mercoledì 3 aprile 2024

RAGAZZI STRANIERI A SCUOLA: NON BASTANO LE PERCENTUALI PER LA LORO INTEGRAZIONE

Un tetto del 20%? O del 30%? No al 40% o, peggio, a percentuali superiori… In questi termini, la discussione sui limiti alla presenza degli allievi stranieri è da Paese del pressappoco. Non ci vuole Einstein, come per la spesa in un certo supermercato, per capire che non dovrebbe essere impostata soltanto secondo criteri quantitativi, ma soprattutto in base a quelli qualitativi largamente usati per le certificazioni linguistiche europee. In altre parole, un 30% che se la cava con la nostra lingua non è la stessa cosa del 30% che non la conosce affatto o in cui c’è chi la sa bene e chi no. Il Quadro di riferimento europeo per le lingue straniere prevede tre livelli di competenza: elementare (A), intermedio (B) e avanzato (C), ciascuno suddiviso nei sottolivelli 1 e 2. Per ogni livello è stata individuato un repertorio di descrittori riguardanti la comprensione e la produzione. Il primo passo, quindi, deve consistere nell’accertare in modo accurato la conoscenza della nostra lingua. Il tema delle percentuali non può essere posto in chiave ideologica, ma in stretto rapporto alle considerazioni di cui sopra. Alle quali però si deve aggiungere che la presenza di un gran numero di stranieri con grosse difficoltà nella nostra lingua tende a favorire i rapporti fra di loro e a limitare inevitabilmente l’interazione con gli italiani, preziosa anche come esercizio.

Dopo avere impostato correttamente la composizione delle classi, resta il problema dei metodi con cui assicurare l’integrazione linguistica. In Europa prevale di gran lunga un salutare pragmatismo: si fa quello che è più utile a seconda dei casi. Di conseguenza, si dispone di una molteplicità di modelli all’interno dello stesso sistema scolastico. C’è quasi ovunque il sostegno all’interno della classe e quello – per alcune ore – al di fuori della classe, ma nell’orario delle lezioni. C’è il modello separato, cioè l’insegnamento intensivo della lingua del paese ospitante, che può essere di qualche mese, ma può arrivare anche a un anno, se necessario. In tutti e due i casi in genere si fa il possibile, per mantenere il contatto con la classe e favorire la socializzazione nelle materie in cui la lingua è meno indispensabile (per esempio le attività motorie o sportive e l’educazione artistica). C’è infine il modello dell’insegnamento pomeridiano della lingua.

Negli ultimi vent’anni anche in Italia si sono fatti alcuni passi avanti in direzione di una maggiore articolazione metodologica, ma per quanto riguarda il metodo “separato” (i suddetti periodi più o meno lunghi di apprendimento intensivo dell’italiano prima di entrare a pieno titolo in classe), è ancora forte, soprattutto a sinistra, il riflesso ideologico che fa parlare di “discriminazione” e di “ghetti”. Nel 2008 e di nuovo nel 2013 la Lega Nord propose classi “ponte” o “di inserimento”, analoghe a quelli che esistevano in una ventina di stati europei per allievi che non conoscevano l’italiano, funzionali all’ingresso nelle classi permanenti. Apriti cielo. La Cgil disse che si trattava “di una norma discriminatoria che ci riporta indietro nel tempo alle ‘classi differenziali’ degli anni '50, ma è anche un atto ‘razzista’ nei confronti dei bambini”. Bonanni della Cisl aggiunse: “Arriveremo alle scuole per i maschi e per le femmine, per i biondi e per i mori, per il Sud e per il Nord.” E così via su questo tenore.

A leggere i giornali, nell’ultimo mese il ministro Valditara ha fatto due proposte diverse. Prima ha parlato di lasciare alla valutazione delle scuole, dopo aver verificato le competenze linguistiche dei ragazzi immigrati, la scelta fra tre possibilità: l’inserimento tout court in classe per chi ha una buona conoscenza dell’italiano; se invece ci sono carenze molto accentuate si può pensare a due soluzioni alternative: il ragazzo straniero viene inserito in una determinata classe, però le lezioni di italiano e magari quelle di matematica le segue in una classe “di accompagnamento” con docenti specializzati; e infine la “didattica potenziata dell’italiano”. Sembra di capire che su quest’ultima Valditara sia tornato in questi giorni, parlando di attività obbligatorie di potenziamento linguistico nel pomeriggio. Staremo a vedere, sperando che il confronto in materia non sia a base di anatemi, ma di serie riflessioni. 

