Il sito ilsussidiario.net ospita una lunga intervista a Luigi Berlinguer, che ultimamente si fa sentire con frequenza, soprattutto da quando ha letto la lettera ai partiti di Pirani, Israel, Ferroni, Belardelli, Givone, Sartori, Veca, Schiavone e diversi altri intitolata Scuola: un partito trasversale del merito e della responsabilità. Sulle reazioni a questo documento e alle ragioni con cui alcuni dei firmatari hanno motivato la loro adesione si legga poco sotto l’intervento del professor Giorgio Israel.
Per parte mia mi limito a commentare due passaggi dell’intervista, per altro cruciali. Il primo riguarda i possibili sviluppi di carriera professionale dei docenti.
D. Entrambi i programmi parlano di carriera per gli insegnanti basata sul merito: ma come si attua concretamente, e con quali criteri, una carriera per gli insegnanti? Allo stato attuale è ancora una cosa tutta da inventare…
R. Prima una battuta: dov’erano tutti i signori che ne parlano quando io ci ho provato senza il sostegno necessario per introdurre una novità così radicale? Io mi sono sentito un po’ solo; ho commesso qualche errore, ma avevo ragioni da vendere. Venendo alla questione in sé: non si può essere insegnanti allo stesso modo i primi due o tre anni di lavoro e gli ultimi cinque dieci anni di lavoro, perché anche l’esperienza didattica fa parte dell’arricchimento professionale. Non piace la parola carriera? A me sì. A chi non piace, si parli di una crescita professionale degli insegnanti verificata e riconosciuta, sia nella successiva funzione da svolgere, sia nello stipendio. Questo avviene in tutte le professioni e non capisco perché non debba avvenire nel mondo dell’insegnamento. Dove si fonda la presunzione sbagliata di chi è contrario alla carriera? Nell’idea che esista una sola funzione di insegnante, quella “ex cathedra”. Ma la scuola moderna, la comunità educante, prevede anche diverse figure: dal coordinatore di un dipartimento disciplinare dentro la scuola (per esempio il dipartimento di scienze), a colui che si occupa prevalentemente di discipline più teoriche, a tutta l’attività che si intreccia tra pratica e teoria e quindi alle forme organizzate di una scuola fatta di équipe e non solo di singoli. Quindi mi sembra molto importante che si preveda questo sviluppo professionale riconosciuto.
Sembra proprio che l’ex ministro si sia dimenticato di quello che aveva deciso nel 1999: cento quiz e una prova pratica per selezionare una quota prestabilita – il 20% – di docenti da pagare di più (circa trecentomila lire al mese). Il merito sarebbe entrato nella scuola attraverso un’avvilente lotteria (come la definì Riccardo Chiaberge sul “Corriere della Sera”) e per di più questa fascia di “eccellenza” avrebbe continuato a fare lo stesso lavoro di prima. Oggi, molto più sensatamente, ma con il torto di far finta che anche allora la proposta fosse questa, Berlinguer prospetta la necessità di dotare le scuole di figure professionali a cui affidare ruoli ormai indispensabili quali (traduco dal contorto berlinguerese) il coordinamento della ricerca didattica, l’aggiornamento, la progettazione curricolare (dove necessaria), il sostegno ai nuovi docenti. La valorizzazione di questi e altri talenti professionali connessi, ma non identici, all’insegnamento, fa indubbiamente parte dei problemi all’ordine del giorno; e avviene, si può dire, in ogni altro ambiente professionale. Anche se la priorità delle priorità (purtroppo sgradita alla delicata sensibilità italica e acuita dalla pluridecennale cura sindacal-corporativa) sarebbe quella di eliminare le “mele marce” (chi si comporta male) e quelle che non ce la fanno essere mele (i pur rari casi di totale inettitudine).
Andando un po’ avanti nell’intervista, Berlinguer ci offre un chiarissimo esempio di come i grandi voli della “nuova” metodologia, a cui dovrebbe piegarsi la scuola italiana, atterrino miserevolmente e un po’ comicamente sul terreno della concretezza:
D. Ritiene cioè necessario far in modo che l’autonomia porti a un cambiamento delle tecniche di insegnamento?
R: Le rispondo con un esempio: se un viaggiatore dell’Ottocento girasse per una città italiana, non riconoscerebbe quasi nulla, né del modo dei trasporti urbani, né dell’urbanistica, né del tipo di traffico, né persino ormai della consistenza urbana: non riconoscerebbe niente, se non una piccola parte del centro storico. Quando entrasse in una classe troverebbe la classe di quando lui era bambino, di quando vi avevano studiato i propri figli: la cattedra, il banco, le mura. Anche le discipline sono le stesse, e poi l’alternarsi di seconda ora, terza ora, quarta ora, la ricreazione e poi lo sciamare alla fine delle lezioni: identico. Non c’è niente che sia rimasto fisso e identico come a scuola. Oggi le necessità e le forme dell’apprendimento sono completamente cambiate. La comunità educante deve invece darsi la propria forma organizzata nuova. Ad esempio, in certe occasioni si riuniscono dieci ragazzini a parlare in inglese tra di loro o a fare un esperimento in laboratorio; in un altro momento si riuniscono invece trenta ragazzini, per una lezione di storia. Significa un organizzarsi in cui i docenti, il collegio, il preside dettano le regole e diventano centrali. La centralità del docente è nell’autonomia intesa come ricerca didattica; è questa la vera rivoluzione.
Aggiungo soltanto, ripromettendomi di dedicare un intero intervento alla questione, che da trent’anni ad oggi la “centralità” e l’autonomia dei docenti sono state concepite, dall’alleanza tra pedagogisti e sindacati, come mero adeguamento a un’indiscussa verità calata dall’alto ad opera delle varie “agenzie” abilitate e dalle facoltà di scienze dell’educazione. In altre parole: per gli scolari, “l’autoapprendimento”; per i professionisti della formazione, l’imbonimento.
(L'intervista completa a Berlinguer si può leggere al seguente indirizzo: http://www.ilsussidiario.net/articolo.aspx?articolo=1422 )
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