è concordato con il dipendente, soprattutto nel caso in cui a quest'ultimo possa così continuare a essere garantita, almeno fintanto che la legge glielo permetterà, l'indennità di disoccupazione.
Di fronte a situazioni probabilmente abbastanza diffuse come queste, occorrerebbe che le autorità preposte ai controlli prendessero adeguate contromisure e che i sindacati facessero di più. Ma sarebbe altrettanto importante che gli stessi rappresentanti delle imprese prendessero una posizione netta contro questo malaffare, salvando il senso stesso di civiltà che cerchiamo di insegnare ai nostri ragazzi nelle scuole. Torni pure l’educazione civica nelle scuole, purché anche il mondo del lavoro e la società in genere si facciano carico di non tradirla.
Valerio Vagnoli
"Corriere Fiorentino", 6 novembre 2018