domenica 18 novembre 2018

PER L’AGGIORNAMENTO RICOMINCIAMO DAGLI ESPERTI: GLI INSEGNANTI

Rielaborazione scritta dell’intervento svolto al Convegno “Quali competenze per la scuola oltre il digitale?”, organizzato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze, che si è tenuto nella giornata di venerdì 16 novembre (v. programma).
Comincio con una riflessione di George Bernard Shaw: “Se io e te abbiamo una mela ciascuno e ce le scambiamo, abbiamo sempre una mela ciascuno; ma se ognuno di noi ha un’idea e ce le scambiamo, allora abbiamo due idee ciascuno”. Mettiamola insieme al titolo del mio intervento e abbiamo una buona sintesi della tesi che voglio sostenere.
Infatti una caratteristica poco sottolineata della scuola italiana è l’estrema scarsità delle occasioni di confronto e di scambio di idee tra insegnanti, soprattutto nel livello secondario, di primo e di secondo grado. Questo ha impedito di mettere in circolazione esperienze, metodi, risultati che quasi sempre rimangono confinati nella testa dei singoli docenti. Negli scorsi decenni la forma quasi esclusiva di aggiornamento è stata di tipo verticale, basata cioè su una relazione tra chi sa (l’esperto) e chi non sa. Ovviamente è una delle modalità necessarie, se porta davvero il contributo di conoscenza che può venire da persone di grande preparazione nel loro settore. Quando però diventa l’unica modalità e a questo si aggiunge: che l’argomento viene imposto dal ministero e non interessa alla gran parte di quelli che ascoltano; che si fa capire più o meno apertamente che bisognerebbe fare tabula rasa del modo di lavorare fin qui adottato; che infine si capisce che il relatore non ha la minima idea di quello che succede nella realtà delle classi e procede per belle astrazioni, quale può essere l’utilità per chi insegna, quale il suo grado di frustrazione?
È invece proprio tipico delle professioni l’utilizzo frequente del metodo seminariale per accrescere la propria preparazione, affrontare problemi, confrontarsi. Avvocati, medici, ingegneri, economisti organizzano seminari sui più vari argomenti. “Seminario” è un termine che ha varie accezioni, che ruotano tutte ruotano intorno all’idea di semina, di vivaio... Ma il significato che qui ci interessa è lo scambio di idee tra pari, una relazione quindi orizzontale, tra esperti. E l’esperto è appunto chi ha “esperienza” di qualcosa.
Sappiamo bene che l’esperienza concreta, quotidiana, di un insegnante è fatta di decine e decine di particolari, su ciascuno dei quali si può lavorare insieme per raffinarli, perfezionarli. Ci si può confrontare su temi e problemi trasversali alle discipline, come il piano relazionale con gli allievi, il loro comportamento, il rapporto con i genitori (per esempio come condurre il colloquio scuola-famiglia); oppure sui contenuti e i metodi propri di una materia. Si può prendere l’avvio da una lettura fatta da tutti i partecipanti, dalla relazione di un collega che ha studiato un argomento, dalla correzione in comune del compito in classe di un allievo.
Il principale vantaggio del metodo seminariale è quello di sentirsi finalmente professionisti in grado di arricchirsi a vicenda, anche interrogandosi l’un l’altro, condividendo risultati e difficoltà. L’ho sperimentato di persona, insieme a numerosi colleghi, organizzando un certo numero di incontri di questo genere. Possono essere coinvolti anche insegnanti di altre scuole o di diversi gradi di istruzione. Ed è infine proprio da un confronto fra colleghi che può scaturire l’esigenza di incontrare uno specialista di un argomento da approfondire.
Ho accennato all’inizio al fatto che la mancata condivisione e collaborazione, a quanto mi consta, è più una caratteristica delle superiori e anche delle medie. So che nella scuola dell’infanzia e nella primaria in genere si progetta e si programma abbastanza regolarmente. Una cosa però è riunirsi in vista (e a volte per l’urgenza) di un accordo sul lavoro da fare, un’altra avere la possibilità di uno scambio di idee “disinteressato”, o meglio non immediatamente finalizzato al lavoro in classe.
