mercoledì 19 dicembre 2018

DOPO IL SOTTOSEGRETARIO CHE ELOGIAVA LE OCCUPAZIONI DELLE SCUOLE, SIAMO AL MINISTRO DELL’INTERNO CHE SDOGANA SCIOPERI E AUTOGESTIONI


Ai dotati di un solo briciolo di buonsenso già era sembrato stupefacente che il sottosegretario alla Pubblica Istruzione Davide Faraone esaltasse il ruolo formativo delle occupazioni studentesche, nel silenzio opportunistico o connivente dei colleghi di governo e della maggioranza di allora. Ora abbiamo il titolare del Ministero dell’Interno, di cui tutti conosciamo la funzione, che spensieratamente legittima scioperi e autogestioni. Tutte e due le iniziative compromettono lo svolgimento delle lezioni (e stendiamo un velo sull’uso improprio del termine “sciopero”), ma soprattutto le seconde sono, nella maggioranza dei casi, delle occupazioni mascherate, estorte ai presidi che le concedono (comprensibile errore) per potere almeno conservare il controllo della scuola; e si risolvono quasi sempre in un festival di banalità. Il bello è che contestualmente Salvini ribadisce, ignaro della contraddizione, che dall’anno prossimo ci saranno 33 ore di educazione civica (e speriamo che nei nuovi programmi non si forniscano i rudimenti per le attività care a lui e a Faraone).
Si conferma così la trasversalità della deplorevole ricerca del consenso giovanile al più basso livello; e colpisce il ricorso di tutti e due ai propri trascorsi giovanili a supporto di queste esternazioni: “Io ho maturato la mia voglia di fare politica proprio durante un’occupazione”, disse tra l’altro il sottosegretario. “A 15 anni ho fatto tante autogestioni, ho fatto scioperi per la Palestina e per l’Afghanistan. Tutti a 15 anni hanno voglia di esprimersi, basta che non facciano vandalismi, qualche giorno di autogestione non fa male a nessuno”, dichiara Salvini (che poi, nella stessa giornata, ha rincarato la dose facendosi fotografare in rapporti cordiali con alcuni dei peggiori esponenti della curva milanista, pluricondannati per spaccio e violenze e dei quali conosce di sicuro le imprese).
Ma diventare anagraficamente adulti e continuare a strizzare l’occhio al ribellismo giovanile significa tradire la propria funzione di guida delle nuove generazioni, che hanno bisogno sì di comprensione (e a questo può servire la propria esperienza personale), ma anche di chiarezza di giudizio e di fermezza nell’indicare i comportamenti sbagliati.
Giorgio Ragazzini
“Corriere Fiorentino” 19 dicembre 2018

mercoledì 12 dicembre 2018

MA IL 75% DEGLI ITALIANI DICE CHE I COMPITI A CASA SONO UTILI


Si annuncia una circolare del ministro Bussetti per “sensibilizzare il corpo docente e le scuole ad un momento di riposo degli studenti e delle famiglie affinché vengano diminuiti i compiti durante le vacanze natalizie”. L’italiano non è ineccepibile e il messaggio a genitori e studenti non è certo nuovo: “Sono dalla vostra parte”. Ma perché si parla di “diminuire” i compiti dando per scontato che sarebbero troppi? In base a quali dati il ministro Bussetti (come diversi suoi predecessori) teme che tanti bambini e ragazzi, per colpa dei troppi compiti, debbano sacrificare i «piaceri della vita familiare e degli amici» e rinunciare a “fare movimento, dedicarsi ai propri hobby e andare a vedere delle mostre”?
Naturalmente in questi casi i giornali tornano a sentire il nemico giurato dei compiti a casa, quel preside Parodi che li vorrebbe abolire totalmente, perché “suscitano odio e repulsione per la cultura”, e che ha “già” raccolto quasi 32 mila adesioni: in 4 anni e un mese, su una platea di milioni di genitori e di studenti (rarissimi i docenti). Del resto un sondaggio da noi commissionato un anno fa all’istituto demoscopico “Eumetra” abbia detto una parola chiarissima in proposito: solo 22 italiani su cento sostengono che “sono inutili, meglio abolirli”, mentre il 75%  pensa, con  molto buon senso, che “sono utili, se non sono troppi”. Lo stesso buon senso che fa auspicare una scuola “più esigente”: nel valutare  sia la preparazione (59%), che il comportamento (67%); e il 68% giudica sbagliata l’abolizione del voto di condotta. Sono dati di cui l’attuale ministro dovrebbe far tesoro, senza preoccuparsi oltre di quella minoranza di genitori che sanno sempre meglio degli insegnanti cosa è utile ai figli e cosa no, e che in certi casi sono pronti a spiegarglielo a suon di botte.
Giorgio Ragazzini

mercoledì 28 novembre 2018

«NIENTE ADDETTI? TUTTA COLPA DI DUE RIFORME»

Parla Valerio Vagnoli, storico dirigente del Saffi: nei professionali troppe materie e poca formazione.

di Marzio Fatucchi, “Corriere Fiorentino”, 28 novembre 2018
«Bernabò Bocca [Presidente di Federalberghi] ha perfettamente ragione». Valerio Vagnoli, storico dirigente del Saffi, è un fiume in piena. Con lui proviamo a capire perché le aziende del turismo hanno questa grande difficoltà nel trovare personale qualificato.
Vagnoli, cosa è successo? «Tutta colpa di due riforme, la prima nel 2010, la seconda più recente — ma fatta sempre dagli identici esperti, dirigenti e funzionari del ministero che hanno realizzato la prima. Queste due riforme hanno snaturato i nostri istituti professionali che, fino ad allora, funzionavano molto bene».
Ci può fare un esempio? «Fin dal primo anno, i ragazzi devono affrontare 16 materie diverse, e quelle professionalizzanti sono minoritarie rispetto a quelle standard. Un ragazzo si perde, con 16 materie. C’era un modello che andava benissimo negli anni ‘80. In altre parti d’Europa, l’indirizzo professionale è diventato simile a quello di un tempo in Italia. Ancora oggi, e solo lì, il Trentino Alto Adige fa solo formazione, non istruzione. E gli istituti professionali in quella regione, che guarda al modello austriaco e tedesco, preparano a livelli altissimi».
Bocca parla proprio della scuola di formazione alberghiera di Vienna, come modello da «importare» in Italia...
«E fa bene, perché lì si fa davvero formazione professionale. Da noi, si parte con italiano, storia, geografia, educazione fisica, matematica, diritto, scienze della terra, naturali, nel biennio. Poi, certo, ci sono le materie come l’accoglienza turistica, la gestione della sala, il ricevimento e l’ospitalità. Ma sono piccoli bocconi rispetto alle altre. Così come le due lingue straniere, che hanno solo due ore la settimane, e tali restano anche dopo per alcuni percorsi. Temo che con quella riforma che si sia provato davvero ad evitare disoccupazione professionale: ma quella dei docenti, non dei ragazzi e ragazze presenti nelle nostre scuole».
L’altro fronte toccato da Bocca è quello delle nuove professioni digitali. Però quelle competenze sono di tipo elevato: come formarle?
«Sono competenze che si acquisiscono solo a livello universitario o con corsi di alta formazione professionale, corsi post diploma. Ma anche qua c’è un problemi: questi corsi li seguono solo 9 mila studenti in tutta Italia. Troppo pochi, rispetto alle esigenze attuali».
Le imprese vi hanno parlato di questa difficoltà nel trovare personale qualificato?
«Veramente è l’opposto: siamo stati noi del Gruppo di Firenze a dirlo alle imprese, che per anni non ci hanno ascoltato. Finalmente sta cambiando qualcosa. Ho cominciato 12 anni fa a dirigere un professionale. Organizzammo subito un convegno, dopo 6 mesi. Da allora, ci siamo trovati davanti solo un muro di gomma: l’episodio più eclatante fu un assessore provinciale alla Pubblica istruzione che abbandonò il tavolo durante il convegno, perché era imbarazzato che si sostenesse di dover professionalizzare gli studenti dei professionali. Invece gli studenti sono stati liceizzati. Quello che viene denunciato da Bocca è vero, tanto che sono sempre di più i corsi post diploma svolti da agenzie private, dall’altissimo costo. Così però si penalizzano i “privi di mezzi”, come dice la Costituzione, che restano privi di formazione e poi del lavoro».
E ora, ci sono segnali di cambiamento?
«Sì ma in peggio, con l’ultima misura del ministro attuale: è stata quasi dimezzata l’alternanza scuola-lavoro nei professionali e tecnici, passata da 400 ore a 280. Un colpo di grazia».

