mercoledì 20 aprile 2011

IL BAGNO DI REALTÀ IMPOSTO DALLA CRISI

"C’è un nesso tra la rivalutazione del lavoro manuale e l’uscita dalla crisi? Penso di sì e proprio per questo motivo la riapertura di una discussione pubblica sulla (mancata) propensione dei giovani a misurarsi con la manualità ha senso”. Così Dario Di Vico sul “Corriere della Sera” di ieri. Raramente è stato dato tanto spazio come in questi giorni alla riscoperta dei mestieri manuali e alla valorizzazione delle scuole tecniche e professionali, mentre perdono vertiginosamente punti i licei come trampolino per tuffarsi nel mondo del lavoro. Giornali, radio, tv si interrogano sulla concorrenza, vera o presunta (dipende dai settori) fra giovani extracomunitari e giovani “indigeni”, alquanto restii a sporcarsi le mani, magari temporaneamente, con mestieri faticosi.
Drastico Giuseppe De Rita: “Basta corsi di specializzazione, basta master, basta studiare cose inutili. Serve un grande piano nazionale per la formazione sul posto di lavoro, finanziato con soldi pubblici, per uscire dalla precarietà e per riportare i giovani anche al lavoro manuale” (“La Repubblica” del 18 aprile). Pare proprio, insomma, che la “struttura”, cioè le necessità dell’economia, si stia incaricando di mettere in crisi la “sovrastruttura”, l’ideologia del “tutti a scuola” - debitamente licealizzata - fino a 16 e magari fino a 18 anni.

GR

Leggi anche: "Il vero problema? I giovani non conoscono i vecchi mestieri"

16 commenti:

qn.quotidiano.net ha detto...

MARONI - “Non sono d’accordo con l’affermazione di Tremonti che tutti i cittadini extracomunitari in Italia lavorano. Non è così - dice Maroni a SkyTg24 - Ci sono realtà di grande integrazione, in Veneto ad esempio ma anche da lì arrivano segnali di crisi e molti perdono il lavoro. Quindi bisogna sviluppare politiche attive, come quelle che dalla legge Biagi in poi sono state inserite nell’ordinamento italiano. Collaboriamo con Sacconi proprio sul tema dell’immigrazione e dell’integrazione, è un problema serio e non ha risposte facili”.

Maroni tuttavia è contrario alle generalizzazioni di chi afferma che gli extracomunitari fanno lavori che i giovani italiani non vogliono fare: “Conosco tanti ragazzi che fanno lavori manuali anche umili perché preferiscono entrare nel mondo del lavoro piuttosto che aspettare il posto da supermanager. La realtà è complessa, non si può semplificare”.



Continua a leggere su: http://qn.quotidiano.net/politica/2011/04/17/491778-giovani_lavoro.shtml#ixzz1K2qQBVSs

Anonimo ha detto...

Lidia ha scritto...
Gentilissimi Valerio Vagnoli e gruppo di Firenze ci sono rimasta veramente male per la vostra decisione di chiudere totalmente i commenti all'articolo “Della Loggia e le generazioni perdute” proprio quando i discorsi si erano fatti molto interessante, illuminanti e proficui relativamente alla convenienza o al pericolo di passi falsi relativi a proposte di riforma concernenti all'abolizione del valore legale dei titoli.
Comunque sia, ci si può ritornare parlando in generale della formazione, relativamente, anche in questo caso, alla convenienza o meno di smantellare la scuola pubblica per sostituirla con corsi privati di dubbia efficacia ed efficienza non solo per la formazione fornita ma anche per la certificazione data.
Vorrei portare un ulteriore contributo sulla riflessione della convenienza di abolire il valore legale del titolo di studio e anche relativamente alla necessità di ritornare alla qualificazione delle scuole superiori professionali piuttosto che smantellare il sistema di formazione delle scuole professionali superiori, con due articoli da leggere con attenzione

Per la convenienza o meno dell'abolizione del titolo di studio è interessante un articolo della Tecnica della scuola dell'11 gennaio 2009, vi è il parere del Rettore dell'Università dell'Aquila Ferdinando di Orio ( preso dal sito http://www.comune.bologna.it/iperbole/coscost/No_Gelmini/valore_legale_tecnica_11gen08.htm )

Per la convenienza della riqualificazione utilizzando le attuali scuole superiori professionali, è utile andarsi a leggere tutto ciò che ha a che fare con il suo riordino.
Un esempio può essere quello contenuto nel pdf: http://www.governo.it/GovernoInforma/Dossier/riordino_tecnico_professionali/professionali.pdf

Anonimo ha detto...

