venerdì 22 agosto 2008

VOTI, LIBRI E '68

I ministri Gelmini e Tremonti replicano a Galli Della Loggia, che nel suo editoriale di ieri aveva accusato il governo – e soprattutto il responsabile dell’Economia – di infischiarsene della scuola, visti i tagli operati nella finanziaria. Il ministro della pubblica istruzione risponde sullo stesso “Corriere” con una lettera al direttore (ma va anche segnalata un’intervista sulla “Padania” in cui riepiloga il proprio programma di governo). Lo stesso fa Tremonti, che si sofferma in particolare su due argomenti: i ritorno dei voti anche alle elementari e medie e il costo dei libri scolastici (Scuola: il passato e il buon senso). Ambedue insistono sulla necessità di archiviare il ’68.
D’accordissimo sul ritorno ai voti e anche sulle relative argomentazioni. Da quello che scrive Tremonti non si capisce però quale sia la situazione attuale, perché i giudizi discorsivi sulle singole discipline non ci sono più da moltissimi anni. Le materie vengono valutate secondo i livelli ottimo, distinto, buono, sufficiente, non sufficiente. Di fatto vengono usati come voti, tant’è vero che molti docenti per le interrogazioni e le verifiche usano valutazioni come “buono meno” o “fra ottimo e distinto”. Naturalmente a questo punto è più logico e comodo usare i numeri; ma è anche importante recuperare una gamma di insufficienze, che il demone buonista dei pedagogisti ministeriali aveva consigliato di semi-occultare nell’unico e assai soft “non sufficiente” (che tra l’altro impedisce di apprezzare i progressi di chi comincia molto male). Il giudizio vero e proprio – compilato secondo criteri in parte variabili da scuola a scuola – è quello cosiddetto “globale”, che in genere, oltre a una preparazione “complessiva” (nozione di limitata utilità), parla di impegno a casa e a scuola, attenzione e partecipazione, a volte metodo di lavoro; e può sottolineare punti di forza e carenze. È semmai qui che può essere a volte pertinente l’opinione di Tremonti: “Per come sono strutturati e «bizantinati », basati su formule che tendono ad essere ipocrite, psicopedagogiche, tautologiche, caramellose, offensivo-giudiziarie o presunte tali, i giudizi sembrano fatti apposta per mandare fuori di testa i genitori o per stendere i ragazzi sul lettino dello psicanalista o per portarli tutti insieme da un avvocato che ti predispone il ricorso — quasi sempre vincente — davanti al Tar.”
Il secondo obbiettivo polemico del ministro economico è costituito dai libri di testo: “Nella scuola italiana da troppo tempo (e non era così prima: è un effetto negativo della «modernità») i libri di testo cambiano con una frequenza forsennata e parossistica. Cambiano per scelta del docente, ma cambiano soprattutto perché gli editori stampano quasi ogni anno una nuova edizione di ciascun testo, in modo che quelli dell'anno precedente diventano automaticamente vecchi — fa più fino dire obsoleti — e con ciò sostanzialmente inutilizzabili. Su questa pratica si possono dire due cose essenziali: è ingiustificata; è contraria agli interessi delle famiglie”.
In Italia c’è un conformismo bulgaro sulla scandalosità del costo dei manuali e delle politiche di chi li produce, senza peraltro che l’argomento venga minimamente approfondito dai giornali e dalla tv (non mi pare neppure che gli editori si difendano granché bene). Eppure si potrebbero fare inchieste su costi, margini di profitto, concentrazioni proprietarie, ristrutturazioni e licenziamenti, esattamente come si fa per altri settori produttivi, in modo da comprendere in che misura abbiamo a che fare con imprenditori che ci marciano oppure se si trovano alle prese con reali difficoltà nel far quadrare i conti. Inoltre un'inchiesta seria potrebbe produrre tabelle comparative sulle spese delle famiglie: quanto per i libri scolastici, quanto per lo zainetto di marca invece di quello economico, quanto per gli accessori sfiziosi, per il cellulare di ultima generazione, per l’iPod; quanto per i chewingum e per le merendine, quanto per costose figurine e carte varie, magliette e scarpe firmate. Così potremmo capire se è una protesta seria o dettata dal solito assistenzialismo. Ma alla fine la domanda delle domande è questa: le case editrici devono stare sul mercato o no? Se le case automobilistiche hanno bisogno di fare un restyling all’anno su ciascun modello per andare avanti nessuno si scandalizza (anche se il mercato dell’usato ovviamente ne risente). A sentire Tremonti le case editrici dovrebbero invece favorirlo il mercato dell’usato, anzi le scuole potrebbero comprare i libri e darli in prestito ai ragazzi... Certo, in un ambito di spese obbligatorie come quelle per i manuali il Governo deve mettere il naso; ma oltre un certo limite non sarebbe più semplice rivendicare senz’altro il monopolio statale dell’editoria scolastica?

(GR)

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