giovedì 22 novembre 2018

IL VIZIETTO DI DISTRUGGERE


Secondo una consolidata tradizione, anche l’inizio di quest’anno scolastico è travagliato dalla faticosa ricerca di supplenti per le cattedre vacanti. Un problema che tutti i ministri hanno promesso di risolvere senza riuscirci. Certo è molto più facile governare distruggendo l’opera dei predecessori che non agire sull’esistente cercando di migliorarlo. Se poi un sistema del genere lo si applica alla scuola, le conseguenze possono essere disastrose, perché nulla per la formazione dei giovani è più deleterio della giostra dei docenti a cui spesso sono sottoposti. In questo modo d’intendere il proprio ruolo il nuovo ministro della Pubblica istruzione sembra muoversi benissimo, visto che ha provveduto a eliminare alcuni punti chiave della cosiddetta Buona scuola, probabilmente per trovare consensi in chi, docenti, sindacati e studenti, si era fortemente schierato contro la riforma. Una riforma, quella della legge 107 che, insieme ad aspetti assai discutibili, conteneva però alcune positive novità. Invece il ministro Bussetti ha immediatamente deciso di ridurre in modo drastico le ore dell’alternanza scuola-lavoro, sminuita anche nel nome: «Percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento».
Ha inoltre rivisto in gran parte l’esame di Stato e cancellato, a favore del tradizionale concorso a cattedre, il sistema di formazione e reclutamento dei docenti che prevedeva una selezione molto più accurata, con un periodo di prova di durata triennale. E infine ha provveduto a ridimensionare il «potere» dei presidi che non potranno più nominare alcun docente, con conseguente eliminazione dell’organico funzionale, cioè degli insegnanti a disposizione per le esigenze specifiche di ogni scuola. Era un punto innovativo della riforma, rivendicato fin dagli anni settanta del secolo scorso dalle allora avanguardie pedagogiche e sindacali. È questo il principale motivo per cui ancora oggi, dopo la positiva esperienza dello scorso anno, molte classi risultano scoperte, cioè prive di qualche docente. Le nomine sono infatti sottoposte a iter burocratici non del tutto comprensibili anche da chi ha la malasorte di doverli gestire. Si pensi soltanto che alcune supplenze sono di competenza degli uffici scolastici provinciali e altre delle scuole.
Quando a fare le nomine sono quest’ultime, può accadere di dover convocare, per una supplenza anche di pochissimi giorni, centinaia e centinaia di aspiranti, con la conseguenza che le segreterie in questi primi mesi dell’anno sono concentrate quasi esclusivamente su questo ginepraio, aggravato dalla prospettiva di molteplici ricorsi. Per questo Antonello Giannelli, presidente dell’Associazione nazionale dei presidi, propone che a nominare almeno i supplenti siano direttamente i presidi stessi, in modo che tutti i ragazzi possano avere fin dal primo giorno di scuola i loro insegnanti. La nomina avverrebbe tenendo conto del loro curriculum e magari di un colloquio con il dirigente. Scomparirebbe così il principio della sola anzianità di servizio e insieme a quello la desolazione di dover vedere classi intere costrette a iniziare il loro anno scolastico con due-tre mesi di ritardo rispetto alla norma. Senza contare infine quanta poca fiducia nello Stato si possa trasmettere ai ragazzi quando si rendono conto che questo si presenta loro quasi con rassegnazione.
Valerio Vagnoli
“Corriere Fiorentino”, 22 novembre 2018

