("L'Occidentale.it", 3 luglio 2008)
Tornati da appena un anno a un minimo di serietà, gli esami di Stato sono di nuovo sotto attacco in quanto anacronistici, farraginosi e onerosi per le pubbliche finanze. Tutto è iniziato con la denuncia allarmata degli svarioni ministeriali in alcune prove scritte; poi l’onorevole Aprea, che presiede la commissione Cultura a Montecitorio, ha dichiarato che vorrebbe ridurre l’esame a tre prove scritte, due formulate dai docenti delle scuole e una nazionale, che certifichi le cosiddette competenze essenziali. E ha aggiunto di essere personalmente per la soppressione del valore legale del titolo di studio.
Con ancora più forza in questa direzione si muove la proposta di Diesse, l’associazione dei docenti cattolici di Comunione e Liberazione, che chiede l’abolizione dell’esame in nome dell’autonomia delle singole scuole e della libertà dalla presenza occhiuta ed oppressiva dello Stato, e ribadisce appunto l’obbiettivo di abolire il valore legale del titolo di studio.
Tralasciamo in questa sede l’esame di quest’ultima proposta, che per la sua complessità merita una trattazione specifica. Basterà solo sottolineare che non è affatto chiaro come “una sana concorrenzialità”, come si legge nel documento, scaturisca automaticamente da questo eventuale provvedimento. È vero che eliminerebbe i diplomifici, ma quale interesse avrebbero oggi le scuole ad essere rigorose, quindi anche selettive? La concorrenza, più probabilmente, si attiverebbe per attirare i clienti con proposte tanto accattivanti quanto irrilevanti sul piano culturale.
Detto questo, sorprende che da parte di esponenti politici ed associazioni culturali che hanno in questi anni chiesto il ritorno a serietà e rigore nelle scuole si proponga di fatto una deregulation che affiderebbe all’autorefenzialità dei docenti di ogni istituto il compito di giudicare i propri studenti, con il contentino di una prova nazionale, di fatto secondaria rispetto alle prove fatte in casa. Eppure la reintroduzione di una componente esterna nelle commissioni esaminatrici (il presidente più la metà dei commissari) aveva avuto un largo consenso non più di un anno e mezzo fa e costituisce di per sé una forma di valutazione e di controllo sul lavoro delle singole scuole.
Sempre nell’ottica di un serio accertamento della preparazione degli studenti, non si capisce la ragione di ridurre l’esame alle prove scritte, con l’eliminazione di quella orale, quando invece le capacità dell’allievo emergono spesso in maniera più trasparente al momento del confronto con la commissione. E i futuri docenti fanno due anni di specializzazione post lauream per imparare a “dialogare” con lo studente e a valutarlo in base alla sua capacità di esprimersi, di ragionare, di far propria la materia.
Infine nella proposta di Diesse (che ha sempre sottolineato l’importanza dell’educazione accanto a quella dell’istruzione) si ironizza sulle notte bianche dei candidati prima dell’esame, insomma sull’esame come trauma che ritorna come sogno angoscioso negli anni successivi. Al contrario, una ragione importante per mantenere, con le necessarie correzioni, il modello attuale è il suo aspetto formativo, il suo essere rito di passaggio dall’adolescenza al mondo degli adulti e alle relative responsabilità, una funzione che il bel nome di “esame di maturità”, scioccamente abolito dalla smania nuovista, sottolineava efficacemente. E non possiamo certo delegare tale funzione all’esame per la patente.
Quanto all’esaltazione un po’ acritica dell’autonomia scolastica, e non solo da parte dei docenti di Diesse, basterebbe constatare, per indurre a un po’ di prudenza, quello che ha prodotto finora: quali dirigenti ha forgiato; quanto affidabile sia la valutazione dei “livelli di apprendimento”, spesso condizionata dal buonismo imperante nei decenni scorsi; quale profluvio di inutili e costosi progetti ne sia scaturito...
Infine l’esperienza ci ammonisce a non disfarsi alla leggera delle nostre specificità e tradizioni. Ogni volta che ci abbiamo rinunciato per abbracciare riforme scolastiche di tipo anglosassone, siamo andati, anziché incontro alla modernità, verso il più totale disorientamento. Per fare un solo esempio, il tentativo dissennato di imporre alla scuola italiana la didattica per obbiettivi (di origine americana) ha provocato fra gli insegnanti una disaffezione di massa verso il loro lavoro e quindi un danno incalcolabile per la qualità dell’istruzione.
Insomma, non ci sono ricette miracolistiche e, se la macchina si inceppa, non sembra una buona idea portarla a rottamare invece di ripararla. Il Ministro Gelmini ha promesso che non perseguirà, come in passato è stato fatto, “una palingenesi del sistema educativo”, aggiungendo che “abbiamo bisogno di buona amministrazione e buon governo, di semplificazione e di chiarezza”. Questa prudenza e questo realismo sono molto apprezzabili a fronte della sicumera con cui vengono avanzate in questo periodo le più svariate parole d’ordine, spesso brandite come la spada di Alessandro a tagliare il nodo di Gordio; e dovrebbero ispirare anche eventuali, costruttivi interventi di modifica dell’esame di Stato.
*Gruppo di Firenze
per la scuola del merito
e della responsabilità
giovedì 3 luglio 2008
QUALE RIFORMA PER L'ESAME DI MATURITÀ? di Sergio Casprini*
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