Giorgio Ragazzini      (“Pensalibero”, 3 aprile 2024)

mercoledì 6 marzo 2024

TUTTI IN CERCHIO, UN CONFRONTO TRA PARI PER EDUCARE LA LIBERTÀ


 di Giorgio Ragazzini, ilSussidiario.net, 5 marzo 2024

 “Professore, quando si rifà il cerchio?”. I miei allievi delle medie si riferivano al metodo del cerchio o “tempo del cerchio” (traduzione dell’inglese circle time), che fu inventato dallo psicologo Thomas Gordon come mezzo di educazione socio-affettiva e di risoluzione dei conflitti. Quali che siano gli argomenti trattati, è anche un’ottima palestra di dialogo corretto ed efficace. Una palestra preziosa, considerando che la democrazia è “il metodo di governo attraverso la discussione”, come ci ricorda Amartya Sen, e che gli esempi negativi sul modo di confrontarsi sono molto più frequenti di quelli a cui ispirarsi: ci si interrompe, si urla, si usa senza ritegno l’argomento cosiddetto ad hominem, quello che mira a squalificare l’interlocutore invece di argomentare contro le sue tesi.

Come funziona questo metodo? I membri del gruppo si siedono in cerchio e prima di cominciare si impegnano a osservare alcune regole:

– rispettare il turno di parola, non interrompere, non parlare mentre parlano gli altri;

– non giudicare quello che dicono i compagni, né svalutarlo in alcun modo (per esempio ridendo o facendo dei gesti);

– dopo l’incontro, non riferire ad altri quanto è stato detto dai compagni, in modo da facilitare, con la garanzia della riservatezza, l’espressione di sé.

Il conduttore ha soprattutto il compito di facilitare la comunicazione tra i partecipanti, incoraggiando a intervenire i più timidi e facendo in modo che la discussione si mantenga nell’ambito stabilito.

Come insegnante ho utilizzato ogni tanto il metodo del cerchio per affrontare problemi relazionali tra compagni di classe (scherzi ripetuti, incomprensioni, offese) o per approfondire argomenti importanti per i ragazzi. In una terza, per esempio, in vista del possibile acquisto del motorino, lo adottammo per parlare del “rischio accettabile”, cioè ridotto consapevolmente al minimo (ne tratta ampiamente un libro di Daniele Biondo che si intitola appunto Educazione stradale e rischio accettabile). In questa occasione furono le ragazze ad assumere un ruolo quasi “genitoriale”, rivolgendosi ai compagni con osservazioni sui comportamenti rischiosi. Osservazioni che, non venendo da un adulto, sembravano risultare più accettabili dai maschi, notoriamente attratti, a quell’età, dalla velocità e dalla spericolatezza.

Il metodo si può adottare anche quando si tratta di decidere a quale scuola superiore iscriversi, soprattutto nella fase in cui, dopo aver avuto sufficienti informazioni e acquistato una certa consapevolezza delle proprie attitudini e dei propri interessi, restano a volte da sciogliere le difficoltà e i blocchi di carattere affettivo (la paura di sbagliare, di perdere le amicizie, di deludere i genitori); tutte cose che spesso hanno un’importanza decisiva nelle scelte, soprattutto in quelle che si rivelano sbagliate. A volte a questa età quello che dicono i familiari e anche gli insegnanti non sempre viene preso in grande considerazione, mentre le stesse cose, dette dai compagni, vengono accettate più facilmente.

