Solo in una minoranza di Stati europei la scuola secondaria finisce a 18 anni. Qual è il vero motivo della sperimentazione italiana?
di
Giorgio Ragazzini (da “ilSussidiario.net”, 13 maggio 2024)
Fra le cose che per il senso comune sono ardue da
comprendere c’è senz’altro l’idea di togliere un anno alla durata delle scuole superiori in modo da farne uscire i ragazzi
a 18 anni; e di sperimentarne
l’applicazione in un certo numero di
scuole. Questo,
si sostiene, con il vantaggio di arrivare un anno prima all’università o sul
mercato del lavoro, così da competere alla pari con i coetanei continentali. E
si aggiunge: “allineandosi alla maggioranza dei Paesi europei” (Famiglia
Cristiana), “in linea con gli altri Paesi europei” (Corriere della Sera),
e persino “come avviene nel resto del mondo” (Avvenire). Eppure con gli
attuali cinque anni non si riesce a dare a molti studenti una preparazione
soddisfacente, a cominciare da quella in italiano. Toglierne uno sembra proprio
il classico paradosso.
Ma davvero in Europa gli studi finiscono a 18 anni?
L’Unione Europea si è dotata dal 1980 di una rete istituzionale, chiamata
Eurydice, per la raccolta, l’analisi e la diffusione di dati sui sistemi
educativi. Ogni anno scolastico produce un rapporto che aggiorna la situazione.
Mi sono servito di quello del 2022-23 per capire come stanno effettivamente le
cose. E la risposta che mi sono potuto dare alla domanda di poche righe sopra è
un “no” molto netto: su 33 Stati di cui vengono forniti i dati (vedi tabella),
negli istituti di tipo liceale solo in 11 Stati gli studi finiscono a 18 anni,
negli altri 22 Stati a 19 anni. Nei corsi tecnico-professionali il divario è ancora più
netto: 7 “diciottisti” contro 27 “diciannovisti” (il totale di 34 dipende dal
fatto che in Austria alcuni finiscono a 18, altri a 19). Dato che la lettura
dei grafici del rapporto Eurydice è resa complessa dalle differenze di struttura
dei sistemi scolastici, potrebbero esserci alcuni errori nella sintesi della
tabella; è molto improbabile, però, che cambino sostanzialmente il risultato.
Dunque non si può motivare questa innovazione con il “così fan tutti”.
Veniamo
all’ingresso nel mercato del lavoro. Per cominciare, la grandissima maggioranza
dei diplomati e dei laureati non competerà in Europa, ma in Italia. Ma
soprattutto sarebbe strano che qualsiasi datore di lavoro qualificato guardasse
all’età (un anno meno di altri candidati) e non alla preparazione. Allora come
mai nel 2017 (c’era la ministra Fedeli) si è voluta varare questa
sperimentazione? C’è chi ha pensato che tutto si ridurrebbe all’evidente
risparmio. Il ministero respinse con sdegno questa motivazione; e d’altra parte
si andrebbe incontro a una forte opposizione dei sindacati, dato che dal taglio
dei posti di lavoro verrebbero ostacolate le future immissioni in ruolo ope
legis dei precari, della cui costante riproduzione purtroppo non si
vede ancora la fine.
È
possibile che la risposta stia nei criteri da rispettare per aderire alla sperimentazione, che in gran parte non sono
legati ai problemi pratici creati dall’abbreviazione del secondo ciclo.
Infatti, per chiedere di partecipare, le scuole “dovranno distinguersi per un
elevato livello di innovazione, in particolare per quanto riguarda
l’articolazione e la rimodulazione dei piani di studio, per l’utilizzo delle
tecnologie e delle attività laboratoriali nella didattica, per l’uso della
metodologia CLIL (lo studio di una disciplina in una lingua straniera), per i
processi di continuità e orientamento con la scuola secondaria di primo grado,
il mondo del lavoro, gli ordini professionali, l’università e i percorsi
terziari non accademici”.
Si
tratta di un compendio quasi completo di quello che l’apparato ministeriale e i
suoi pedagogisti di riferimento hanno sostenuto con vigore da molto tempo come
rimedi alle gravi difficoltà della nostra scuola (illudendosi che lo si possa
fare senza esigere dagli allievi impegno e senso di responsabilità e
continuando ad abbassare “l’asticella” fin quasi al livello del terreno). Mi
pare quindi fondata l’impressione che questa sperimentazione serva a fare un
primo passo per poi estendere a tutta la scuola il suddetto “elevato livello di
innovazione”. Vediamo per esempio cosa ne dice, significativamente, il
pedagogista Dario Ianes, che si è dichiarato favorevole, ma a certe condizioni:
“Deve essere riformato profondamente il curricolo, bisogna rottamare e
‘bruciare’ le cattedre e proporre una didattica diversa. Gli istituti
superiori, e soprattutto i licei, sono ancora troppo legati a una didattica
frontale. La scuola dovrebbe proporre più problemi, laboratori, progetti su
temi reali. Toglierei le cattedre anche fisicamente: secondo me l’insegnante
che arriva in classe, si siede e posa la sua borsa con il libro di testo e i
suoi appunti sulla cattedra è la premessa per una scuola superata”.
Di fatto l’obiettivo principale dell’uscita da scuola a 18 anni, motivato più che altro dall’affermazione che sarebbe “in linea con il resto d’Europa”, ha messo in ombra una sperimentazione didattica intensiva che invece, con il risalto che avrebbe avuto se fosse stata il suo unico scopo, poteva verosimilmente provocare reazioni ancor più negative. Così facendo, anche se alla fine l’accorciamento di un anno delle superiori non desse buoni risultati o suscitasse troppe resistenze per generalizzarlo, si sarà almeno avuto la possibilità di mettere alla prova le “innovazioni”. Vedremo con quali risultati. Da valutare – si spera – spassionatamente.
1 commento:
Al netto della malafede dell'esecutivo la riduzione dei corsi di scuola secondaria a quattro anni ha un giustificativo più che comprensibile.
Lo stato che occupa la penisola italiana rappresenta l'unica realtà associata al mondo in cui padroneggiare con sufficiente efficienza il congiuntivo espone ad aggressioni anche fisiche da parte di qualche chavette diplomata alla scuola della vita. Come mai la popolazione generale si sia ridotta in queste condizioni non è dato saperlo, chissà se c'entra quella endogamia avallata anche dalla venerabile tradizione del "mogli e buoi dei paesi tuoi" o se è solo colpa di troppi maccheroni c'a' pummarola 'n coppa.
Al legislatore non resta che prenderne atto e agire razionalmente, tenuto conto delle finanze pubbliche.
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