domenica 18 novembre 2018

PER L’AGGIORNAMENTO RICOMINCIAMO DAGLI ESPERTI: GLI INSEGNANTI

Rielaborazione scritta dell’intervento svolto al Convegno “Quali competenze per la scuola oltre il digitale?”, organizzato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze, che si è tenuto nella giornata di venerdì 16 novembre (v. programma).
Comincio con una riflessione di George Bernard Shaw: “Se io e te abbiamo una mela ciascuno e ce le scambiamo, abbiamo sempre una mela ciascuno; ma se ognuno di noi ha un’idea e ce le scambiamo, allora abbiamo due idee ciascuno”. Mettiamola insieme al titolo del mio intervento e abbiamo una buona sintesi della tesi che voglio sostenere.
Infatti una caratteristica poco sottolineata della scuola italiana è l’estrema scarsità delle occasioni di confronto e di scambio di idee tra insegnanti, soprattutto nel livello secondario, di primo e di secondo grado. Questo ha impedito di mettere in circolazione esperienze, metodi, risultati che quasi sempre rimangono confinati nella testa dei singoli docenti. Negli scorsi decenni la forma quasi esclusiva di aggiornamento è stata di tipo verticale, basata cioè su una relazione tra chi sa (l’esperto) e chi non sa. Ovviamente è una delle modalità necessarie, se porta davvero il contributo di conoscenza che può venire da persone di grande preparazione nel loro settore. Quando però diventa l’unica modalità e a questo si aggiunge: che l’argomento viene imposto dal ministero e non interessa alla gran parte di quelli che ascoltano; che si fa capire più o meno apertamente che bisognerebbe fare tabula rasa del modo di lavorare fin qui adottato; che infine si capisce che il relatore non ha la minima idea di quello che succede nella realtà delle classi e procede per belle astrazioni, quale può essere l’utilità per chi insegna, quale il suo grado di frustrazione?
È invece proprio tipico delle professioni l’utilizzo frequente del metodo seminariale per accrescere la propria preparazione, affrontare problemi, confrontarsi. Avvocati, medici, ingegneri, economisti organizzano seminari sui più vari argomenti. “Seminario” è un termine che ha varie accezioni, che ruotano tutte ruotano intorno all’idea di semina, di vivaio... Ma il significato che qui ci interessa è lo scambio di idee tra pari, una relazione quindi orizzontale, tra esperti. E l’esperto è appunto chi ha “esperienza” di qualcosa.
Sappiamo bene che l’esperienza concreta, quotidiana, di un insegnante è fatta di decine e decine di particolari, su ciascuno dei quali si può lavorare insieme per raffinarli, perfezionarli. Ci si può confrontare su temi e problemi trasversali alle discipline, come il piano relazionale con gli allievi, il loro comportamento, il rapporto con i genitori (per esempio come condurre il colloquio scuola-famiglia); oppure sui contenuti e i metodi propri di una materia. Si può prendere l’avvio da una lettura fatta da tutti i partecipanti, dalla relazione di un collega che ha studiato un argomento, dalla correzione in comune del compito in classe di un allievo.
Il principale vantaggio del metodo seminariale è quello di sentirsi finalmente professionisti in grado di arricchirsi a vicenda, anche interrogandosi l’un l’altro, condividendo risultati e difficoltà. L’ho sperimentato di persona, insieme a numerosi colleghi, organizzando un certo numero di incontri di questo genere. Possono essere coinvolti anche insegnanti di altre scuole o di diversi gradi di istruzione. Ed è infine proprio da un confronto fra colleghi che può scaturire l’esigenza di incontrare uno specialista di un argomento da approfondire.
Ho accennato all’inizio al fatto che la mancata condivisione e collaborazione, a quanto mi consta, è più una caratteristica delle superiori e anche delle medie. So che nella scuola dell’infanzia e nella primaria in genere si progetta e si programma abbastanza regolarmente. Una cosa però è riunirsi in vista (e a volte per l’urgenza) di un accordo sul lavoro da fare, un’altra avere la possibilità di uno scambio di idee “disinteressato”, o meglio non immediatamente finalizzato al lavoro in classe.
Nel documento iniziale della “Buona scuola”, quello di 136 pagine del settembre 2014, a proposito dell’aggiornamento avevamo apprezzato come Gruppo di Firenze alcuni segni di resipiscenza, anzi a tratti di una critica o autocritica piuttosto severa del modo in cui era stato in genere dispensato l’aggiornamento. Si parlava di occasioni formative “troppo spesso frontali, poco efficaci e in genere non partecipate”, dove è mancato quasi sempre “un confronto interattivo”. Si sarebbe dovuta favorire la definizione a livello di ciascuna scuola dei programmi formativi, senza più calarli dall’alto. Vanno superati, si aggiungeva, gli “approcci formativi a base teorica” e valorizzata la “forma esperienziale tra colleghi”. Asserzioni non molto lontane da quanto ho appena detto.
Nel “Piano per la formazione dei docenti” presentato nel 2016 dalla ministra Giannini, di “sole” 88 pagine, che eufemisticamente si possono definire “non tutte essenziali”, si dice che i programmi di aggiornamento a livello di istituto dovranno basarsi sulle esigenze formative espresse dai singoli; ma, se non mi è sfuggito qualcosa (perché non essendo una lettura avvincente confesso che alcune parti le ho scorse) non ci sono altre aperture verso quello che, con un’espressione in voga qualche anno fa, si potrebbe definire il “giacimento culturale”, in gran parte, come abbiamo detto, non sfruttato.
Insomma, non può esistere una didattica di Stato, o, con terminologia più moderata, una metodologia imposta dall’alto; e alle ragioni di principio si aggiunge una solida motivazione di tipo psicologico, perché il modo in cui si insegna ha a che fare anche con la personalità del docente, con i suoi talenti e i suoi limiti, compreso il suo stile relazionale. In parole povere, è normale che sia più bravo o brava con un approccio piuttosto che con un altro, che gli riesca meglio e faccia fare con più piacere il lavoro di gruppo, l’apprendimento cooperativo o magari la recente “classe capovolta”. Di fronte a nuove proposte didattiche deve essere libero di accettarle, respingerle, adattarle alle situazioni, modificarle secondo un unico criterio: quello di sentirsene potenziato.
È invece diffusa fra i dirigenti ministeriali e di riflesso tra i ministri (che in genere di scuola sanno poco o nulla) una tendenza dirigista a fare in modo che si adottino le linee metodologiche che si ritengono corrette: ora la didattica per obbiettivi, poi il portfolio delle competenze, eccetera. L’idea di fondo, che io chiamo “illusione procedurale”, è che questo si possa ottenere facendo riempire schede, tabelle, relazioni, progetti, eccetera; o che cambi qualcosa in meglio sostituendo i voti con dei giudizi.
L’anno scorso, quando fu resa pubblica la bozza del decreto sulla valutazione, quello che voleva reintrodurre le lettere nella valutazione oltre a escludere totalmente la possibilità di far ripetere l’anno alle elementari, fummo cortesemente invitati a un incontro in Senato. L’esponente della maggioranza che aveva un ruolo in questa materia ci disse papale papale che il decreto serviva “a costringere gli insegnanti a modificare la didattica”. E noi ovviamente rispondemmo: “Guardi che non funziona; dover fare cose di cui non si è convinti non fa che demotivare invece che aiutare un insegnante”.
Allora, invece di pensare che si debba buttare via tutto per adeguarsi al nuovo che avanza, la giusta strada è quella di fare in modo di avere più frecce al proprio arco, più risorse per essere più efficaci. In altre parole è bene che ogni docente conosca e nei limiti del possibile sperimenti vari approcci didattici, magari tramite forme di aggiornamento esperienziale, e all’interno di questa varietà adotti quelle più utili a seconda delle situazioni e delle proprie attitudini, ma anche per evitare una possibile monotonia nell’insegnamento. Per questo motivo io più che di innovazione della didattica, che implica qualcosa di vecchio da abbandonare, preferirei parlare di arricchimento della didattica.
Purtroppo nel mondo della scuola è facile sentir fare la caricatura di un metodo per sostenere l’adozione di altri. Di recente c’è stato a Rimini un grande convegno organizzato dalla casa editrice Erikson. In uno dei moltissimi incontri una docente ha esclamato sarcasticamente: “Come godiamo noi insegnanti quando sentiamo ripetere parola per parola quello che abbiamo detto!” E fra i materiali che si trovavano nel sito del convegno, c’era anche la presentazione del metodo della “classe rovesciata”, che prevede una lezione registrata da ascoltare a casa e il giorno dopo un approfondimento in classe sull’argomento. Per far capire di che si tratta, si istituiva il confronto tra questo metodo e la lezione frontale, presentata con un’animazione come una situazione in cui, mentre il docente parla alla lavagna, c’è un allievo che scarabocchia, un altro che si distrare, eccetera. Del resto la lezione cosiddetta frontale è diventata negli ultimi anni il bersaglio polemico preferito di molti “innovatori”, soprattutto in quanto responsabile di un’impostazione “trasmissiva” dell’insegnamento. Nessuno però dice mai che una lezione di quel tipo può essere – come tutti sanno benissimo – noiosa o affascinante, ben impostata o confusa, utile o inutile; e che anche sulla lezione frontale ci si può aggiornare per essere più coinvolgenti. Per esempio, la capacità di parlare in pubblico (e la classe è indubbiamente anche un pubblico) è ormai considerata una risorsa indispensabile in numerose professioni e comprende anche una buona dizione, utilissima per chi deve leggere testi ai suoi allievi. In conclusione, non esiste metodo che possa funzionare in mano a un docente svogliato o impreparato: il “fattore umano” resta fondamentale.
Per fortuna il diritto di scegliere il metodo più adatto è garantito dalle leggi e in primo luogo dalla Costituzione: “L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento”. Sulla scia dell’articolo 33, il testo unico delle leggi sull’istruzione, del 1994, stabilisce che ai docenti è garantita la libertà di insegnamento intesa come autonomia didattica e come libera espressione culturale del docente.
Per la legge 15 marzo 1997,“L'autonomia didattica [delle scuole] si sostanzia nella scelta libera e programmata di metodologie, strumenti, organizzazione e tempi di insegnamento, da adottare nel rispetto della possibile pluralità di opzioni metodologiche”.
Infine il Dpr 275/1999, noto anche come Regolamento dell’Autonomia, afferma: “Il Piano dell'offerta formativa [...] comprende e riconosce le diverse opzioni metodologiche, anche di gruppi minoritari, e valorizza le corrispondenti professionalità”.
Avviandoci alla conclusione, chiediamoci come mai è così diffusa nella scuola l’insofferenza per le riunioni. La risposta è molto semplice: quasi nessuno pensa che anche una riunione abbia bisogno di alcune regole per funzionare. Di qui confusione, inconcludenza, fatica, perdite di tempo. L’organizzazione e la conduzione di un seminario, così come di qualsiasi tipo di riunione, sono i due aspetti da curare per la sua riuscita. Fa parte del primo aspetto una preparazione accurata: orari, tempi, spazi, materiali necessari, numero dei partecipanti sono tutti punti da decidere prima, pur concedendo qualche spazio alla necessaria flessibilità. Altrettanto importante è il modo in cui si guida una riunione, una responsabilità che secondo la mia esperienza non molti gradiscono assumere per timidezza o per timore di non essere adeguati, ma forse anche perché in Italia un po’ in tutti i campi il far rispettare le norme e le procedure viene associato facilmente all’autoritarismo e quindi all’impopolarità. Invece è un servizio importante ai colleghi. Con un po’ di garbata fermezza non solo si garantisce la produttività della riunione, ma anche la sua piacevolezza. C’è sicuramente una notevole soddisfazione, anche estetica, nella partecipazione a una riunione ben regolata, con i suoi ritmi, con l’attenzione che si riserva a tutti, con il rispetto dei tempi e la capacità di ascoltare in modo attivo. S’intende che i partecipanti devono essere motivati e deve essere diffusa una cultura della responsabilità da parte di tutti: conduttori e partecipanti. Molto si impara con l’esperienza e/o con un aggiornamento esperienziale mirato. Esistono diverse pubblicazioni sull’argomento e anche in rete si trovano parecchie indicazioni.
Mi auguro, concludendo, che molti colleghi rivalutino l’importanza di essere protagonisti del proprio aggiornamento professionale e rivendichino questa esigenza all’interno del proprio istituto.
Giorgio Ragazzini
gruppodifirenze@libero.it

Qui sotto una mappa concettuale che è stata disegnata nel corso di questo come degli altri interventi.