Lidia ha scritto...
Riqualificando le scuole superiori professionali e non, dotandole di veri laboratori e avendo un tempo prolungato o pieno, così come avviene in tanti altri stati europei, si avranno finalmente i sarti, gli operai, i maestri vetrai, progettisti, manutentori E GRANDISSIMA PARTE DI CIO' CHE HA BISOGNO IL MONDO DEL LAVORO. Con appositi progetti di Educazione permanente la scuola in collaborazione con università e aziende potrà dare formazione ai lavoratori adulti.
Scoperta dell'acqua calda? Penso di no...
Quindi...A CHI CONVIENE INVOCARE SOLDI PUBBLICI PER FARE CORSI PRIVATI QUANDO CI SONO DI GIA' LE SCUOLE SUPERIORI PROFESSIONALI DA POTER QUALIFICARE E ATTREZZARE E ORGANIZZARE???

Giorgio Ragazzini ha detto...

Lidia, nessuno ha chiuso niente e non capisco come possa esserle venuto in mente. Se è per quel "Fine" al termine dell'ultimo commento di Vagnoli, significava solo che era l'ultima puntata. A presto.

Anonimo ha detto...

Lidia ha scritto...
ho provato diverse volte ad introdurre un commento (sia ieri che oggi) e non ci sono risuscita.

Anonimo ha detto...

'I giovani italiani rifiutano i lavori umili' La teoria (senza prove) di Tremonti
Il ministro dice che gli extracomunitari trovano impiego perché meno schizzinosi. Certezze che nessuna statistica è in grado di confermare. Intanto il titolare dell'Economia è messo sotto accusa da Giancarlo Galan e Il Giornale: "Con lui si perdono le elezioni". Ma B lo difende: "Sostengo Giulio"

La tesi ha il fascino della semplicità: se la disoccupazione giovanile è al 30 per cento, la ragione è che i giovani non accettano i lavori disponibili perché non li considerano alla loro altezza. Lo ha detto il ministro Giulio Tremonti, da Washington pochi giorni fa, dicendo che gli immigrati sono meno schizzinosi. Mariastella Gelmini gli ha fatto eco, spiegando che il governo aiuterà i ragazzi a vincere la diffidenza verso gli istituti tecnici e professionali. Su cosa si fonda tutta questa necessità di riscoprire il lavoro manuale? Su alcuni dati piegati a sostegno dello snobismo dei ragazzi. "Ma non c’è alcun numero ufficiale sul fatto che i giovani rifiutino lavori poco appaganti", spiega Michele Pasqualotto, ricercatore della società Datagiovani, specializzata in analisi del mercato del lavoro giovanile. "Tra le domande del questionari Istat, su cui si fondano tutte le analisi, non c’è n’è alcuna sui lavori rifiutati, viene soltanto chiesto che cosa sarebbero disposti a fare per lavorare" (leggi l'articolo di Stefano Feltri). Il "caso Tremonti", però, va ben oltre l'uscita infelice. Riguarda, più in generale, tutte le scelte del superministro. Considerate inopportune da membri stessi del governo e dal Giornale di Alessandro Sallusti. "Con Tremonti si perdono le elezioni ed è per questo che chiedo a Berlusconi una scossa", dice il neo ministro della Cultura Giancarlo Galan: "Perché le elezioni non le perde Tremonti da solo ma le perdiamo tutti noi". Un intervento a gamba tesa che ha costretto il premier a correre ai ripari, esprimendo sostegno al titolare del ministero di via Venti Settembre (leggi l'articolo)

http://www.ilfattoquotidiano.it/

Anonimo ha detto...