Il confronto guidato con i pari può essere molto produttivo. Molto utile si è rivelato decidere di ricorrere, previo aggiornamento della seduta, all’esperienza di fratelli, sorelle e amici che già frequentavano le superiori. È stato il caso di Gianna, tormentata dall’indecisione tra il liceo scientifico – che preferiva – e il liceo classico, scelto dalla sua migliore amica. Il risultato della consultazione di cui sopra fu che le amicizie veramente importanti rimangono e che se ne fanno di nuove altrettanto belle. Fu così che nel primo pomeriggio ricevetti questo messaggio dalla mamma di Gianna: “È tornata a casa raggiante e ha esclamato: Ho deciso, vado allo scientifico!”.

Infine, un esempio che viene dalla primaria. A una collega che si accingeva a insegnare come si salta con la corda, i maschi risposero compatti che non volevano farlo perché era “una cosa da femmine”. Dopo avere invitato gli alunni a sedersi in cerchio, la maestra si mise a interrogarli su quali sport conoscevano, fino a che (la faccio breve) fu citato il pugilato. Allora chiese se si trattava o no di uno sport adatto ai maschi, ottenendo un corale “Siiiii!”. Fu a questo punto che rivelò agli stupefatti alunni che per i pugili è fondamentale allenarsi ogni giorno nel salto con la corda, sia sul posto che in movimento per migliorare la coordinazione e la rapidità dei movimenti. In un attimo, i renitenti diventarono appassionati praticanti di questo attrezzo, gareggiando tra di loro in resistenza e velocità.

mercoledì 31 gennaio 2024

LA SCOPERTA DI FRANZL: PERCHÉ UNA REGOLA È GIUSTA?

Giorgio Ragazzini, ilSussidiario.net, 31 gennaio 2024

In uno dei suoi intelligenti e spiritosi libretti, Di bene in peggio (Istruzioni per un successo catastrofico), lo psicologo e psicoterapeuta Paul Watzlawick ci racconta la piccola ma istruttiva esperienza del tredicenne austriaco Franzl Wokurka. Il quale, passeggiando in un parco, arrivò davanti a una grande aiuola piena di fiori, dove un cartello diceva: È vietato calpestare le aiuole. I trasgressori saranno puniti a norma di legge. Questo riattivò in lui un tipo di dilemma in cui si era imbattuto altre volte: rifiutare quell’imposizione “autoritaria” passeggiando sull’aiuola, col rischio di essere multato, o conformarsi al divieto per poi sentirsi un vigliacco?

«Si soffermò a lungo, indeciso sul da farsi, finché inaspettatamente – giacché non gli era mai capitato di fermarsi a osservare i fiori – gli venne un’idea completamente diversa: I fiori sono meravigliosi!»

Franzl si era reso conto della possibilità di un’alternativa al conflitto sottomissione-ribellione.  Divieto o non divieto, era lui a volere che l’aiuola restasse com’era, lui a voler proteggere la sua bellezza, lui a prescriversi il comportamento conseguente.

Come sappiamo, obblighi e divieti hanno patito una larghissima impopolarità – non sempre immeritata – negli anni della “contestazione giovanile”, o perché visti, in una prospettiva rivoluzionaria, come strumenti di adeguamento ai valori delle classi dominanti, o perché oggetto di una ribellione libertaria a un’educazione e a una morale vissute come oppressive. Gli apporti positivi di quella stagione all’evoluzione del costume sono indubbi. Ma lo sono anche i suoi effetti negativi sull’educazione, sulla scuola e sull’atteggiamento di molte istituzioni, i cui rappresentanti hanno in genere perso la convinzione e la determinazione necessarie a far rispettare le regole che garantiscono la convivenza civile.

Nonostante questo handicap culturale, l’apologo di Watzlawick offre agli educatori un punto di partenza per riflettere sulla cosiddetta “interiorizzazione” delle regole, cioè il farle proprie dopo averle rispettate, diciamo così, “per amore o per forza”. Franzl ci arriva per una sorta di improvvisa illuminazione; nella realtà si tratta di una conquista graduale, spesso non priva di regressioni. I genitori sono chiamati a esercitare la virtù della fermezza (quella che nella tradizione cristiana si chiama “fortezza”), che è radicata nella consapevolezza di perseguire il bene educativo dei figli e conferisce credibilità ai loro no e alle loro richieste. Col tempo si creano le condizioni perché in famiglia e a scuola si possano far riflettere figli e allievi sulle ragioni che rendono giusta una regola. E di fronte alle ribellioni dell’adolescenza si può in genere contare sulla cosiddetta “obbedienza ritardata” di cui parla Konrad Lorenz, quando non pochi figli finiscono per interiorizzare in buona parte i valori della generazione precedente, magari con gli aggiornamenti che una nuova epoca ha ritenuto necessari. 