domenica 11 novembre 2018

BAMBINI NEGLI ORGANI COLLEGIALI, UN’IDEA GIÀ BOCCIATA DA HANNAH ARENDT


L’ormai noto ddl presentato al Senato nel settembre scorso da 51 senatori leghisti oltre a proporre l’introduzione dell’insegnamento curricolare di educazione civica e la reintroduzione del voto di condotta (due novità senz’altro positive), estende la partecipazione agli organi collegiali anche agli alunni della scuola media e della quinta primaria, superando la vecchia normativa dei decreti delegati che prevede la presenza nei consigli d’istituto e di classe solo degli allievi delle scuole superiori. Non basta: l’elettorato attivo sarà allargato a tutti gli altri alunni della primaria: fin dalla prima, avete capito bene.
L’intento, chiarisce la relazione introduttiva, sarebbe quello “di creare una partecipazione più ampia possibile degli studenti, fin dai primi anni, alla vita della scuola, intesa come educazione alla democrazia, per comprendere come migliorare la scuola stessa in tutti i suoi aspetti attraverso l’azione dei propri rappresentanti”. Di questo delirio democraticistico si possono già prevedere alcuni risultati. Infatti i bambini appena entrati alle elementari voteranno per compagni appena più grandicelli probabilmente perché carini e simpatici, oppure perché propongono 10 minuti in più d’intervallo la mattina. Di più è difficile aspettarsi.
La questione seria e grave da un punto di vista culturale e pedagogico è quella di pensare che nell’età della loro formazione i giovani, e tanto più i bambini delle elementari e i ragazzi delle medie, possano essere, come gli adulti, dei soggetti politici in grado di partecipare in maniera consapevole alla gestione della loro scuola, quando già gli studenti delle superiori, in teoria più maturi, non sanno quasi mai agire in modo costruttivo nella vita scolastica e anzi si comportano spesso in maniera goliardica e talora illegale, come nelle occupazioni. La democrazia non è un gioco da consegnare ai giovani di qualsiasi età, scimmiottando le pratiche politiche degli adulti, perché presuppone un apprendistato culturale che si costruisce durante tutto il corso degli studi (e anche oltre). “Poiché il bambino non conosce ancora il mondo — ha scritto Hannah Arendt — deve esservi introdotto un poco alla volta; e poiché è una cosa nuova, occorre far sì che egli giunga a maturità rispetto al mondo qual è”.
Sergio Casprini
"ilSussidiario.net", 11 novembre 2018

martedì 6 novembre 2018

NON DELUDERE I GIOVANI (BRAVI) – Il lavoro e il ruolo delle imprese


In Italia ci sono decine di migliaia di posti di lavoro vacanti perché nessuno li vuole; e ammettiamo pure che non pochi siano i giovani “sdraiati”, secondo la definizione di Michele Serra, o un po’ “choosy”, cioè schizzinosi, come disse Elsa Fornero. Certamente non c’è da essere teneri con chi evita di fare i conti con la realtà della vita, rimandando al futuro l'incontro col mondo del lavoro, però occorre anche ricordare che molti ragazzi, soprattutto nel settore della ristorazione e in generale del turismo, trovano lavoro ancora prima di diplomarsi. E che il volto con cui si presenta il “mondo del lavoro” è spesso molto deludente, da quello che mi raccontano alcuni ex allievi dell’istituto alberghiero; ed è il volto dello sfruttamento più spregiudicato. Ci sono neo-assunti sottoposti a settimane di prova senza assicurazione, al termine delle quali non solo non vengono riassunti, ma in alcuni casi neanche retribuiti, perché i padroni (la parola imprenditore in questi casi non è appropriata) hanno a disposizione liste ben fornite di nomi di giovani disposti a mettersi alla prova e a sostituire chi viene cacciato spessissimo con scuse varie.
C’è chi assicura i “sottoposti” per 3-4  ore al giorno, mentre le sue giornate lavorative sono fatte, come per gli altri, di dodici-tredici ore. Un ragazzo addirittura mi ha riferito di essere coperto solo per cinque ore la settimana. Sono purtroppo situazioni da “prendere o lasciare”, in cui quest'ultima opzione molti giovani non se la possono proprio permettere, anche perché temono, in molti casi non a torto, che far valere i propri diritti precluda la possibilità di trovare lavoro altrove. Ci sono anche situazioni in cui il lavoro completamente al nero è concordato con il dipendente, soprattutto nel caso in cui a quest'ultimo possa così continuare a essere garantita, almeno fintanto che la legge glielo permetterà, l'indennità di disoccupazione.
Di fronte a situazioni probabilmente abbastanza diffuse come queste, occorrerebbe che le autorità preposte ai controlli prendessero adeguate contromisure e che i sindacati facessero di più. Ma sarebbe altrettanto importante che gli stessi rappresentanti delle imprese prendessero una posizione netta contro questo malaffare, salvando il senso stesso di civiltà che cerchiamo di insegnare ai nostri ragazzi nelle scuole. Torni pure l’educazione civica nelle scuole, purché anche il mondo del lavoro e la società in genere si facciano carico di non tradirla.
Valerio Vagnoli
"Corriere Fiorentino", 6 novembre 2018

lunedì 22 ottobre 2018

PERCHÉ LA SCUOLA HA BISOGNO DEI VOTI

Il 12 e il 13 ottobre si è svolto a Rimini didattiche.2018, un appuntamento organizzato dalla Erickson, Casa Editrice e Centro studi che si occupa di formazione, didattica, pedagogia e altri temi legati alla scuola. Non un convegno, ma un mega-evento con decine di conferenze, incontri, laboratori didattici.
Andrea Ragazzini, del Gruppo di Firenze, ha partecipato a un dibattito intitolato “diamo i numeri?! il dilemma dei voti a scuola”. Qui sotto il suo intervento, favorevole ai voti. Contraria invece la sua interlocutrice, Valentina Giovannini, insegnante nella scuola Pestalozzi di Firenze.

Una premessa. Le considerazioni che farò sono di carattere generale e riguardano, con le differenze del caso, tutti gli ordini di scuola. Qualcuno, pur favorevole ai voti anche nella primaria, pensa che si dovrebbe valutare la possibilità di non usare i voti il primo anno o nei primi due della primaria. Personalmente però, avendo esperienza solo della secondaria superiore, non entro nel merito della questione.
Inizio prendendo spunto dall’ultima frase dell’Abstract: “In questo intervento, i relatori cercheranno di sciogliere il dilemma della “valutazione”, che altro non vuol dire che “dare valore”, quindi valorizzare il potenziale di tutti gli studenti, accogliendo ciascuna diversità nel percorso di apprendimento.
“Valutare” e “valorizzare” hanno un differente significato. Valutare significa attribuire un valore, stimare (un gioiello, un terreno, una prestazione). Serve qualcuno che per i suoi studi e la sua esperienza ha gli strumenti per farlo. Valorizzare vuol dire invece far acquistare valore o mettere in risalto il valore di qualcosa o di qualcuno. Nel caso dell’insegnante mettere un allievo nelle condizioni di scoprire e utilizzare al meglio le proprie capacità, una competenza che integra quella strettamente disciplinare. Un insegnante deve essere capace di esercitare entrambe le funzioni, senza che una vada a detrimento dell’altra.
Gli studenti sono stimolati o demotivati da un voto negativo? C’è prima di tutto da chiedersi se, da questo punto di vista, c’è differenza tra un 5 e un “insufficiente” o tra un 4 e un “gravemente insufficiente”. E inoltre se è vero, come sembrano credere al MIUR, che le lettere sono “più eque e meno limitanti”.
Meglio quindi discutere, più seriamente, degli effetti di una valutazione negativa, comunque sia espressa. È ovvio che in buona parte dipendono dalla sensibilità e dal carattere dello studente, ma anche, e forse soprattutto, dalla qualità del rapporto con l’insegnante. All’interno di un rapporto di fiducia la valutazione negativa può non fare piacere, come è logico, ma è probabile che sia un incentivo a fare meglio.
Il voto è un elemento di chiarezza che, nella mia esperienza, gli studenti apprezzano. Il voto però ha bisogno di essere spiegato e motivato, si tratti di una verifica scritta o orale. E non c’è dubbio che sia molto importante motivare una valutazione, soprattutto quando non è positiva, e “valorizzare” eventuali miglioramenti o l’impegno che c’è stato e la possibilità di correggere gli errori (sbagliando si impara).
Io direi quindi che il voto ha bisogno del giudizio, ovvero di una spiegazione, ma anche un giudizio ha bisogno di confrontarsi con il voto, per evitare scarsa chiarezza, ambiguità, reticenze. Posso citare una mia esperienza negativa in materia: i giudizi di ammissione all’Esame di maturità in vigore dal 1969 al 1987, che prevedevano un colloquio orale su due materie, una scelta dal candidato e l’altra dalla commissione. In sede di scrutini di ammissione i giudizi erano formulati soprattutto per far sì che la commissione di esame scegliesse la seconda materia del colloquio secondo i desiderata dello studente, anche alterando in modo significativo i risultati reali. Tralascio di commentare in questa sede i risvolti deontologici di simili manipolazioni.
C’è un altro tema da tenere presente in questa discussione: la necessità di ricercare in un processo educativo un equilibrio tra codice paterno (principio di realtà) e codice materno (protezione, accoglienza), secondo una terminologia usata dagli psicologi. A volte la contrarietà al voto nasce soprattutto dal desiderio di proteggere sempre e comunque gli allievi dalla frustrazione e dalla delusione che una valutazione negativa inevitabilmente comporta. Ma nell’educazione un eccesso di maternage può avere serie conseguenze sulla personalità dei ragazzi, che possono diventare narcisi incapaci di reggere qualsiasi delusione o insuccesso. In realtà può succedere che l’insegnante protegga piuttosto se stesso, per evitare una scelta che a volte può essere penosa. È un tema molto forte nel rapporto tra genitori e figli, ma credo che spesso coinvolga anche gli insegnanti, magari i più appassionati.
Concludendo, una considerazione che mi sta a cuore. A differenza della discussione di oggi, che è stata molto corretta, anche se tra idee indubbiamente distanti, sento troppo spesso persone (pedagogisti, addetti ai lavori, politici) che non si limitano a sostenere la necessità di adottare nuove strategie didattiche, ma che lo fanno a partire da una vera e propria criminalizzazione della scuola attuale e dalla colpevolizzazione degli insegnanti, a cui si addebita senza eccezioni qualsiasi insuccesso scolastico. Anche qui, in uno degli incontri di ieri pomeriggio, mi è capitato di ascoltare una battuta sprezzante sul godimento che, non qualche insegnante, ma gli insegnanti in genere, proverebbero nel sentirsi ripetere a pappagallo le loro spiegazioni. Se si vuole che gli insegnanti riflettano sul proprio modo di lavorare e prendano in considerazione possibili cambiamenti, non credo sia questo il modo di incoraggiarli.
Andrea Ragazzini

sabato 20 ottobre 2018

LA “SCOMMESSA” DEI PROFESSIONALI SULLA PELLE DEGLI STUDENTI

Tra i numerosi convegni in programma a Didacta, la mega-manifestazione sulla scuola che si svolge in questi giorni a Firenze, uno aveva come tema Il tramonto dei modelli tradizionali di scuola e il rilancio (o la fine?) dell’istruzione professionale. L’ipotesi contenuta nella parentesi sembrerebbe purtroppo prossima a realizzarsi. Il numero degli iscritti ai professionali, infatti, negli ultimi anni è praticamente crollato. Infatti, come era facilmente prevedibile dopo la riforma del 2011, la percentuale dei ragazzi che li frequenta è ridotta al 14% (solo due anni fa era al 18,6); e quasi la metà di questa percentuale è rappresentata da studenti che frequentano gli istituti alberghieri. Come abbiamo da tempo denunciato (inascoltati), il principale “baco” di quella riforma era il gran numero di materie, per di più prevalentemente teoriche, accompagnato ovviamente dall’insufficiente spazio riservato ai laboratori, che è poi quello in grado di consolidare negli studenti le motivazioni della loro scelta. A distanza di soli sette anni dalla precedente “epocale” riforma, ne è stata fatta un’altra per cercare di porre rimedio al suo fallimento. Anche di questa abbiamo già parlato, evidenziandone il limite enorme che è quello di scaricare sulle singole scuole l’onere di dare più spazio alla pratica attraverso i margini di flessibilità oraria previsti dall’autonomia. E già vediamo i collegi dei docenti approvare senza nessuna resistenza la riduzione di ore a questa e a quella materia per aumentare quelle di laboratorio. Auguri.
Il rischio di una definitiva demolizione del nostro sistema di istruzione e formazione professionale purtroppo è emerso con molta evidenza anche da quanto detto in occasione dell'incontro a Didacta dagli stessi esperti che hanno avuto un ruolo centrale nel precedente e anche nell'attuale riordino dell'indirizzo professionale. Infatti la parola da loro più usata nello spiegare le finalità e la struttura stessa di questa ultima riforma (già in vigore) è stata “scommessa”. Proprio così: la nuova riforma “è una scommessa”. Sembrerebbe di capire che o la va o la spacca; e purtroppo la seconda ipotesi ha maggiori probabilità di successo (si fa per dire) rispetto alla prima. Insomma, dopo decenni di declino di un settore fondamentale per la nostra cultura e per la nostra economia, come dovrebbe essere quello professionale, quando si interviene per correggerlo non lo si fa per dargli finalmente un assetto destinato a durare anche perché finalmente snellito dalla consolidata, mastodontica degenerazione burocratica. Lo si modifica un po', lo si addomestica alla meglio, lo si burocratizza ulteriormente nella speranza che alla fine qualcosa funzioni. E in questo, al di fuori di qualsiasi ironia, gran parte del personale della scuola è davvero capace di miracoli nel rendere dignitoso il lavoro spesso scadente della nostra burocrazia ministeriale. Ma a tutto c’è un limite e non è proprio il caso che lo Stato si permetta di fare scommesse sulla pelle degli studenti.

Valerio Vagnoli

sabato 13 ottobre 2018

CATTEDRE SCOPERTE, PRIORITÀ INVERTITE


In questi giorni molte scuole sono alla ricerca dei docenti che mancano perché quasi nulla si è fatto da decenni per una seria programmazione degli organici. E ogni anno la situazione è peggiore di quella precedente perché non mancano ministri che anziché preoccuparsi di dare ordine al faraonico sistema scuola si perdono nella ricerca di consensi fin troppo facili. Il riferimento al recentissimo snaturamento dell’alternanza scuola lavoro e alla sempre maggior banalizzazione dell’esame di maturità non è casuale. E il sistema è diventato così complesso anche perché si sono riempiti gli indirizzi di materie aggiungendo negli ultimi anni qualche centinaio di migliaia di cattedre solo per creare nuovi posti di lavoro e accontentare anche i sindacati. E nel passato, anche abbastanza recente, non sono mancati ministri, pur del medesimo schieramento politico, che hanno creato, a distanza di pochissimi anni uno dall’altro, sistemi di reclutamento farraginosi e tra loro addirittura antitetici. Tuttavia, come constatiamo in questi giorni, anche le generose immissioni in ruolo degli ultimi anni non sono state sufficienti a coprire tutte le cattedre prive di docenti titolari e questi, anziché essere tenuti a rimanere per tre anni nella stessa scuola, come inizialmente stabilito, si sono poi visti riconoscere il diritto a chiedere il trasferimento dopo il primo anno, contribuendo così ad aumentare il caos. Ma più di tutti pagano i ragazzi disabili e le loro famiglie e, in generale, anche le scuole in cui studiano, soprattutto quelle professionali dove la loro presenza ha percentuali altissime rispetto agli altri indirizzi. Infatti non potranno, come accade da anni, contare su docenti dotati di specializzazione perché da tempo le loro graduatorie sono esaurite e nessuno ha indetto nuovi concorsi. In definitiva, solo il 20% dei ragazzi disabili può contare in generale su docenti con titolo specifico. Di conseguenza le scuole, come accade in questi giorni soprattutto nei professionali, sono alla frenetica ricerca di insegnanti di sostegno purché abbiano una laurea e abbiano naturalmente fatto domanda di supplenza. Per il 2019 andrà certamente ancora peggio e per questo ci aspettiamo che il ministro, anziché pensare a demolire l’esistente che funziona, prenda finalmente atto che prima di tutto ci si deve occupare delle situazioni drammatiche.
 Valerio Vagnoli 
("Corriere Fiorentino", 12 ottobre 2018)

giovedì 11 ottobre 2018

IMPUNITÀ QUOTIDIANA (E L’EDUCAZIONE DA SOLA NON BASTA)