Disoccupazione: “Tutta colpa dei giovani”

Il governo, a partire dal ministro Tremonti, sostiene che i ragazzi devono riscoprire i lavori umili, ma nessun dato conferma questa tesi. Datagiovani spiega: "I questionari Istat non danno indicazioni sui lavori rifiutati"

di Stefano Feltri - 21 aprile 2011

La tesi ha il fascino della semplicità: se la disoccupazione giovanile è al 30 per cento, la ragione è che i giovani non accettano i lavori disponibili perché non li considerano alla loro altezza. Lo ha detto il ministro Giulio Tremonti, da Washington pochi giorni fa, dicendo che gli immigrati sono meno schizzinosi. Ieri il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini ha scritto una lunga lettera al Corriere della Sera spiegano che il governo aiuterà i ragazzi a “superare il pregiudizio verso l’istruzione tecnica e professionale”. Una diffidenza che “per troppo tempo ha allontano i nostri giovani da prospettive occupazionali che consentono invece una straordinaria realizzazione di sè”. La tesi non è condivisa solo dal governo, ma è stata rilanciata dal Censis di Giuseppe De Rita e da editorialisti come Dario Di Vico che, sempre sul Corriere, invitava ad arruolare “i testimonial più trendy” per spiegare il fascino del lavoro manuale. Peccato che tutte queste certezze non si fondino sui numeri. Sono atti di fede.

Non c’è alcuna indicazione sul fatto che la difficoltà di reperimento dipende dall’età, di solito deriva dalla mancanza di professionalità adeguata o di esperienza. “Non c’è alcun dato ufficiale sul fatto che i giovani rifiutino lavori poco appaganti”, spiega Michele Pasqualotto, ricercatore della società Datagiovani, specializzata in analisi del mercato del lavoro giovanile. Spiega ancora Pasqualotto: “Tra le domande del questionari Istat, su cui si fondano tutte le analisi, non c’è n’è alcuna sui lavori rifiutarti, viene soltanto chiesto che cosa sarebbero disposti a fare per lavorare”.

Su cosa si fonda, allora, tutta questa necessità di riscoprire il lavoro manuale? Su alcuni dati piegati a sostegno dello snobismo dei ragazzi. Il rapporto Unioncamere-ministero del Lavoro studia le richieste delle imprese: stando alle previsioni di assunzioni relative al 2010 (le più recenti a disposizione) e alla difficoltà di reperimento del personale ricercato, risulta che è difficilissimo trovare 2860 meccanici per autoveicoli, una rarità i montatori e riparatori di serramenti e infissi (ne mancano 1350). Questo significa che tutti i giovani devono diventare meccanici o montatori di infissi? Assolutamente no, è lo stesso rapporto Unioncamere a precisarlo. “Se si eccettua il 2009 [quando il Pil è crollato del 5 per cento], le assunzioni di laureati e diplomati programmate dalle imprese sono continuamente aumentate in termini assoluti, segnando entrambe, in ciascun anno, variazioni superiori alla media di molti punti”. E quindi tra il 2004 e il 2009 le assunzioni dei laureati sono cresciute dall’8,4 per cento all’11,9 per cento. Mentre quelli con la sola licenza dell’obbligo sono diminuiti dal 41 al 30,4 per cento. Studiare, insomma, conviene anche se meno di un tempo, come racconta il rapporto di Almalaurea (il tasso di disoccupazione a un anno dalla laurea specialistica è salito tra il 2008 e il 2009 da 16,2 a 17,7). “Inoltre il rapporto Unioncamere non specifica se la difficoltà di reperimento si traduce poi in un congruo numero di assunzioni”, spiega Pasqualotto di Datagiovani.

prima parte - segue

Anonimo ha detto...

seconda parte - seguito

Anche i numeri del Censis di Giuseppe De Rita sono una fragile base per le asserzioni del governo. Il ragionamento dell’istituto è questo: nei lavori più strettamente manuali la presenza di lavoratori under 35 è diminuita tra il 2005 e il 2010 dal 34,3 al 27,6 per cento. Negli stessi anni è però cresciuta la percentuale di lavoratori stranieri, dal 10 al 18,8 per cento. Ergo, conclude il Censis, gli stranieri hanno preso il posto dei giovani. Ma è solo una teoria, tutta da dimostrare. Che, per esempio, non tiene conto del fatto che i giovani sono i più facili da espellere dal mercato del lavoro perché quasi tutti precari (nel 2010 il 36 per cento dei nuovi assunti era giovane, mentre i contratti a tempo indeterminato sono diminuiti di un altro 15 per cento). E non considera neppure il fatto che, se gli stranieri aumentano (e hanno in prevalenza un basso tasso di istruzione) e i giovani italiani diminuiscono, una certa sostituzione è fisiologica.
Quello sul fascino del lavoro manuale resta comunque un dibattito tutto italiano. Basta scorrere il rapporto dell’Ilo, l’Organizzazione internazionale del lavoro (dell’Onu) di agosto 2010, dal titolo “Trend globali dell’occupazione per i giovani”. Non c’è alcun cenno alla necessità di spiegare che, in tempi di magra, qualunque lavoro va bene. Ma si insiste sulla necessità della formazione continua, basata su tre principi chiave: “1) Fare tutto il possibile per evitare l’abbandono scolastico 2) Promuovere la combinazione di studio e lavoro 3) Offrire a ogni giovane una seconda chance di formazione”, per recuperare chi ha lasciato gli studi troppo presto. Ma consigliare a chi è tentato dall’università di andare a bottega a imparare un mestiere, magari lavorando gratis e scomparendo dalle statistiche, è molto più semplice.

