Sulla didattica a distanza l’Anp ha
pubblicato un documento in cui auspica che la valutazione sia solo formativa.
Una ricetta astratta e illusoria.
I dati
diffusi dall’Istat il 6 aprile ci dicono che la didattica a distanza non ha raggiunto il 33,8% delle famiglie, quelle che non
hanno in casa né un computer né un tablet. La percentuale si alza nel Sud al 41,6%. Se si considera che probabilmente in molte di queste famiglie i
figli in età scolare sono più di uno, si deve ritenere che la percentuale degli
studenti che non hanno usufruito della Dad sia ancora più elevata.
Non
essendo affatto da escludere che a settembre non ci siano ancora le condizioni
per un ritorno in classe, questa situazione può essere migliorata solo a
partire da un’indagine molto approfondita del ministero, scuola per scuola,
sull’attività di questi mesi: numero delle classi e degli allievi collegati,
carenze tecnologiche, modalità con cui gli insegnanti hanno realizzato la Dad e
relative ricadute didattiche.
Fin da
ora però c’è già chi si mostra entusiasta di questa esperienza, non perché
abbia gli elementi per valutarne positivamente i risultati, ma perché nella Dad
vede la possibilità di affermare una lungamente auspicata rivoluzione didattica, soprattutto riguardo alla valutazione. Fra questi l’Associazione
nazionale presidi, che ne scrive in un documento pubblicato sul proprio sito
web (La posizione dell’ANP sulla didattica a distanza e sulla relativa
valutazione degli apprendimenti).
La tesi è
che, risultando sostanzialmente impraticabili le modalità di valutazione della
didattica in presenza, gli insegnanti saranno in qualche modo costretti a
prendere le distanze dalle pratiche definite “sanzionatorie” che la
caratterizzano e a mettere al centro del proprio lavoro esclusivamente la
“valutazione formativa”.
Nell’auspicare
una rivoluzione pedagogica, si è evidentemente sentita la necessità di
screditare l’idea di valutazione che gli estensori del documento ritengono
vigente nella scuola italiana, anche a costo di forzature concettuali e
linguistiche. Da questo punto di vista il documento della Anp non lascia
margini di dubbio: “dovremmo tutti impegnarci – a prescindere dall’emergenza –
affinché la scuola (…) sia percepita come ambiente di apprendimento e non come
luogo del giudizio”; si criticano “gli strumenti valutativi tradizionali
(compiti in classe e interrogazioni orali) definiti “di tipo non oggettivo” e i
“criteri non oggettivi e di tipo impressionistico (sic)”; “si preferisce di
gran lunga sanzionare gli errori (ciò che l’alunno non sa) invece di
valorizzare gli aspetti positivi (quello che l’alunno sa o sa fare)”; e ancora:
“Questa situazione è insoddisfacente perché la valutazione è caratterizzata da
soggettività e autoreferenzialità”.
Sembra
quindi chiaro che per l’Anp la valutazione nella scuola debba essere
esclusivamente formativa e mai cristallizzarsi in un voto,
orientandosi “verso una vera valorizzazione dello studente come persona comunque competente”
(corsivo nostro). Il probabile traguardo implicito in questi ragionamenti
(esplicitato invece da documenti di altre associazioni) è l’abolizione del voto
e delle bocciature.
Sembrano
dunque trovare nuovo vigore dall’attuale emergenza ricette come questa che
circolano da molti anni e che promettono la definitiva affermazione di una
scuola in cui le possibilità di costituire un vero “ascensore sociale” si
allontaneranno ulteriormente fino a scomparire. Il documento dell’Anp nega di
fatto, nelle indicazioni che dà ai suoi associati, l’importanza della
certificazione degli effettivi livelli di apprendimento degli studenti, secondo
una visione pedagogica che ritiene centrale la figura dello studente nella
prassi didattica e quindi considera prioritario il diritto dei giovani alla
piena inclusione scolastica e al successo formativo: “la valutazione non deve
essere altro che uno strumento di
rilevazione del progresso di apprendimento inteso come maturazione personale.
Non è essa
stessa dunque la finalità del sistema”.
Si tratta
di ricette astratte e illusorie che prescindono del tutto da due princìpi
fondamentali sia dal punto di vista educativo che didattico: il principio di
realtà e il principio di responsabilità. Così come molti genitori nei confronti
dei propri figli, si pensa che compito degli insegnanti sia proteggere gli
allievi da qualsiasi frustrazione o delusione, anziché aiutarli a confrontarsi
con i limiti che tutti abbiamo e a imparare dagli inevitabili insuccessi, con
il risultato di crescere delle persone disarmate di fronte alle difficoltà
della vita o degli eterni narcisi sempre in credito col mondo. Dice Kipling nella
poesia “If”: “Se sei capace di incontrare il Trionfo e il Disastro e trattare
questi due impostori esattamente nello stesso modo […..] tua è la terra e tutto
ciò che contiene, e – che è molto di più – sarai un Uomo, figlio mio!”.
Impossibile
poi trovare nel documento un qualsiasi accenno alla necessità che uno studente
faccia la sua parte nel rapporto didattico con il personale impegno nel lavoro
in classe e nello studio, anche in quelle discipline che gli risultano più
ostiche. Ferma restando ovviamente la primaria responsabilità della scuola e
degli insegnanti nel creare le migliori condizioni possibili per
l’apprendimento.
Si può
dire insomma che manca del tutto in questo documento – ed è la regola da molti
anni in tante riflessioni sulla scuola – l’idea che educare i figli serve a
introdurli in un ambiente sociale. Per dirla con Hannah Arendt, i genitori “con
l’educazione si assumono la responsabilità nei due ambiti, a livello
dell’esistenza e della crescita del bambino e a livello della continuazione del
mondo”.
In altre
parole, l’educazione, oggi identificata con le esigenze del singolo nuovo
individuo, serve anche a tutelare il mondo in cui viviamo. A questo scopo
libertà e responsabilità devono essere inscindibili nella pratica educativa.
Spesso si parla di legalità, di rispetto dell’ambiente o della donna; ma solo
un costante allenamento all’incontro con i limiti, al rispetto delle regole e
degli altri può far sì che i piccoli umani, naturalmente egocentrici, diventino
adulti maturi.
La
didattica dovrebbe quindi riflettere l’uguale importanza dell’interesse
dell’allievo a sviluppare i suoi talenti e quello della collettività ad
accogliere nuovi cittadini preparati e responsabili. Di qui la necessità di
certificare gli effettivi livelli di apprendimento e anche l’acquisizione di un
comportamento corretto, cioè consapevole dei propri diritti e doveri.
C’è
bisogno quindi sia della valutazione “sommativa”, sia di una valutazione
formativa che rilevi i progressi e incoraggi gli studenti, ma indichi anche
errori e comportamenti sbagliati. Si dovrebbe cioè affiancare al “codice
materno”, quello della cura e della protezione (prevalente nei primi anni di
scuola), dosi crescenti di “codice paterno”. Che significa parlare
all’occasione con franchezza di preparazione inadeguata o di comportamento
scorretto, essere meno disponibili ad “abbassare gli ostacoli”, aiutare
l’allievo ad assumersi le sue responsabilità, a capire quando adattarsi alle
situazioni e quando farsi valere.
L’insegnante
deve saper diventare, in poche parole, un rappresentante della realtà di fronte
ai propri allievi.
Andrea
Ragazzini
(“ilSussidiario.net”, 21 aprile 2020)