(Pubblicato sulla rivista Il
governo delle idee, settembre-ottobre 2017)
Nel febbraio scorso la lettera aperta di oltre seicento
docenti universitari che denunciava le carenze in italiano dei loro studenti
suscitò consensi, ma anche reazioni negative solo in minima parte attente a
quello che effettivamente diceva il testo. Fra i critici, soprattutto i linguisti
sembrarono vivere l’iniziativa come un’invasione di campo – benché fossero
numerosi i loro colleghi tra i firmatari, di cui otto accademici della Crusca –
e alcuni chiesero su quali dati scientifici si basasse quell’allarme; quasi che
le numerose notizie di stampa succedutesi negli anni precedenti sul
semi-analfabetismo di molte matricole non fossero un motivo sufficiente per
porre il problema; e come se il numero stesso dei sottoscrittori non fosse di
per sé una prova di quanto grave sia la situazione. Altri, inforcando gli
occhiali dell’ideologia, parlarono di nostalgia della scuola classista del
passato, un’accusa basata soltanto sulla richiesta di regolari verifiche degli
apprendimenti linguistici, comprendenti tra l’altro dettato, analisi
grammaticale e chiarezza della scrittura corsiva (anche ultimamente rivalutata
in quanto utile allo sviluppo cognitivo). Altri ancora, scambiando l’appello
per un manifesto didattico, denunciarono l’assenza di questa o quella metodologia.
Molti infine vi hanno visto un puro e semplice atto di accusa contro la scuola
primaria, solo perché si sottolinea che
al termine della scuola media dovrebbe essere raggiunta una sufficiente
padronanza della lingua – come del resto prescrivono le indicazioni nazionali.
Il che non implica affatto che non si debba continuare a lavorare anche in
seguito sulle competenze linguistiche.
In realtà, se si legge la lettera
“dei 600” sine ira et studio,
dovrebbe saltare agli occhi che l’obbiettivo di carattere generale è la
necessità di “una scuola davvero esigente
nel controllo degli apprendimenti oltre che più efficace nella didattica”;
che quello più specifico che riguarda l’italiano è “il raggiungimento, al termine del primo ciclo, di un sufficiente
possesso degli strumenti linguistici di base da parte della grande maggioranza
degli studenti; e che la strada da percorrere in concreto dovrebbe prevedere
anche “l’introduzione
di verifiche nazionali periodiche durante gli otto anni del primo ciclo”. A differenza di quanto si fa con i test Invalsi, che si
propongono (o pretendono) di valutare competenze complesse, si tratterebbe di
accertare solo conoscenze e abilità assolutamente imprescindibili a un certo
livello del percorso scolastico. D’altra parte, se le stesse indicazioni
nazionali per l’italiano stabiliscono
alcuni traguardi “ineludibili” e “prescrittivi” già per la fine della
scuola primaria, tra cui quello di saper scrivere “testi corretti nell’ortografia, chiari e
coerenti”, cosa c’è di più logico e anzi
doveroso di una verifica? E il carattere “nazionale” di queste verifiche, che
sarebbero cioè le stesse – a ciascun livello – per tutte le scuole italiane, è
indispensabile se si vogliono confrontare e valutare i risultati degli sforzi fatti
per migliorare la situazione. Inoltre costituiscono un incentivo per un
maggiore impegno di tutti.
Eppure è proprio qui che casca l’asino. La scuola italiana
manifesta da decenni una palese insofferenza per la cultura del controllo
(serio) dei risultati. Di qui l’abolizione degli esami nella scuola elementare
(ce n’erano due) e al termine del biennio ginnasiale; di qui la ripetuta
semplificazione di quelli che rimangono solo perché prescritti dalla Costituzione;
di qui non di rado la vera e propria falsificazione delle valutazioni negli
scrutini di fine anno all’ombra del “voto di consiglio”, in cui miracolosamente
i quattro si trasformano in sei in barba a quanto risulta dai registri. Eppure
una scuola rigorosa (che alla fine può bocciare di meno perché sollecita di più
l’impegno degli studenti) è nell’interesse prima di tutto dei ragazzi che partono
svantaggiati dal contesto familiare.
C’è poi da aggiungere, a proposito di valutazione dei
risultati, la latitanza del ministero rispetto a una minoranza di docenti, la
cui grave inadeguatezza sul piano delle capacità o della correttezza
professionale può continuare per anni a rovinare indisturbata intere classi
oltre che il prestigio della categoria.
Infine, sulla diffusa pratica del copiare durante gli scritti
degli esami di Stato, moltiplicatasi con l’avvento di internet, le istituzioni
tacciono ostinatamente. Mai si è sentito un ammonimento da parte del ministro
di turno, mai si è provveduto a serie forme di prevenzione nonostante le
ripetute campagne del Gruppo di Firenze e dell’Associazione Nazionale Presidi;
e mai naturalmente si è saputo di provvedimenti disciplinari a carico di quei
colleghi che ritengono giusto “aiutare” i candidati non solo chiudendo un
occhio o due, ma a volte fornendo loro stessi traduzioni e soluzioni di
problemi.
Potremmo continuare, ma il contesto è ormai chiaro: il paese
dei condoni edilizi e fiscali è anche quello dei condoni scolastici e
educativi, in cui merito e responsabilità vengono di regola snobbati o
penalizzati, benché in realtà assicurino (anche se con crescente fatica) la
tenuta complessiva del sistema, scolastico o sociale che sia.
Ecco quindi perché non stupisce che la proposta centrale
dell’appello sulla crisi dell’italiano, quella delle verifiche periodiche, non
sia stata accolta – almeno per il momento – dal governo della scuola. Va
naturalmente riconosciuta la cortesia istituzionale che ha spinto la ministra
Fedeli a ricevere i promotori dell’iniziativa, dedicando loro un incontro non
frettoloso. Facendo però capire che si stanno battendo altre strade per
affrontare il problema, peraltro in vario modo ridimensionato dai dirigenti
ministeriali presenti*. Non sarà quindi facile vincere le resistenze alla
cultura della verifica, ma neppure far dimenticare una denuncia che ha messo il
dito in una piaga aperta della scuola italiana.
Giorgio Ragazzini
* Successivamente alla pubblicazione di questo articolo sul "Governo delle idee", la Ministra ha chiesto al noto linguista Luca Serianni di presiedere una commissione incaricata di studiare il problema posto dai docenti universitari. Si dovrebbe occupare, a quanto ha detto Valeria Fedeli, di rivedere le indicazioni nazionali del primo ciclo di studi, che, secondo un'altra proposta contenuta nell'appello, dovrebbero essere rese più essenziali. Ma non risulta che si intenda andare anche verso un sistema strutturato di verifiche nazionali dei risultati.