Da Il Fatto Quotidiano del 21 aprile 2011

V.P. ha detto...

Lo sviluppo secondo la destra: meno ricerca e più mestieri

Spingere i ragazzi verso i lavori manuali non risolve il problema della disoccupazione giovanile.

Per creare nuovi posti c’è solo una strada: puntare sull’innovazione. Come fanno gli altri Paesi

di Ignazio Marino – Senatore Pd

Non ho sempre pensato di fare il chirurgo. Da bambino mi affascinavano i carrettieri che sul molo di Genova trasportavano le merci su carri con ampi pianali trainati da imponenti cavalli; da ragazzo per un periodo ho pensato addirittura di fare l'orologiaio. Poi, dopo il primo trapianto di cuore eseguito da Christiaan Barnard, nel 1967, fui folgorato dalla chirurgia dei trapianti. I miei sogni e i miei dubbi di adolescente erano quelli di tantissimi giovani di oggi, ma io ho avuto una fortuna che molti non avevano: la possibilità di scegliere. Nello scenario politico senza visione di questi tempi, si sventola il vessillo del “lavoro manuale” e si scivola in dichiarazioni poco costruttive su “cattivi genitori” che spingono i figli alla laurea quando potrebbero “imparare un mestiere”. Non c’è nulla di sbagliato in questo ma deve rimanere una scelta, un progetto di vita che un giovane vuole costruire per seguire la sua passione. Temo non sia così.

È evidente che la maggioranza di destra governa ritenendo di trovarsi di fronte a cittadini poco consapevoli nella scelta dei percorsi di studio e senza interrogarsi se sia o meno un errore rinunciare ad investimenti in innovazione, ricerca e sviluppo. Questo orientamento sulle politiche educative diverrà presto un obbligo implicito, sono i numeri a dirlo: disoccupazione giovanile quasi al 30%; diminuzione delle immatricolazioni nell’anno accademico 2009/2010 (293mila a fronte delle 338mila del 2003/2004); calo di studenti che al termine delle medie secondarie decidono di proseguire gli studi. Gli investimenti in innovazione e sviluppo sono fermi da undici anni, secondo i dati Ocse, all'1,18% del Pil: fanno meglio di noi Portogallo, Repubblica Ceca, Slovenia ed Estonia. E tutto questo mentre l’amministrazione Obama parla di un nuovo “momento Sputnik” e punta su un milione di auto elettriche entro il 2015; sulla maggiore percentuale di popolazione laureata rispetto ad ogni altro Paese entro il 2020; sull’80% di energia pulita entro il 2035; e poi banda larga e internet superveloce per tutti.

Nel ragionamento del governo manca inoltre una tessera fondamentale del mosaico sociale: il gelataio, il panettiere, l'orefice, il piccolo produttore di caffè hanno operato una scelta di vita legittima e lavorano per prodotti di alta qualità, ma vivono in un mondo globalizzato.

Quale competitività mondiale potremo assicurare a questi prodotti se non avremo ad esempio, laureati in economia ed ingegneria? Di più, il ministro Gelmini è certa che in Italia non ci sia più bisogno di fisici nucleari o di ricercatori delle malattie neurodegenerative? E chi svilupperà i software delle cartelle cliniche elettroniche e la telemedicina negli ospedali ma soprattutto le nuove applicazioni informatiche sul nostro territorio? Gli italiani che fanno ricerca all’estero sono migliaia e producono ricchezza: la loro fuga, infatti, in vent’anni è costata all'Italia oltre 4 miliardi di euro (la cifra corrisponde a quanto ricavato dal deposito di 155 domande di brevetto, dei quali l’inventore principale è nella lista dei “top 20” italiani all’estero).

