("Liberal" 3 aprile 2008, p.12)
Nella lettera aperta ai partiti presentata a Roma giovedì scorso, alcuni notissimi studiosi e commentatori chiedevano di ancorare saldamente la politica dell’istruzione e la vita delle scuole a due criteri fondamentali: merito e responsabilità. Nei molti commenti e resoconti è rimasto un po’ in ombra il secondo elemento del binomio, che invece costituisce una chiave altrettanto essenziale per leggere la realtà della nostra scuola e della società.
La responsabilità consiste nel dover render conto dei nostri comportamenti e delle loro conseguenze. Questo può comportare una sanzione o un rimprovero, il chiedere scusa, la riparazione di un danno. Assumersi la responsabilità di un errore richiede un certo grado di maturità, ma insieme la crea e la fortifica.
Purtroppo un simile comportamento non è la regola nel nostro paese. È forse più frequente che gli adulti insegnino, anche solo con l’esempio, a “farsi furbo” o a scaricarsi la coscienza invocando il “così fan tutti”. Chi poi ha compiti di controllo o di sorveglianza in qualche settore, soprattutto nella pubblica amministrazione, sa benissimo che se svolge sul serio il suo compito, rifiutandosi di lasciar perdere o far finta di non vedere i comportamenti scorretti, spesso si affatica e si logora senza costrutto e a volte con proprio danno (leggi parcella dell’avvocato), tanto numerose sono le cavillose tutele di cui può farsi scudo il demerito.
Per costruire il senso di responsabilità negli allievi, come del resto nei figli, non è sufficiente enunciare delle regole, benché sia ovviamente necessario. È essenziale farle rispettare. Con perseveranza e con coerenza. E senza escludere a priori provvedimenti disciplinari. È questa la più efficace “educazione alla legalità”. Altrimenti non si mette in moto un’autentica dinamica educativa, perché ben presto un bambino capisce che le regole sono solo parole.
E si educa alla responsabilità anche non “regalando” sufficienze o promozioni immeritate, specie se le carenze dipendono dalla pigrizia più che da reali difficoltà. Non pochi colleghi invece, anche seriamente dediti al loro lavoro, non dubitano (in buona fede) di godere in sede di scrutinio di una discrezionalità quasi assoluta, che consente di trasformare in sufficienza anche un quattro, purché venga addotta una qualche pseudomotivazione di tipo psicologico o sociale. Il risultato è che molti studenti pensano giustamente che sia inutile studiare regolarmente tutte le materie; anzi, due o tre si possono anche trascurare del tutto, tanto la promozione è assicurata.
Il fatto è che per “assumersi” responsabilità come quelle di educare e di valutare è necessaria una virtù poco di moda, di cui si era quasi perso anche il nome fino a tempi recenti: la fermezza. La capacità, cioè, di prendere e mantenere decisioni giuste sul piano educativo, anche se emotivamente costose (come spiega un libro utilissimo, Non ho paura a dirti di no, di Osvaldo Poli). Dico sul piano educativo perché di questo parliamo; ma potrei dire sul piano politico o sociale, come la cronaca insegna ogni giorno.
La fermezza è invece indispensabile per dare ai giovani dei chiari punti di riferimento e la sicurezza di una guida; e non è affatto alternativa al “dialogo” e alla “comprensione” che molti gli contrappongono, ma ne è anzi la precondizione: nel caos notoriamente non si dialoga.
Essendo però l’esatto contrario del “chi me lo fa fare”, la fermezza non è facile. Si deve far fronte alle nostre umane fragilità emotive (i ragazzi mi odieranno? subiranno un trauma? sarò meno popolare della collega di musica?), ma anche alla pressione dei dogmi messi in giro dalla pedagogia permissiva, di cui per fortuna si cominciano a valutare – anche se in ritardo – gli enormi danni.
Sul lato della “condotta” l’interdetto è stato violentissimo. La parola stessa e altre come “disciplina”, “punizione”, “autorità”, sono state per decenni innominabili, perché considerate inscindibili da un’educazione autoritaria. In molte scuole si è potuto per anni farne di cotte e di crude, rischiando al massimo un bonario predicozzo. Pende poi sulle valutazioni finali il severo monito “la bocciatura è sempre un fallimento della scuola”, che implicitamente azzera ogni responsabilità dell’alunno. Se questo non bastasse, si devono fare i conti col timore dei sempre più frequenti ricorsi dei genitori. Un vero killer della fermezza, poi, è la paura che l’allievo bocciato “commetta qualche sciocchezza”. E, per dare il colpo di grazia ai docenti, non c’è niente di più efficace di una lettera dello psicologo che consigli “di non interrompere il processo di maturazione in atto”. Si sa del resto che la colpevolizzazione dei docenti, dal sessantotto in poi, ha raggiunto livelli inimmaginabili, tanto da renderli spesso confusi e incapaci di farsi rispettare. Sdoganare la fermezza come qualità insostituibile nella preparazione di ogni educatore è quindi urgente, per dare seguito all’inversione di tendenza inaugurata dal ministro uscente. Ma, come si è chiesto Mario Pirani lunedì scorso, “supererà le elezioni il coraggioso tentativo di riportare la serietà, il merito e l’eguaglianza nelle scuole italiane?”. Eppure anche le graduatorie internazionali dei sistemi scolastici sembrano confermare che una scuola più rigorosa sostiene i giovani nel loro impegno molto più efficacemente della scuola dell’ “accoglienza”. I paesi orientali infatti, dove la scuola, severissima, è ancora circondata da rispetto e prestigio e vista come mezzo di ascesa sociale, sono tutti nei primissimi posti. E sarebbe forse utile inserire, nelle analisi dei risultati, il “fattore serietà”, che finora non mi risulta essere stato preso in considerazione. Senza il quale, è bene ripeterlo, ogni riforma della scuola non può che costruire sulla sabbia.
giovedì 3 aprile 2008
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento