A commento dell’articolata relazione del governatore Draghi dell’altro ieri in Banca d’Italia, Dario di Vico firma sul Corriere d’ieri 1 giugno, con la chiarezza che gli è solita e che condivide con pochi altri tra coloro che si occupano di economia (di sicuro con Marcello de Cecco di Repubblica), un bell’articolo dal titolo I giovani “vittime della crisi” e quel gap nei mestieri artigiani.
Di Vico riprende un tema caro allo stesso Governatore e più volte da questi analizzato durante le sue annuali relazioni. Quello, cioè, di una scuola che è andata verso una sorta di licealizzazione di massa a discapito della formazione tecnica e professionale specialistica, che potrebbe collocare un numero altissimo di giovani in vasti settori dell’economia e del lavoro decisamente sguarniti. Lo scimmiottamento della piccola borghesia che ha accompagnato culturalmente e socialmente gran parte della storia - diciamo così antropologico-sociale del ‘900 - è di là da finire. Su questi temi hanno scritto pagine indimenticabili (ma cosa leggono i pedagogisti “progressisti?”) intellettuali tra i più eccelsi della nostra storia recente, come Luisa Mangoni, Alberto Asor Rosa, Pier Paolo Pasolini, Mario Isnenghi, Giulio Ferroni, Gaetano Salvemini; ma evidentemente siamo ancora al punto di partenza. Vale a dire che siamo ancora ad una visione piramidale della cultura; e si preferisce, da parte di molti addetti ai lavori, non spendere una parola per mettere in guardia recenti famiglie benestanti alla ricerca di una laurea “familiare” (spesso inutile, da attaccare alla parete e destinata a rovinare letteralmente la vita di migliaia e migliaia di giovani destinati al precariato a vita) piuttosto che riconoscere, che al pari di quella liceale, vi possono essere un’ istruzione e una formazione professionali in grado di elevare la dignità dell’uomo al pari di quella liceale e, a differenza di quest’ultima, di garantire un’occupazione, premessa indispensabile per diventar sul serio cittadini responsabili e critici.
Scrive di Vico: "Va dunque completata la riforma del mercato del lavoro, come ha sostenuto Draghi, ma forse è maturo il tempo per aprire una riflessione su quello che per amor di semplicità potremmo definire ‘rivalutazione del lavoro manuale’. C’è un evidente disallineamento tra i percorsi formativi che seguono i nostri studenti e le occasioni che fornisce il mondo del lavoro. Nel primo caso siamo davanti a una licealizzazione spinta, dall’altra a una richiesta da parte dell’industria e dell’artigianato di tecnici. Nei mesi scorsi l’Unione Industriali di Treviso era ricorsa addirittura alla pubblicità sui bus per stimolare le iscrizioni agli istituti tecnici... Successivamente le associazioni che si occupano di mestieri d’arte avevano denunciato la difficoltà a trovare sostituti per i maestri in età da pensione”.
Di Vico prosegue la sua analisi formulando anche delle precise proposte, che coincidono peraltro con quanto il Gruppo di Firenze aveva voluto far emergere attraverso il Convegno del 5 dicembre scorso su Obbligo scolastico e formazione professionale. La prima di queste proposte, la più importante e forse la sola che può davvero avviare una trasformazione radicale della mentalità della gran parte delle famiglie e dei ragazzi, è di carattere culturale. È davvero necessaria ”... una battaglia culturale che sradichi l’idea, presente in molte famiglie, che un lavoro manuale sia in ogni caso da evitare. I dati che vengono dal Veneto ci dicono che in queste settimane si cominciano a iscrivere ai corsi da badante e infermiere non più solo immigrati ma anche italiani”. Insomma, ogni uomo deve essere artefice del proprio destino, senza che sia la necessità impellente, il bisogno, come si diceva un tempo, ad obbligarlo a vie d’uscita o di ripiego a cui non aveva mai pensato e che vivrà immancabilmente con senso di frustrazione. Certo, si obietterà (anzi a questo tipo di argomentazioni si obietta già da moltissimo tempo) che a quattordici-quindici anni non si è artefici di un bel niente; e che far fare a quell’età delle scelte che potrebbero essere definitive significherebbe pregiudicare la vita e i percorsi futuri dei ragazzi. Già, si ritorna ai temi cari a quella piccola borghesia novecentesca che non ha avuto mai, ripeto mai, nulla da obiettare di fronte ad un ragazzo che a quattordici o tredici anni (ah le primine, come direbbe Arbasino!) avesse scelto, come peraltro accade, di fare un percorso così definitivo e spesso senza ritorno come il liceo o d’infilarsi in qualche vivaio calcistico destinato ad assicurare un futuro di successo ad appena il tre per cento dei ragazzi che vi si inoltrano. Senza contare quei ragazzi che fin da bambini si immergono quasi completamente negli interessi musicali, nella danza, nel canto o in altre attività sportive diverse dal calcio, per i quali non si è mai gridato allo scandalo. Lo spauracchio è la formazione professionale, il lavoro manuale che, se specializzato, potrebbe senz’altro voler dire garantirsi i più elementari diritti. Ma si sa, la piccola borghesia preferisce gli immigrati al nero, costano meno e sono più ubbidienti!
Valerio Vagnoli
venerdì 4 giugno 2010
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
1 commento:
La morte degli Istituti Professionali
Posta un commento