Io vorrei vivere in un Paese in cui una cosa non esclude l’altra, in cui non ci sia una sola via all’occupazione: non è incitando i ragazzi ad accaparrarsi gli ultimi lavori da elettricisti, gruisti e falegnami che risolveremo il problema della disoccupazione giovanile.

L’Unità – 24 aprile 2011 – pag. 30

V.P. ha detto...

Lo sviluppo secondo la destra: meno ricerca e più mestieri

Spingere i ragazzi verso i lavori manuali non risolve il problema della disoccupazione giovanile.
Per creare nuovi posti c’è solo una strada: puntare sull’innovazione. Come fanno gli altri Paesi

di Ignazio Marino – Senatore Pd

Non ho sempre pensato di fare il chirurgo. Da bambino mi affascinavano i carrettieri che sul molo di Genova trasportavano le merci su carri con ampi pianali trainati da imponenti cavalli; da ragazzo per un periodo ho pensato addirittura di fare l'orologiaio. Poi, dopo il primo trapianto di cuore eseguito da Christiaan Barnard, nel 1967, fui folgorato dalla chirurgia dei trapianti. I miei sogni e i miei dubbi di adolescente erano quelli di tantissimi giovani di oggi, ma io ho avuto una fortuna che molti non avevano: la possibilità di scegliere. Nello scenario politico senza visione di questi tempi, si sventola il vessillo del “lavoro manuale” e si scivola in dichiarazioni poco costruttive su “cattivi genitori” che spingono i figli alla laurea quando potrebbero “imparare un mestiere”. Non c’è nulla di sbagliato in questo ma deve rimanere una scelta, un progetto di vita che un giovane vuole costruire per seguire la sua passione. Temo non sia così.

È evidente che la maggioranza di destra governa ritenendo di trovarsi di fronte a cittadini poco consapevoli nella scelta dei percorsi di studio e senza interrogarsi se sia o meno un errore rinunciare ad investimenti in innovazione, ricerca e sviluppo. Questo orientamento sulle politiche educative diverrà presto un obbligo implicito, sono i numeri a dirlo: disoccupazione giovanile quasi al 30%; diminuzione delle immatricolazioni nell’anno accademico 2009/2010 (293mila a fronte delle 338mila del 2003/2004); calo di studenti che al termine delle medie secondarie decidono di proseguire gli studi. Gli investimenti in innovazione e sviluppo sono fermi da undici anni, secondo i dati Ocse, all'1,18% del Pil: fanno meglio di noi Portogallo, Repubblica Ceca, Slovenia ed Estonia. E tutto questo mentre l’amministrazione Obama parla di un nuovo “momento Sputnik” e punta su un milione di auto elettriche entro il 2015; sulla maggiore percentuale di popolazione laureata rispetto ad ogni altro Paese entro il 2020; sull’80% di energia pulita entro il 2035; e poi banda larga e internet superveloce per tutti.

Nel ragionamento del governo manca inoltre una tessera fondamentale del mosaico sociale: il gelataio, il panettiere, l'orefice, il piccolo produttore di caffè hanno operato una scelta di vita legittima e lavorano per prodotti di alta qualità, ma vivono in un mondo globalizzato.

Quale competitività mondiale potremo assicurare a questi prodotti se non avremo ad esempio, laureati in economia ed ingegneria? Di più, il ministro Gelmini è certa che in Italia non ci sia più bisogno di fisici nucleari o di ricercatori delle malattie neurodegenerative? E chi svilupperà i software delle cartelle cliniche elettroniche e la telemedicina negli ospedali ma soprattutto le nuove applicazioni informatiche sul nostro territorio? Gli italiani che fanno ricerca all’estero sono migliaia e producono ricchezza: la loro fuga, infatti, in vent’anni è costata all'Italia oltre 4 miliardi di euro (la cifra corrisponde a quanto ricavato dal deposito di 155 domande di brevetto, dei quali l’inventore principale è nella lista dei “top 20” italiani all’estero).