Nel documento iniziale della “Buona scuola”, quello di 136 pagine del settembre 2014, a proposito dell’aggiornamento avevamo apprezzato come Gruppo di Firenze alcuni segni di resipiscenza, anzi a tratti di una critica o autocritica piuttosto severa del modo in cui era stato in genere dispensato l’aggiornamento. Si parlava di occasioni formative “troppo spesso frontali, poco efficaci e in genere non partecipate”, dove è mancato quasi sempre “un confronto interattivo”. Si sarebbe dovuta favorire la definizione a livello di ciascuna scuola dei programmi formativi, senza più calarli dall’alto. Vanno superati, si aggiungeva, gli “approcci formativi a base teorica” e valorizzata la “forma esperienziale tra colleghi”. Asserzioni non molto lontane da quanto ho appena detto.
Nel “Piano per la formazione dei docenti” presentato nel 2016 dalla ministra Giannini, di “sole” 88 pagine, che eufemisticamente si possono definire “non tutte essenziali”, si dice che i programmi di aggiornamento a livello di istituto dovranno basarsi sulle esigenze formative espresse dai singoli; ma, se non mi è sfuggito qualcosa (perché non essendo una lettura avvincente confesso che alcune parti le ho scorse) non ci sono altre aperture verso quello che, con un’espressione in voga qualche anno fa, si potrebbe definire il “giacimento culturale”, in gran parte, come abbiamo detto, non sfruttato.
Insomma, non può esistere una didattica di Stato, o, con terminologia più moderata, una metodologia imposta dall’alto; e alle ragioni di principio si aggiunge una solida motivazione di tipo psicologico, perché il modo in cui si insegna ha a che fare anche con la personalità del docente, con i suoi talenti e i suoi limiti, compreso il suo stile relazionale. In parole povere, è normale che sia più bravo o brava con un approccio piuttosto che con un altro, che gli riesca meglio e faccia fare con più piacere il lavoro di gruppo, l’apprendimento cooperativo o magari la recente “classe capovolta”. Di fronte a nuove proposte didattiche deve essere libero di accettarle, respingerle, adattarle alle situazioni, modificarle secondo un unico criterio: quello di sentirsene potenziato.
È invece diffusa fra i dirigenti ministeriali e di riflesso tra i ministri (che in genere di scuola sanno poco o nulla) una tendenza dirigista a fare in modo che si adottino le linee metodologiche che si ritengono corrette: ora la didattica per obbiettivi, poi il portfolio delle competenze, eccetera. L’idea di fondo, che io chiamo “illusione procedurale”, è che questo si possa ottenere facendo riempire schede, tabelle, relazioni, progetti, eccetera; o che cambi qualcosa in meglio sostituendo i voti con dei giudizi.
L’anno scorso, quando fu resa pubblica la bozza del decreto sulla valutazione, quello che voleva reintrodurre le lettere nella valutazione oltre a escludere totalmente la possibilità di far ripetere l’anno alle elementari, fummo cortesemente invitati a un incontro in Senato. L’esponente della maggioranza che aveva un ruolo in questa materia ci disse papale papale che il decreto serviva “a costringere gli insegnanti a modificare la didattica”. E noi ovviamente rispondemmo: “Guardi che non funziona; dover fare cose di cui non si è convinti non fa che demotivare invece che aiutare un insegnante”.
Allora, invece di pensare che si debba buttare via tutto per adeguarsi al nuovo che avanza, la giusta strada è quella di fare in modo di avere più frecce al proprio arco, più risorse per essere più efficaci. In altre parole è bene che ogni docente conosca e nei limiti del possibile sperimenti vari approcci didattici, magari tramite forme di aggiornamento esperienziale, e all’interno di questa varietà adotti quelle più utili a seconda delle situazioni e delle proprie attitudini, ma anche per evitare una possibile monotonia nell’insegnamento. Per questo motivo io più che di innovazione della didattica, che implica qualcosa di vecchio da abbandonare, preferirei parlare di arricchimento della didattica.
Purtroppo nel mondo della scuola è facile sentir fare la caricatura di un metodo per sostenere l’adozione di altri. Di recente c’è stato a Rimini un grande convegno organizzato dalla casa editrice Erikson. In uno dei moltissimi incontri una docente ha esclamato sarcasticamente: “Come godiamo noi insegnanti quando sentiamo ripetere parola per parola quello che abbiamo detto!” E fra i materiali che si trovavano nel sito del convegno, c’era anche la presentazione del metodo della “classe rovesciata”, che prevede una lezione registrata da ascoltare a casa e il giorno dopo un approfondimento in classe sull’argomento. Per far capire di che si tratta, si istituiva il confronto tra questo metodo e la lezione frontale, presentata con un’animazione come una situazione in cui, mentre il docente parla alla lavagna, c’è un allievo che scarabocchia, un altro che si distrare, eccetera. Del resto la lezione cosiddetta frontale è diventata negli ultimi anni il bersaglio polemico preferito di molti “innovatori”, soprattutto in quanto responsabile di un’impostazione “trasmissiva” dell’insegnamento. Nessuno però dice mai che una lezione di quel tipo può essere – come tutti sanno benissimo – noiosa o affascinante, ben impostata o confusa, utile o inutile; e che anche sulla lezione frontale ci si può aggiornare per essere più coinvolgenti. Per esempio, la capacità di parlare in pubblico (e la classe è indubbiamente anche un pubblico) è ormai considerata una risorsa indispensabile in numerose professioni e comprende anche una buona dizione, utilissima per chi deve leggere testi ai suoi allievi. In conclusione, non esiste metodo che possa funzionare in mano a un docente svogliato o impreparato: il “fattore umano” resta fondamentale.
Per fortuna il diritto di scegliere il metodo più adatto è garantito dalle leggi e in primo luogo dalla Costituzione: “L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento”. Sulla scia dell’articolo 33, il testo unico delle leggi sull’istruzione, del 1994, stabilisce che ai docenti è garantita la libertà di insegnamento intesa come autonomia didattica e come libera espressione culturale del docente.
Per la legge 15 marzo 1997,“L'autonomia didattica [delle scuole] si sostanzia nella scelta libera e programmata di metodologie, strumenti, organizzazione e tempi di insegnamento, da adottare nel rispetto della possibile pluralità di opzioni metodologiche”.
Infine il Dpr 275/1999, noto anche come Regolamento dell’Autonomia, afferma: “Il Piano dell'offerta formativa [...] comprende e riconosce le diverse opzioni metodologiche, anche di gruppi minoritari, e valorizza le corrispondenti professionalità”.
Avviandoci alla conclusione, chiediamoci come mai è così diffusa nella scuola l’insofferenza per le riunioni. La risposta è molto semplice: quasi nessuno pensa che anche una riunione abbia bisogno di alcune regole per funzionare. Di qui confusione, inconcludenza, fatica, perdite di tempo. L’organizzazione e la conduzione di un seminario, così come di qualsiasi tipo di riunione, sono i due aspetti da curare per la sua riuscita. Fa parte del primo aspetto una preparazione accurata: orari, tempi, spazi, materiali necessari, numero dei partecipanti sono tutti punti da decidere prima, pur concedendo qualche spazio alla necessaria flessibilità. Altrettanto importante è il modo in cui si guida una riunione, una responsabilità che secondo la mia esperienza non molti gradiscono assumere per timidezza o per timore di non essere adeguati, ma forse anche perché in Italia un po’ in tutti i campi il far rispettare le norme e le procedure viene associato facilmente all’autoritarismo e quindi all’impopolarità. Invece è un servizio importante ai colleghi. Con un po’ di garbata fermezza non solo si garantisce la produttività della riunione, ma anche la sua piacevolezza. C’è sicuramente una notevole soddisfazione, anche estetica, nella partecipazione a una riunione ben regolata, con i suoi ritmi, con l’attenzione che si riserva a tutti, con il rispetto dei tempi e la capacità di ascoltare in modo attivo. S’intende che i partecipanti devono essere motivati e deve essere diffusa una cultura della responsabilità da parte di tutti: conduttori e partecipanti. Molto si impara con l’esperienza e/o con un aggiornamento esperienziale mirato. Esistono diverse pubblicazioni sull’argomento e anche in rete si trovano parecchie indicazioni.
Mi auguro, concludendo, che molti colleghi rivalutino l’importanza di essere protagonisti del proprio aggiornamento professionale e rivendichino questa esigenza all’interno del proprio istituto.
Giorgio Ragazzini
gruppodifirenze@libero.it

Qui sotto una mappa concettuale che è stata disegnata nel corso di questo come degli altri interventi.


1 commento:

Monica ha detto...

Leggo questa pagina ed essa legge me. Bello trovare la voce delle proprie inquietudini sempre più faticosamente (e ingiustamente) celate. Grazie.