In un’intervista all’Avvenire sulla sua proposta di ritorno dell’educazione civica nei programmi scolastici, il sindaco Nardella ha affermato: “Le assicuro che le sanzioni non servono a convincere i cittadini che le carte non si buttano per terra, che i monumenti non si imbrattano, che è giusto parcheggiare dentro gli spazi e gettare i rifiuti nei cestini”. Solo ripartendo dalla scuola, ha aggiunto, “si migliora in modo profondo e strutturale la nostra società”. 
L’idea che tutto si può ottenere informando, sensibilizzando e dialogando senza punire è tanto diffusa – anche nella scuola – quanto infondata. Le sanzioni non sono contrarie all’educazione. Sono invece lo strumento educativo che rimane nei casi in cui la conoscenza delle regole e la ripetuta esortazione a rispettarle non abbia avuto successo. È stato certo un bene aver superato metodi fortemente punitivi nella formazione delle nuove generazioni e nella gestione della società; la quale però non può rinunciare a far valere il limite alla libertà di ciascuno nel momento in cui danneggia gli altri. Del resto un’affermazione come quella di Nardella si espone inevitabilmente a una serie di contraddizioni. La prima è contenuta nel suo elenco di comportamenti scorretti: non risulta infatti che sia contrario a multare chi non parcheggia “dentro gli spazi”. E proprio l’altro ieri ha lanciato una petizione per rafforzare la sicurezza dei cittadini in cui tra l’altro si chiede certezza dell’esecuzione della pena, perché “per le comunità è intollerabile il senso di impunità che a volte pare trasparire dal vedere in strada soggetti solitamente dediti a malefatte”. Certo, si tratta di reati; ma anche l’impunità di cui godono comportamenti scorretti come sporcare le strade, imbrattare i muri, andare pericolosamente in bici sui marciapiedi e contromano, impedire il riposo con la musica a tutto volume, non pagare il biglietto sull’autobus o sui treni regionali crea nei cittadini corretti irritazione e sfiducia nelle istituzioni e anche, nei meno determinati, adeguamento all’andazzo prevalente. Non a caso si cita spesso la famosa “finestra rotta”, che, se non riparata a tempo, induce a romperne altre. Aggiungiamo che gli studiosi hanno dimostrato che il senso civico, la consapevolezza di avere doveri oltre che diritti, la disponibilità a cooperare costituiscono un capitale sociale di fondamentale importanza per lo sviluppo economico. Anche in questa luce, la tolleranza zero sarebbe un investimento democratico insostituibile e non può riguardare solo la sicurezza sul lavoro, lo sfruttamento e l’evasione fiscale (su questo è d’accordo anche chi vuole il dialogo educativo a tutti i costi), ma anche i tanti aspetti della convivenza quotidiana.
Infine, un sindaco che sottolinea così tanto – e giustamente – l’importanza dell’educazione, dovrebbe coerentemente utilizzare le potenzialità educative che il suo ruolo comporta, rivolgendosi frequentemente ai concittadini per richiamarli alle loro responsabilità, per fare il punto sui progressi riscontrati nel decoro della città e proporre iniziative per migliorare ancora; ricordando, infine, che esistono delle sanzioni per chi ignora le regole. E se ne dovrebbero ricordare anche alcuni vigili che fanno volentieri finta di nulla, per esempio quando gli sfreccia accanto un ciclista in piazza del Duomo, mettendo a rischio l’incolumità delle persone. Interrogati in proposito, una volta mi risposero: “Ci vuole l’educazione”.
Giorgio Ragazzini
“Corriere Fiorentino”, 11 ottobre 2018

domenica 7 ottobre 2018

OCCUPAZIONI CONTRO LA MANOVRA CHE PENALIZZA I GIOVANI? NON È UNA BUONA IDEA

Qualche giorno fa Pietro Ichino, in un editoriale sul suo blog, riferendosi alla manovra del governo si chiedeva come sia possibile che gli adolescenti e i ventenni di oggi non abbiano niente da ridire “sul vero e proprio furto che la generazione dei loro padri e nonni sta perpetrando ai loro danni”. Trenta miliardi che si aggiungono ai 2300 del debito pubblico, altri miliardi di interessi da pagare a chi presta i soldi allo Stato, in definitiva “alto rischio di non avere né lavoro, né assistenza, né pensione”. E ricordava di essere sempre stato un critico severo delle occupazioni scolastiche, ma aggiungeva: “Quest’anno, però, riconosco che un motivo forte e specifico per protestare – tutto sta nello scegliere la forma più efficace – i giovani in quanto tali lo avrebbero”.
Due giorni dopo il direttore del “Foglio” Claudio Cerasa ha rilanciato l’idea precisandola: occupate per un giorno la vostra scuola in difesa del vostro futuro. Le occupazioni in genere sono “carnevalate”, ma per una volta si può fare eccezione.
Stimiamo tutti e due i proponenti e comprendiamo le loro preoccupazioni; ma non siamo d’accordo. La pratica delle occupazioni non è solo una “carnevalata”, un vuoto rituale e un modo per fare vacanza o bisboccia; è soprattutto una pratica illegale e quindi diseducativa, che oltretutto ha deluso e allontanato dalla politica moltissimi ragazzi, come sanno tanti docenti e dirigenti. Anche quando nel suo ambito si organizzano attività alternative varie per dare alla cosa una vernice di serietà, resta comunque un’interruzione di pubblico servizio, un’invasione di edifici altrui (checché ne vaneggi la Cassazione), una dilapidazione di denaro dei cittadini, una sopraffazione di minoranze (o maggioranze che siano) su chi vuole seguire le lezioni. Riabilitare, anche se pro tempore, le occupazioni per contrastare una manovra basata su deficit e debito accredita l’idea che l’importanza della causa giustifichi l’aggiramento delle leggi. Dobbiamo invece ricordare ai ragazzi che hanno molti strumenti per farsi sentire: da internet ai tradizionali volantini, dai comunicati stampa alle lettere aperte. C’è poi il monte ore delle assemblee d’istituto, che potrebbero essere in parte accorpate per indire una giornata di discussione e di protesta invece che di occupazione. Ci sono infine i vari modi di manifestare il proprio pensiero nelle piazze e davanti alle sedi istituzionali. Tutto sta, appunto, nello scegliere la forma più efficace, ma rispettando le leggi e i diritti altrui.
Giorgio Ragazzini

giovedì 4 ottobre 2018

IL MIUR RECLUTI PROFESSORI E DIRIGENTI IN PENSIONE PER VALUTARE STUDENTI E SCUOLE - Un sistema di istruzione che non conosce se stesso

C’è un rapporto dettagliato in base al quale il Ministro ha deciso di ridurre l’alternanza scuola-lavoro? Quanti sono gli insegnanti e i dirigenti inadeguati? Qual è la situazione della disciplina nelle classi? Come funziona l’insegnamento della nostra lingua agli allievi stranieri? Cosa sanno i ragazzi di storia, geografia, Costituzione al termine degli studi secondari? Quanti non scrivono correttamente in italiano? Sono alcune delle domande che si dovrebbe porre chi si interessa di scuola; e a maggior ragione dovrebbe farlo chi la scuola è chiamato a governare su una solida conoscenza dei problemi e sulla verifica degli effetti dei provvedimenti presi. Purtroppo la scuola italiana indaga poco se stessa; e per di più, come altri settori dello Stato, è refrattaria alla cultura del controllo dei risultati. Che dietro al perdurare di questa mentalità ci siano spesso i sindacati, con i loro riflessi corporativi, non può che rendere ancora più amara la constatazione della realtà.
Come sappiamo, per la valutazione del sistema educativo è stato creato l’Invalsi, che si è occupato in prevalenza di comprensione del testo, problemi matematici e padronanza dell’inglese. Da quando è stato creato è stato bersaglio di critiche severe, tra cui quelle acuminate del professor Giorgio Israel, che però precisava di non essere né contro le prove Invalsi, né contro l’Istituto in quanto tale, a condizione che fosse possibile una discussione aperta sui contenuti delle prove, che si definissero con chiarezza gli scopi dell’ente e che esso non fosse una struttura poco trasparente e chiusa a competenze esterne. Quanto alle prove, Israel affermava giustamente che dovessero puntare solo all’accertamento delle conoscenze e delle abilità imprescindibili per ogni livello di scolarità e non di competenze complesse, per cui non sono adatte. Al di fuori di questi limiti c’è il pericolo, rivelatosi reale negli Usa, di orientare la didattica in funzione dei test, con relativo smercio di eserciziari ad hoc. Tanto meno si può pensare che si tratti di strumenti adatti a valutare i singoli docenti.
Ad ogni modo, la constatazione che il “teaching to the test” non si è per il momento verificato su larga scala, sembra aver tranquillizzato la maggior parte dei docenti; fra i quali, però, rimangono minoranze combattive che si oppongono alle prove Invalsi, anche per timori in parte irrazionali dovuti più che altro alla poca chiarezza iniziale circa possibili ricadute sull’autonomia delle scuole e addirittura sui singoli insegnanti.
Purtroppo per valutare il nostro sistema scolastico non ci possiamo affidare neppure agli esami, ridotti peraltro nell'intero ciclo scolastico solo a due. Specialmente quello detto un tempo “di maturità” offre un quadro davvero poco credibile. Capita come sappiamo che in alcune regioni meridionali sovrabbondino i "cento" e i “cento e lode”, mentre al nord gli studenti eccellenti risultano in numero nettamente inferiore. Nei test Invalsi e Pisa, invece, le stesse regioni si posizionano agli ultimissimi posti. Con tutti i dubbi sui test, è difficile non pensare che si usino criteri di valutazione troppo diversi. Per questo da anni le università non tengono conto del curriculum scolastico per le ammissioni ai loro corsi. E sempre più spesso neanche il mondo del lavoro seleziona i giovani sulla base dei voti ottenuti all'esame di Stato, voti sempre meno credibili anche per la colpevole compiacenza di certi professori e presidenti di commissione che non impediscono ai ragazzi di copiare e a volte prendono addirittura l’iniziativa di aiutarli. Anche per questo è indispensabile controllare e confrontare i risultati, perché solo in questo modo sarà possibile adottare una politica scolastica in grado d'impedire il declino del sistema formativo.
Esemplificativo a tale proposito l'appello dei 770 docenti universitari a favore di un serio intervento per migliorare negli studenti le competenze della lingua italiana; che, grazie anche alle testimonianze dei firmatari, abbiamo scoperto essere gravemente e diffusamente carenti. Accanto a un ripensamento delle indicazioni nazionali, l’appello chiedeva l’introduzione di verifiche periodiche nazionali durante il primo ciclo; ma da questo orecchio il ministero non ci sente.
La difficoltà di operare una valutazione generale dei risultati dipende anche dall’assenza, forse non casuale, di un corpo ispettivo all’altezza delle necessità. Nel Regno Unito, oltre alla NAA (Agenzia Nazionale per la Valutazione), che produce e somministra i test nazionali, esiste l’Ofsted, un dipartimento indipendente – a garanzia di imparzialità – che, disponendo di un gran numero di ispettori, ogni settimana esegue centinaia di visite nelle scuole e pubblica i risultati on line.
In Italia negli ultimi anni ne sono stati reclutati un centinaio in base al curriculum dei candidati, ma il numero degli ispettori, anche con i nuovi ingressi, continua a essere irrisorio; senza contare che quelli assunti recentemente sono quasi tutti utilizzati come responsabili degli uffici scolastici periferici. È anche per questa grave carenza che è tra l’altro molto difficile porre rimedio alle situazioni di particolare inadeguatezza di docenti e dirigenti scolastici. Per far fronte, almeno provvisoriamente, a questa lacuna, il Ministero potrebbe reclutare, previa accurata selezione, personale in pensione disposto a svolgere funzioni ispettive e in generale utilizzare tutti i possibili strumenti per verificare a campione la credibilità dei risultati ottenuti dalle scuole e in particolare quelli degli esami di Stato.