Io vorrei vivere in un Paese in cui una cosa non esclude l’altra, in cui non ci sia una sola via all’occupazione: non è incitando i ragazzi ad accaparrarsi gli ultimi lavori da elettricisti, gruisti e falegnami che risolveremo il problema della disoccupazione giovanile.

L’Unità – 24 aprile 2011 – pag. 30

Giorgio Ragazzini ha detto...

Scrive Marino: "Io vorrei vivere in un Paese in cui una cosa non esclude l’altra, in cui non ci sia una sola via all’occupazione". Appunto questo è successo fino a oggi: che c'è in gran parte d'Italia una sola via all'occupazione. E i ragazzi sono stati non "spinti", ma costretti, a scegliere tra tecnici, professionali e licei, privandoli di un accesso alla formazione e alla cultura (più) basato sul fare, solo per un pregiudizio ideologico astratto e insensibile al linguaggio dei dati sull'abbandono e sul fallimento scolastico.
Quindi, caro collega Pascuzzi, la libertà di scelta siamo noi a volerla assicurare, non certo Marino con il suo minestrone di argomenti che nulla hanno a che fare con le nostre proposte e soprattutto con quanto succede nel Trentino e in Lombardia, dove non si è tanto fessi da proporre ai ragazzi mestieri che non abbiamo sbocchi sul mercato e che certo non impedisce di investire su ricerca e innovazione nel nostro paese.

Valerio Vagnoli ha detto...

Marino ha senz'altro
ragione quando afferma che non c'è nulla di sbagliato, da parte di un giovane, nell'imparare un mestiere purché questa sia una scelta fatta per seguire la sua passione e diventare così un progetto di vita. Il fatto è, sembra sottintendere lo stesso Marino, che coloro che approdano alla formazione professionale lo fanno perché non hanno altra scelta e perché provengono da ambienti familiari economicamente e culturalmente svantaggiati. Ciò che Marino sottintende mi sembra invece, in generale, da dichiarare come dato incontrovertibile a proposito della provenienza sociale dei ragazzi che fanno formazione professionale. E' invece assolutamente vero, contrariamente a quanto sembra alludere lo stesso Marino, che quasi tutti i ragazzi che scelgono i professionali lo fanno per vocazione e per passione: il fatto è che si trovano davanti ad un percorso essenzialmente d'istruzione anziché di formazione professionale! Dai politici, anche sulla formazione professionale, ci attenderemmo dei progetti precisi e non dichiarazioni di carattere sentimental sociologico di sicuro effetto, ma inutili sul piano della "prassi" e della necessità di contribuire, attraverso proposte concrete, almeno al miglioramento della gestione dei problemi legati alla quotidianità. Il fatto è che, malgrado le belle parole di Marino, ci sono decine e decine di migliaia di ragazzi che scappano dalla scuola, da questa scuola, che insieme ad altre sovrastrutture di carattere culturale svilisce il lavoro manuale, gerarchizza l'intelligenza e disprezza in linea di massima gli indirizzi di studio che non siano i licei.
Nell'attesa che i politici ci preparino una scuola seria e perciò non più classista come l'attuale, assolutamente non in grado di valorizzare i capaci e i meritevoli( e di far fare loro il meritato salto sociale , se provenienti da famiglie povere), che ne facciamo di queste decine e decine di migliaia di ragazzi che dalla scuola fuggono?
Come al solito tocca a noi, docenti e dirigenti, inventarsi le acrobazie più impensabili per fare di tutto affinché i ragazzi dei professionali rimangano a scuola anziché andarsene a zonzo tra un bar e l'altro. Magari sentendosi anche dire, ovviamente dai politici o dai colleghi che si sentono tanto più progressisti degli altri, che la colpa alla fine è " della scuola" ancora troppo ingessata alla tradizione e così restia alla didattica laboratoriale, all'uso dei computer, alle peer education etc etc...

V.P. ha detto...

Valerio Vagnoli: " ... E' invece assolutamente vero ... che quasi tutti i ragazzi che scelgono i professionali lo fanno per vocazione e per passione [1]: il fatto è che si trovano davanti ad un percorso essenzialmente d'istruzione anziché di formazione professionale! [2]"

[1] la mia esperienza dice il contrario: solo una minoranza (1/4 per dare un numerto) sceglie, per la maggioranza (3/4) è una soluzione di assoluto ripiego o di disperazione familiare; la percentuale di ripetenze e bocciature dovrebbe confermare; a volte nei professionali non si boccia solo per non espellere definitivamente dalla scuola: manca la 4ª opzione!
[2] concordo.

