(La Repubblica - 21.7.2008)
Vi è qualcosa di desolante nelle geremiadi, nelle patetiche deplorazioni, nei tanti «ben altro è il problema» che si sono levati da alcuni ambienti del pedagogismo di sinistra, per nulla consapevoli delle responsabilità che portano per lo stato disastroso in cui si trova la scuola italiana. E invece di domandarsi perché è esploso in questi anni un bullismo incontrollato, perché il grado di apprendimento, misurato secondo parametri internazionale, veda lo scivolamento verso il basso dei nostri ragazzi, perché questi si presentino spesso all’università digiuni delle più elementari cognizioni di sintassi e persino di ortografia, ebbene costoro seguitano a vantare le loro dissennatezze, dal 3+2 allo Statuto dei diritti degli studenti, che abolì la validità del 7 in condotta e praticamente la disciplina scolastica. Si arrivò così al massimo di caricatura della lotta di classe (una cosa che avrebbe fatto orrore al partito di Palmiro Togliatti e di Concetto Marchesi) immaginandosi l’istituto scolastico non il luogo deputato a realizzare un servizio pubblico dove i nostri figli, giustamente ancora privi di diritti politici e sindacali, sono chiamati a formarsi in un quadro di norme eguali per tutti e regolate da una disciplina che assicuri il buon funzionamento del rapporto docente-discente e della normale convivenza fra gli alunni; non questo, quindi, ma a somiglianza delle fabbriche, il luogo di una dialettica contrapposizione dove il legislatore era chiamato ad intervenire con uno Statuto che, come nelle aziende dove vige lo sfruttamento, difendesse la parte più debole (gli studenti) dalla prevaricazione padronale, impersonata dagli insegnanti. Così, come l’idiozia di destra aveva portato qualche anno innanzi (primo governo Berlusconi) all’abolizione degli esami di riparazione e al “diritto” di trascinarsi i “debiti” fino alla licenza liceale, così il primo centro sinistra abrogò la valenza del 7 in condotta, le espulsioni o altre punizioni giudicate eccessive. Così come, giustamente, nelle fabbriche non si poteva licenziare, altrettanto con una estensione assurda della stessa logica, nella scuola non si poteva più bocciare né punire. L’indispensabile autorità dell’insegnante ne uscì vanificata. Si salvarono solo i pochi dotati di un proprio, particolare, carisma ma non potevano fare la regola. E neanche lo potevano quei pochi istituti particolarmente qualificati o certe oasi fortunata in qualche regione, specie del Nord. Il permissivismo teorizzato portò, invece, con se altre degenerazioni nella «costituzione materiale» della scuola: le inutili okkupazioni annue in nome dell’autogestione, il diritto alle assenze, le interrogazioni predeterminate a data fissa, le contestazioni, spalleggiate dalle famiglie, dei voti di insufficienza, magari con ricorso al Tar. La derubricazione del voto di condotta, incentivò e allargò le frange bulliste, intimorì e ridicolizzò la maggioranza normale degli alunni. L’offesa e l’aggressione verso l’altro, verso il diverso, verso l’insegnante, verso edifici e suppellettili scolastiche rientrò nei “diritti” acquisiti e, comunque, nei comportamenti non punibili, meno che mai con una bocciatura, Solo una forma patologica di atarassia culturale può spiegare che di fronte a un minimo di recupero del buon senso pedagogico si parli di ritorno «dell’incubo del 7 in condotta», di «regressione verso il passato» o di «restaurazione autoritaria». È pur vero che quando negli anni scorsi sollevai le stesse tematiche un ministro di sinistra dell’epoca, illustre cattedratico, mi tacciò di nostalgie fasciste, ma io non me ne dolsi più che tanto. Mi confortò l’appoggio di tanti insegnanti, come di molti studenti seri E soprattutto, durante l’ultimo governo Prodi, l’operato del duo Fioroni- Bastico alla Pubblica Istruzione che avevano rovesciato l’andazzo precedente, bloccato il trascinamento dei debiti, dato un primo avvìo al loro recupero, epurato lo Statuto delle sue norme assolutorie. Con ciò dimostrando che la stupidità pedagogica non è un obbligo morale per la sinistra. Il 7 in condotta non è un incubo ma soltanto un segno visibile di confine. Può contribuire al recupero fra i giovani del concetto, in gran parte annebbiato, di «limite». Oltre il quale si apre la trasgressione, più o meno grave, che comporta una sanzione. È decisivo sapere che non c’è assoluzione in partenza. Questo è il senso della presa di posizione di Maria Angela Gelmini, un ministro che sta dimostrando gran buon senso (vedi anche il ritorno all’egualitario grembiule) C’è solo da augurarsi che non si arresti alle interviste ma le traduca in legge.
martedì 22 luglio 2008
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