Dopo un percorso educativo sostanzialmente riuscito ci si allacciano le cinture di sicurezza perché (o soprattutto perché) si pensa che sia una misura ragionevole, più che per paura delle multe; e si coopera con convinzione alla raccolta differenziata dei rifiuti, pur sapendo che difficilmente saremmo scoperti in caso contrario. Si può anche arrivare a livelli di assoluta eccellenza, come una mia amica che in Sicilia, una volta salita su un autobus, si rese conto di non avere il biglietto e per di più non era previsto l’acquisto dal guidatore. Allora gli si rivolse impegnandosi a comprarlo appena scesa. E così fece, dopo di che lo strappò.


martedì 9 gennaio 2024

SE DUE LICEI OCCUPATI DAI “BARBARI” COSTANO (A TUTTI NOI) 821MILA EURO

 

Pochi giorni prima di Natale due istituti superiori di Firenze, il Machiavelli-Capponi e il Dante-Alberti sono stati occupati dalle solite minoranze di studenti, tanto volitive quanto confuse negli obbiettivi. Più che di occupazioni, però, sarebbe il caso di parlare di invasioni barbariche, dato che gli occupanti (o almeno una parte di essi) hanno commesso una serie di vandalismi, che il “Corriere Fiorentino” ha così documentato:

“L’elenco è lungo: telefoni rotti, arredi spaccate e tinti con vernice indelebile, wi-fi rotti e divelti dal muro, diversi computer rubati, vetri rotti, porte divelte, meccanismi delle porte di sicurezza danneggiati, porte tagliafuoco che riportano scritte con vernice indelebile che non le rendono più ignifughe, due distributori di bevande e merendine forzati per rubare contenuto e soldi, scarabocchi e scritte ingiuriose dovunque, la sparizione di molte chiavi che renderanno necessaria la sostituzione delle serrature. In una scuola poi si sono trovati escrementi disseminati in vari luoghi che hanno reso necessaria la disinfestazione di tutto l’istituto che è costata 3.500 euro e due giorni di chiusura».

Secondo una prima stima, i danni ammonterebbero a 20.000 euro. È bene però far notare una conseguenza in genere ignorata, cioè che il danno economico creato dalla cancellazione delle lezioni è, in questo come in tutti i casi analoghi, enormemente più alto. L’Associazione Nazionale Presidi (ANP) fece tempo fa un calcolo partendo da quanto lo Stato spende ogni anno per ogni studente: almeno 8.000 euro, cioè circa 40 euro al giorno. Dato che il liceo Machiavelli-Capponi ha 1500 allievi e l’interruzione delle lezioni è durata 7 giorni, dobbiamo moltiplicare 1500 x 40 e poi x 7, cioè di 420.000 euro per la loro istruzione buttati dalla finestra. Per il liceo Dante-Alberti, che ha 1060 allievi, lo stesso calcolo, considerando due giorni in più di sospensione della didattica, indica uno spreco di 381.600 euro. Aggiungendo i 20.000 euro di danni, il totale speso dai contribuenti per finanziare le due occupazioni ammonta a 821.600 euro. A questo si aggiunge il danno causato al diritto allo studio dei molti che non volevano l’occupazione. E si può anche capire che a quell’età sia difficile opporsi con determinazione, un po’ per timore, un po’ perché una vacanza a molti non dispiace troppo, infine per scarsa consapevolezza dei costi di cui sopra. C’è infine l’ennesimo discredito (questo non addebitabile agli studenti) inferto alla credibilità delle istituzioni dalla loro latitanza, dato che regolarmente omettono di far accompagnare cortesemente all’uscita chi occupa le scuole.

Giorgio Ragazzini

“ilSussidiario.net”, 9 gennaio 2024