Giorgio Ragazzini e Valerio Vagnoli

Da "ilSussidiario.net" del 3 ottobre 2018.

sabato 22 settembre 2018

CINQUE APPUNTI PER LA SCUOLA

Il discorso del Presidente Mattarella per l’inaugurazione dell’anno scolastico, tenutasi quest’anno all’Isola d’Elba, si è mantenuto nel solco di molti precedenti, ma la sincera e affettuosa convinzione con cui parla riesce a vivificare anche cose sentite più volte. Nel quadro di una manifestazione forse troppo ricca di esibizioni di artisti e di scolaresche, va ricordato almeno l’intervento registrato dell’attore Antonio Albanese, che ha ricordato ai ragazzi con molta convinzione quanto sia importante impegnarsi, studiare tanto e accettare la fatica. Ma l’intervento di Mattarella è riuscito a catturare l’attenzione dei bambini, perfino di quelli più piccoli, quasi a significare che le istituzioni sono solide e ben riconosciute dal mondo scolastico che deve aver molto apprezzato, almeno lo spero, anche la convinta partecipazione al canto dell’inno nazionale, accompagnato con la mano sul cuore, del ministro Bussetti. Mattarella ha molto insistito sul fatto che il nostro sistema scolastico nel complesso è senz’altro molto positivo, tanto da preparare molti giovani destinati poi ad avere notevoli successi nel mondo intero, ultimo quello prestigioso di Alessio Figalli, vincitore della medaglia Fields. Tuttavia, ha ricordato ancora il Presidente, malgrado i meriti innegabili della nostra scuola, grazie anche al lavoro straordinario del personale scolastico, le percentuali della dispersione scolastica sono inaccettabili e su questo specifico problema molto deve essere ancora fatto. Così come dovrà cessare il binomio, mi permetto di dire antico e per questo ancor più da stigmatizzare, della povertà a cui corrisponde quasi sempre una altrettanta povertà educativa. Guai a rinunciare, inoltre, alla valorizzazione dei talenti e a fare della scuola un vero e proprio ascensore sociale. Ed ha senz’altro ragione nel ritenere che la valorizzazione dei talenti e il recupero dei ragazzi svantaggiati possono convivere anche se, aggiungo ancora io, perché questo possa accadere sarebbe necessario un sistema scolastico non più riconducibile al solo sistema «classe». Mattarella ha elencato inoltre altri problemi legati alla nostra scuola, a partire dalla condizione degli edifici scolastici fino a toccare quello sempre più rilevante dei genitori bulli nei confronti dei docenti e dei dirigenti scolastici. Molto interessante inoltre il riferimento con relativa indicazione operativa, visti anche alcuni recenti drammatici eventi, al cattivo utilizzo del web da parte dei ragazzi. Un aspetto, quello del rapporto dei ragazzi con Internet, che dovrebbe richiamare le scuole a dare maggiori informazioni alle famiglie su tematiche che spesso ignorano, anche perché i loro figli sono molto più avanti dei loro stessi genitori nell’uso della Rete. Un grandissimo applauso ha accompagnato il forte richiamo contro le leggi razziali che giusto settanta anni fa permisero che si cacciassero dalle scuole sia i ragazzi che i docenti ebrei. E non è mancato infine un appassionato ricordi dei bambini morti nel crollo del ponte Morandi e un riconoscimento a Fabrizio Frizzi che per molti anni aveva condotto questa cerimonia d’inizio anno scolastico. Un riconoscimento per niente stonato e utile a ricordare ai ragazzi che il mondo è fatto anche di persone buone, come lo era Frizzi, e grazie a loro e grazie anche ad una scuola efficiente e attenta al rispetto delle regole e ad insegnare ai ragazzi il rispetto degli altri che potremo con fiducia guardare avanti.
Valerio Vagnoli
(“Corriere Fiorentino”, 18 settembre 2018)

lunedì 17 settembre 2018

LE ALTERNE VICENDE DELL’ALTERNANZA SCUOLA-LAVORO


Il Ministro dell’Istruzione Bussetti ha annunciato che le ore di alternanza scuola-lavoro negli istituti superiori verranno diminuite, in misura diversa a seconda degli indirizzi di studio. Nei licei sembra certo che verranno dimezzate (da 200 a 100), per gli istituti tecnici potrebbero forse essere ridotte da 400 a 300, per i professionali la riduzione potrebbe essere solo del 10%. Il Ministro ha motivato questa decisione con le notevoli difficoltà che molti istituti hanno incontrato nel realizzare esperienze realmente qualificate, pur riconoscendo che ci sono state diverse positive eccezioni. La cosa non ha suscitato reazioni di alcun tipo nei partiti che aveva istituito l’alternanza.
A distanza di tre anni dall’approvazione della Legge 107 è senz’altro opportuno fare il punto di questa esperienza, ma una volta di più la decisione di cambiare, almeno a quanto ne sappiamo, non è accompagnata da una spiegazione articolata, né sembra poggiare su una sistematica raccolta e su una accurata analisi di dati, tale da consentire una seria valutazione dei risultati nei diversi indirizzi di studio. Il ministro ha fatto anche un accenno al rischio di “apprendistato gratuito”. Sarebbe utile capire che cosa intendesse dire esattamente; e comunque l‘eventuale problema si dovrebbe affrontare con opportuni controlli e con cambiamenti delle linee guida, non riducendo le ore.
Cerchiamo comunque di fare il punto della situazione. La vera e propria alternanza scuola-lavoro consiste nell’“alternare” l’apprendimento scolastico di una professione a un tirocinio pratico presso un’azienda (uno studio, un ente) relativo alla professione stessa. Riguarda quindi gli istituti tecnici e professionali e, se ben condotta, può essere di grande utilità. Lo dimostra, tra gli altri, l’esempio tedesco, anche se non trasferibile integralmente in Italia. Nei licei, in particolare il classico e lo scientifico, che per definizione sono propedeutici a studi universitari, non sarebbe quindi appropriato definire “alternanza” una serie di esperienze lavorative o di informazione in loco su alcune professioni o attività di vario genere. Sarebbe più logico che i liceali ne potessero usufruire all’università, quando in genere sono più delineati i possibili sbocchi professionali degli indirizzi di studio. È vero che in certi casi le esperienze attualmente proposte possono costituire, se correttamente impostate, un utile momento formativo sul piano della crescita personale. È anche vero però che spesso non contribuiscono all’approfondimento delle materie curricolari, mentre sottraggono tempo a un già contenuto monte ore di insegnamento; e la cosa ha suscitato numerose lagnanze fra i docenti di queste scuole. Si tratta peraltro di una critica analoga a quella che è stata rivolta al moltiplicarsi dei progetti extracurricolari, con relativa erosione delle ore di lezione.
Almeno per i licei, si potrebbero salvaguardare sia il tempo scuola che la possibilità di vivere esperienze formative (che siano veramente tali) collocando queste ultime nel periodo estivo o nel pomeriggio. Sarebbero da privilegiare le attività di volontariato, soprattutto nelle associazioni che si occupano di servizi alle persone. Al contrario di quanto accade nel rapporto col mondo del lavoro, in cui non c’è sempre la convenienza – e quindi una reale disponibilità – a ospitare degli studenti, qui si possono incontrare realmente le necessità formative dei ragazzi e le esigenze delle associazioni. In altre parole, è più facile che ci sia un reale interesse reciproco. Si tratta inoltre di esperienze che possono far crescere i ragazzi sviluppando in loro il senso di responsabilità e la sensibilità sociale.
Per i professionali e i tecnici (ma anche per i licei artistici) l’alternanza appare essenziale (anche se andrebbe inserita in modo più armonico nei piani orari), ma si dovrebbe tenere ben presente anche la fondamentale importanza dei laboratori come luogo di apprendimento e quindi la necessità del loro potenziamento in qualità e numero di ore. Relativamente ai professionali, con la recente riforma si è purtroppo persa l’occasione di ridimensionare il numero e il monte orario delle lezioni teoriche, aumentando allo stesso tempo le ore di laboratorio. Viene invece scaricata sulle scuole la responsabilità di utilizzare la flessibilità per ottenere questo risultato, ma sappiamo bene che le resistenze dei collegi renderanno la cosa estremamente difficile.