Valerio Vagnoli ha detto...

Gentilissimo Pascuzzi, sono solito chiedere ai numerosi ragazzi " difficili" presenti soprattutto nelle classi prime dell'istituto professionale in cui lavoro, se sono convinti e motivati rispetto alla loro scelta. Quasi sempre mi rispondono positivamente. Ma il quasi scompare, e le giuro che non ho mai avuta una risposta negativa, quando orgogliosamente sono impegnati nelle attività di laboratorio. Da quattro anni opero in un professionale e mi è capitato di tutto. Quello che non mi è mai assolutamente accaduto è l'esser dovuto intervenire per qualcosa di particolarmente negativo commesso dagli studenti durante le loro attività di laboratorio. E durante queste attività prevalentemente pratiche, non ho mai ricevuta una risposta da parte dei ragazzi che esprimesse pentimento per la scelta da loro fatta. Il fallimento, nel professionale, almeno dalla mia esperienza, nasce sempre dal basso tasso di scolarizzazione dei ragazzi, incapaci di rispondere ai tempi e alle regole imposti dalle ore legate all'istruzione. Mai, ripeto,assolutamente mai, ho incontrato ragazzi del professionale scontenti e pentiti delle ore passate nei laboratori.Anzi, talvolta, almeno mi sembra, ostentano con orgoglio le loro divise e le loro prestazioni quasi a voler riscattare le loro frustrazioni sui banchi.

V.P. ha detto...

STUDIARE CONVIENE SEMPRE

29 aprile 2011

I numeri parlano chiaro: a cinque anni dal titolo il 67 per cento dei laureati ha un lavoro continuativo contro il 37 dei diplomati; il 37 per cento dei primi ha un contratto a tempo indeterminato contro il 18 per cento dei secondi.

http://www.rassegna.it/articoli/2011/04/29/73843/caccia-al-lavoro-studiare-conviene-sempre

V.P. ha detto...

Quella ‘palude di generici e inservibili precari’

E’ successo spesso a Giuseppe De Rita, analista di lungo corso della società italiana, di agitare le acque del dibattito socio-politico mediante l’invenzione di originali chiavi interpretative dei fenomeni o la prefigurazione di scenari evolutivi che si ponevano in controtendenza rispetto alle opinioni più ampiamente diffuse e condivise.

E’ probabile che anche questa volta non mancheranno le polemiche a seguito della pubblicazione sul Corriere della Sera (sabato 30 aprile) di un articolo-provocazione nel quale il presidente del Censis cita, mettendolo insieme ad altri esempi di mancanza di nuovi “germogli di vitalità” che ha caratterizzato gli ultimi quindici anni, anche il fatto che “la forzatura alla creazione di un competitivo fattore umano (fatta attraverso ‘più scuola e più università’) si è risolta in una palude di generici e inservibili precari”.

Certamente l’intenzione di De Rita era quella di evidenziare, anche con questo esempio, l’inettitudine delle classi dirigenti alternatesi negli ultimi tre lustri nel dirigere l’investimento nella formazione di un ‘competitivo fattore umano’ verso i destinatari finali, gli studenti: obiettivo che si sarebbe potuto conseguire solo qualificando adeguatamente il corpo insegnante, che è stato invece lasciato affondare, appunto, nella ‘palude’ del non governo, come emerge anche, da ultimo, dall’indagine sugli insegnanti realizzata recentemente dal Cidi, che ha coinvolto 53 scuole di tutta Italia e circa 2400 insegnanti.

Ma il modo scelto da De Rita per esporre questo concetto, condivisibile nella sostanza, potrebbe suscitare polemiche. Speriamo che non ci si fermi solo a quelle, perché è sempre più avvertita l’esigenza di fare il punto sulla professionalità docente in un momento in cui l’intero sistema dell’istruzione è sottoposto a torsioni che non hanno precedenti nella sua ormai lunga storia.


tuttoscuola.com

lunedì 2 maggio 2011

http://www.tuttoscuola.com/cgi-local/disp.cgi?ID=25633