Uno dei maggiori rischi che una democrazia possa correre è quello di
permettere che la si scimmiotti proprio in uno dei luoghi deputati a
insegnarla, come accade spesso nelle scuole superiori in occasione degli spazi
che gli studenti autogestiscono (o addirittura si prendono con le occupazioni)
per fare «le loro esperienze» di democrazia diretta. È quanto avviene da quando
il diritto alle assemblee fu legalizzato nel 1974 dai cosiddetti Decreti
delegati che sancirono la nascita della «partecipazione democratica» in diversi
ambiti, scuola compresa. E con il diritto di svolgere attivi e assemblee fu
varata la rappresentanza degli studenti e dei genitori negli stessi organi di
gestione della vita scolastica. E forse proprio con queste misure si accentuò
il lento e inesorabile declino della nostra scuola, la cui debacle, ahimé, è ormai scientificamente accertata. Furono però
sufficienti pochi anni perché l’entusiasmo partecipativo degli studenti si
spegnesse per riaccendersi ogni tanto con il riesplodere delle proteste. A
sancire l’immiserirsi delle assemblee, come scriveva ieri il presidente
dell’Anp Toscana Alessandro Artini, contribuirono negli anni le norme che
avrebbero dovuto regolarle, sempre più confuse, contraddittorie e spesso
demagogiche, al punto da consentire di parteciparvi solo al delegato del
preside e non agli altri docenti; quasi che un loro aiuto ai ragazzi
nell’organizzarle e nel gestirle minasse chissà quale autonomia. Evidentemente
per molti è ancora difficile scrollarsi di dosso il macigno della pedagogia
russoiana, dogma educativo negli anni Sessanta, con la condanna di qualsiasi
intervento dei maestri per correggere, e perciò compromettere, la spontaneità
dei bambini e dei ragazzi. Anche parecchi dei nostri esperti di educazione,
legislatori compresi, sembrano poco inclini ad aggiornarsi e a tagliare i ponti
con la loro «illusa gioventù» (V. Cardarelli). In tanto marasma normativo è
facilissimo pescare la norma che contraddica le decisioni, soprattutto in fatto
di disciplina, prese dagli organi scolastici. E ancora più facile è imbattersi
in un vizio di forma, vista l’esosa mole di decreti, contratti, circolari, atti
d’indirizzo, inviti, leggi con cui un preside dovrebbe gestire la scuola. E a
questo, cioè a un vizio di forma, si sono attaccati i genitori di alcuni
studenti del liceo Petrocchi di Pistoia per chiedere e ottenere l’annullamento
delle misure disciplinari comminate ai loro figli, mesi fa opportunamente
sanzionati perché in occasione di un’assemblea si erano resi colpevoli di gravi
episodi di bullismo.
E alla presenza di un vizio di forma, l’organo di garanzia regionale,
istituito all’interno del rispettivo Ufficio scolastico, non poteva che
annullare i provvedimenti. D’altra parte la mia personale esperienza mi porta a
credere che, se il ricorso fosse stato fatto al Tar o al Consiglio di Stato, di
sicuro un motivo per annullare le sanzioni disciplinari si sarebbe trovato
anche senza alcun vizio di forma. Non tanto per colpa dei magistrati, ma
soprattutto grazie alla fioritura di una miriade di regole spesso non chiare.
Ciò contribuisce a spingere famiglie e avvocati a cercare il cavillo per fare
ricorso, con notevoli possibilità di vincerlo. Delegittimando così
ulteriormente la funzione della scuola, oltre alla professionalità e alla dignità
dei suoi docenti. Così il trionfo di Rousseau continua insieme a quello dei
genitori che non educano i loro figli e, per dirla con Luca Ricolfi,
impediscono anche ad altri di farlo.
Valerio Vagnoli
(Editoriale del “Corriere
Fiorentino”, 8 giugno 2019)
1 commento:
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