domenica 9 settembre 2018

LA SCUOLA NON BASTA


L’Alto Adige il 5 settembre, la Puglia il 20: in questo arco di tempo tutti i ragazzi italiani faranno ritorno a scuola. Per qualcuno sarà una routine, per altri un obbligo faticoso, per altri ancora l’eccitante inizio (o il piacevole proseguimento) di un percorso destinato ad avere un ruolo cruciale nella loro esistenza. È proprio questa una delle più importanti funzioni dell’istruzione: quella di contribuire a costruire nei ragazzi il loro domani; anche se, come ci dicono tutte le statistiche, il prestigio della scuola continua a calare e cala altresì la sua capacità di incidere sul futuro dei giovani. Tutto ciò, sia chiaro, non accade per sua esclusiva responsabilità. Chi insegna alle elementari sa benissimo che il destino di molti bambini è già al loro arrivo compromesso e che poco a volte si può fare a quel punto per cambiare la loro sorte. Spesso sono figli di genitori troppo impegnati ad affrontare le difficoltà della vita o incapaci di trasmettere ai figli altri valori se non i più deleteri della nostra società. E tra questi, contrariamente a quanto accadeva in passato pur nelle famiglie più povere anche sul piano culturale, non vi è spesso quello legato all’importanza dell’istruzione. D’altra parte è da anni che la «cultura» scolastica dominante è riuscita a togliere quasi del tutto alla scuola la funzione di permettere ai capaci e meritevoli quella ascesa sociale che è ormai affidata quasi esclusivamente a qualche scheda del Superenalotto o alle coraggiose fughe all’estero di molti giovani talentuosi. Da altrettanto tempo la scuola non è più il luogo in cui si impara a rispettare le regole, cioè a sapersi muovere nel mondo e a distinguersi positivamente rispetto alla società «incivile». Chi lo ha preteso è stato immediatamente criminalizzato (stalinismo «soft» dei tempi moderni) ed è diventato, per certi populisti ante litteram, uno «sceriffo». Anche per questo è progressivamente scomparso il senso di appartenenza a un solido consorzio civile. Qualche piccola ma significativa conferma: è ormai del tutto normale che i ciclisti, tra cui molti anziani, sfreccino sui marciapiedi stretti delle nostre città perfino davanti a vigili generosamente consenzienti. Così come è normale vedere i giardini, le strade, le chiese, i mezzi pubblici devastati da persone che neanche si pongono il problema di dover rendere conto a qualcuno delle loro «trasgressioni», anche perché spesso neanche i responsabili dell’ordine e del decoro pubblico si preoccupano d’intervenire. 
Ma, ancora a titolo di esempio, da tempo non è augurabile a nessuno dover condividere un ristorante con famiglie che abbiano dei bambini al seguito o dover vivere il vero e proprio martirio di abitare in una strada segnata dalla movida.
Insomma, la scuola non è altro che uno degli elementi (anche se il più importante) della nostra società e segue naturalmente il destino di tutti gli altri. Da sola non potrà risollevarsi se non si mirerà innanzitutto a sconfiggere nell’intera società chi ha pensato che si dovesse addirittura proibire di proibire, ignaro naturalmente, tra le tantissime altre cose, di quello che, a tale proposito, anche lo stesso Leopardi pensava. E cioè che «lo stato sì reo, come il selvaggio,/ estimar natural non è da saggio».

Valerio Vagnoli
"Corriere Fiorentino", 9 settembre 2018

martedì 7 agosto 2018

L’ARTE SÌ, MA CON REGOLE. Firenze, gli studenti, i turisti

Se è forse impossibile cambiare la modalità «mordi e fuggi» con cui ogni anno milioni di turisti da ogni parte del mondo vengono a visitare Firenze e i suoi musei, qualcosa almeno si può fare, in primo luogo per i nostri studenti, i turisti del domani. A volte li vediamo, in particolare i più grandicelli, trascinare svogliatamente le gambe, a testa bassa o intenti a scherzare tra di loro per rendere meno noioso il vagabondare del gruppo. E quando gli studenti, siano essi bambini delle primarie o giovani delle superiori, girano spersi, a frotte, per musei e monumenti cittadini, non possiamo non cogliere quanto sia intenso il senso di avvilimento che essi ci trasmettono. In molti casi gli insegnanti si rivolgono a pochi ragazzi che stanno loro intorno, quelli che salvano, per così dire, il valore culturale della gita e del lavoro dei docenti. Certo non è sempre così. Rispetto al passato, a Firenze e nelle altre città d’arte, sembra di notare una maggiore partecipazione e consapevolezza da parte dei visitatori, che siano turisti oppure scolaresche, e anche una maggior capacità didattica da parte delle guide, ma nell’insieme il «quadro» non è proprio edificante.
Tuttavia il compito di cambiare le cose più in profondità spetta innanzitutto alle scuole, a partire da quelle per l’infanzia, che dovrebbero ovunque investire in maniera convinta e culturalmente efficace anche sull’educazione all’arte. Non è utile che si portino gli studenti a incontrare capolavori della pittura e della scultura senza un’adeguata preparazione. Per fortuna nessun luogo del nostro Paese è privo di chiese, palazzi, centri storici, tabernacoli e musei che quasi sempre restano sconosciuti anche a chi ogni giorno ci passa davanti e che, oltre a meritare una maggiore attenzione in sé, possono funzionare come «laboratori didattici» da utilizzare per familiarizzarsi con le opere d’arte e anche per valorizzare finalmente i cosiddetti musei minori. In questo modo i grandi capolavori del passato saranno poi alla portata dei ragazzi, specialmente se si riesce a evitare che nella loro testa il bello della «gita» non consista in nottate caotiche, magari correndo gravi rischi. E lasciamo a certi «pedagogisti» l’idea che tutto è utile per accrescere l’esperienza, certificando così come la mancanza di ricondurre i saperi ai loro specifici ambiti di appartenenza ci faccia sempre più scivolare nella putrefazione della mediocrità. 
Anche per questo è necessario far visitare ai ragazzi una città e ancor più un museo mettendoli davanti a poche opere, perché niente è più inefficace dell’affastellamento delle conoscenze. Sarebbe perciò importante pensare a biglietti speciali per le scolaresche, limitati a due o tre sale e con tempi misurati. E sarebbe altrettanto importante intervenire per governare i flussi anche degli altri visitatori, per esempio attraverso l’obbligo delle prenotazioni, aperture programmate dei musei a più alta affluenza alternando studenti, residenti e turisti. E ai residenti, come a tutti gli studenti, potremmo lasciare la gratuità o forti sconti. Un numero di ingressi controllato permetterebbe a molti turisti, anziché di buttare via il tempo in code lunghissime e spesso turbate da episodi di microcriminalità, di misurarsi con percorsi alternativi che permetterebbero loro di portarsi addosso, per tutta la vita, la soddisfazione di aver scoperto capolavori inaspettati. Certi provvedimenti avrebbero contro molti interessi. Ma la politica, come la scuola, se non è lungimirante non può che fallire.
Valerio Vagnoli
“Corriere Fiorentino”, 7 agosto 2018