«Meglio una testa ben fatta che una testa piena». Questo è uno dei tanti slogan di coloro che propugnano la sostituzione della “scuola delle conoscenze” con la “scuola delle competenze”, il primato delle metodologie didattiche sui contenuti dell’insegnamento, il passaggio dal “sapere” al “saper fare”. Tralasciamo qui l’imbarazzante questione di chi si arroga il diritto di stabilire come sia una “testa ben fatta” (presupponendo che tale sia la sua) e ha la presunzione di “fare” quella degli altri su questo modello: è un modo di vedere che evoca un’inveterata propensione totalitaria di stile sovietico a “rifare gli uomini” su basi ideologiche, qui rappresentate dalle ideologie didattiche. Concentriamoci piuttosto sulla visione soggiacente della conoscenza e della scienza. È una visione che ispira anche il documento prodotto dalla commissione per la cultura scientifica e tecnologica presieduta dall’ex-ministro Luigi Berlinguer, che ha proposto come panacea per la crisi attuale la sostituzione di un apprendimento «scolastico, cartaceo, nozionistico e deduttivistico» – si noti l’attribuzione di una valenza negativa al termine “scolastico” – con un approccio sperimentale, pratico, «laboratoriale». È una proposta basata su una visione riduttiva, se non banalmente sbagliata della scienza. Come ha osservato il matematico Enrico Giusti, in una pungente e dettagliata critica del documento (Notiziario di ottobre 2007 dell’Unione Matematica Italiana) «il laboratorio non è la scienza, meno che mai tutta la scienza» e «appiattirsi su un’immagine unidimensionale della scienza porta a un impoverimento altrettanto se non più grave di quello lamentato». Non è fuggire nell’astrazione ricordare l’idea su cui si è costruito il successo della scienza moderna. Essa è stata così descritta dal grande storico della scienza Alexandre Koyré: «È curioso: Pitagora aveva proclamato che il numero è l’essenza stessa delle cose, e la Bibbia aveva insegnato che Dio aveva fondato il mondo sopra “il numero, il peso, la misura”. Tutti l’hanno ripetuto, nessuno l’ha creduto. Per lo meno, nessuno fino a Galileo l’ha preso sul serio. Nessuno ha mai tentato di determinare questi numeri, questi pesi, queste misure. Nessuno si è provato a contare, pesare, misurare. O più esattamente, nessuno ha mai cercato di superare l’uso pratico del numero, del peso, della misura nell’imprecisione della vita quotidiana – contare i mesi e le bestie, misurare le distanze e i campi, pesare l’oro e il grano – per farne un elemento del sapere preciso». Koyré spiegava che il padre della scienza moderna non è Bacone – che proponeva la semplice registrazione e classificazione dei fatti – bensì Galileo e la sua visione matematica del mondo. Può sembrare paradossale che un grande sperimentatore come Galileo definisse la sua scienza “matematica purissima”. Egli seguiva il principio che la raccolta indistinta di fatti non porta da nessuna parte e che le scoperte si fanno seguendo principi concettuali. Il cannocchiale di Galileo non è un marchingegno come le macchine medioevali con cui si strappavano segreti alla natura, ma un oggetto concettuale, un’applicazione delle leggi dell’ottica e, in quanto tale, replicabile in modo uniforme.Il successo della scienza occidentale e la possibilità stessa della tecnologia sta qui: in una relazione tra teoria e pratica in cui la scienza teorica ha un ruolo primario. La grande scienza – dalla meccanica di Newton alla relatività di Einstein alla progettazione del computer digitale – è soprattutto deduttiva. È un modello che gli Stati Uniti hanno ereditato dall’Europa e sviluppato. La chiave del successo di questo modello sta nei finanziamenti a fondo apparentemente perduto di ricerche di cui non si vedono le applicazioni immediate.Sembra che ciò sia stato dimenticato da chi propone ostinatamente un modello di insegnamento basato sulle “pratiche”, sul “laboratorio”, sulla preminenza del “saper fare” sul “conoscere” e va contro il principio che ha decretato il successo storico della scienza e della cultura occidentali, nonché la loro globalizzazione, per cui oggi sono altri a impossessarsi di quel modello mentre noi lo abbandoniamo. È un principio che non implica alcuna contrapposizione tra “sapere” e “saper fare” e anzi porta alle forme più efficaci e trasmissibili del “saper fare”. Se lo abbandonassimo torneremmo alla scienza pratica dei babilonesi o degli antichi egizi, a un mondo del pressappoco più arretrato di quello della civiltà greca la quale, se non teneva in gran conto le pratiche, esaltava le conoscenze. Mentre qui rischiamo di perdere con le seconde anche le prime.Ma v’è un altro aspetto cruciale: la centralità della conoscenza attribuisce un ruolo decisivo alla “cultura generale” come terreno di formazione di individui autonomi e capaci. Perché mai la scuola di Giovanni Gentile, malgrado l’impostazione idealistica e la scarsa attenzione per la scienza, non ha impedito che l’Italia sia rimasta a lungo un paese che sfornava scienziati di primo piano e giovani studiosi che primeggiavano all’estero? Anzi, era risaputo che i diplomati dei licei classici riuscivano meglio in materie scientifiche di quelli provenienti dai licei scientifici. Ciò è accaduto perché la riforma Gentile ha creato una scuola capace di formare uomini dotati di “cultura generale”, ovvero di quelle solide basi che permettono di orientarsi in ogni situazione e anche di essere buoni cittadini, assai meglio di quanto facciano gli attuali miserandi corsi di Convivenza Civile. Certo, oggi occorre adeguare la scuola alla società contemporanea e attribuire ben altro ruolo alla cultura scientifica. Ma se ci accingeremo a questo compito buttando alle ortiche la conoscenza a profitto di “pratiche” prive di basi concettuali – e per giunta con la diabolica presunzione di voler “rifare le teste” non importa se vuote (anzi meglio se lo sono perché così sono più controllabili) – prepareremo con certezza la nostra decadenza culturale, scientifica e tecnologica. La controprova è data dal caso francese, che pure soffre di difficoltà analoghe alle nostre: una delle poche cose che ancora funzionano in Francia è la Classe préparatoire alle “grandi scuole” tecniche che fornisce alle future élites una preparazione ad alto livello basata sulla cultura generale. Accadrà anche di peggio se insisteremo nel voler trasferire alla scuola una logica aziendalistica che non le è propria (per giunta gestita dai sindacati): difatti, ciò che rende efficiente l’istruzione è la qualità delle conoscenze trasmesse e il rapporto interpersonale tra insegnanti e allievi e non quelle tecniche organizzative che funzionano benissimo nelle aziende, e che invece nella scuola rischiano di produrre vuoto metodologismo, decadenza culturale e crollo dei principi etici.
(Messaggero, domenica 6 aprile 2008)
mercoledì 9 aprile 2008
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