di Sergio Casprini
Negli ultimi mesi opinionisti, intellettuali, uomini di scuola e di partito hanno promosso una discussione sulla meritocrazia nella Pubblica amministrazione ed in particolare nella scuola. A questo proposito va ricordato l’intervento del Gruppo di Firenze con la “Lettera aperta ai partiti”, sottoscritta da intellettuali e professori universitari e presentata al Liceo Visconti di Roma durante la campagna elettorale di questo anno.
Se nessuno nega l’importanza di promuovere serietà e responsabilità tra i docenti, le proposte che vengono fatte sono purtroppo viziate da pregiudizi e luoghi comuni sugli insegnanti, a conferma della scarsa conoscenza da parte di molti degli specifici aspetti di questa professione.
In primis, nonostante le denunce sulle malefatte dei “docenti fannulloni”, in particolare quella di Ichino, ancora si sottovaluta il fatto che la sanzione del demerito, fino al licenziamento appunto dei fannulloni, sarebbe un primo passo importante per una riqualificazione della scuola italiana in termini di serietà ed efficacia didattica. Ma no: i nostri riformatori meritocratici hanno invece la presunzione di poter facilmente individuare gli insegnanti più bravi per premiarli con incentivi economici e/o con avanzamenti di carriera. Non a caso paradossalmente è stato rivalutato l’operato del ministro Berlinguer, a suo tempo bocciato sonoramente da tutta la categoria docente e non certo per motivi corporativi (su questo vedi l’intervento di Andrea Ragazzini su questo blog).
Ma chi sono dunque gli insegnanti bravi? Sono bravi forse coloro che ottengono un buon rendimento scolastico dai loro allievi? Ci si scontra in questo caso con l’impossibilità di misurare la produttività del docente come si misura la produttività in ufficio o in fabbrica: gli allievi non sono tutti uguali da un punto di vista cognitivo e conta pure il contesto classe in cui sono inseriti.
Sono allora bravi quelli che si aggiornano periodicamente ed inoltre fanno pubblicazioni, acquisendo titoli culturali e scientifici? Quando si parla di aggiornamento mai si pensa anche a un serio e frequente confronto a carattere seminariale tra colleghi (su questo argomento è esauriente l’articolo di Giorgio Ragazzini), ma si ripropone un ritorno all’Università o la frequenza di inutili corsi di tipo psico-pedagogico, (senza dimenticare l’auto-aggiornamento “non istituzionale” dei docenti seri: lettura, cinema, teatro, musei...). Nel caso poi degli insegnanti che hanno all’attivo pubblicazioni nella loro disciplina, c’è da considerare che spesso viene meno l’impegno professionale in classe, assorbiti come sono dal lavoro scientifico.
Infine, sono invece bravi i docenti che assumono ruoli di responsabilità nella gestione didattica od organizzativa della loro scuola oppure partecipano alla realizzazione dell’offerta formativa e all’organizzazione di corsi di aggiornamento o del tirocinio per i giovani colleghi?
In questo caso si confonde la funzione dell’insegnante che opera in classe con quello che assume ulteriori incarichi, sia pure importanti, oltre all’insegnamento. Si tratta ovviamente di nuovi ruoli che vanno definiti giuridicamente a livello nazionale e che sono necessari per andare incontro alle necessità delle scuole autonome.
A mio parere invece si può riconoscere la qualità professionale dei docenti italiani nel verificarsi di tre condizioni: le prime due sono costitutive dell’essere insegnante: la conoscenza della propria disciplina e l’amore per essa, insieme al piacere di insegnarla; la terza è data dalla progressiva acquisizione di maggior capacità professionali garantita dall’esperienza e quindi dall’anzianità di servizio.
Immagino che molti potrebbero considerare queste conclusioni la corporativa riproposizione dei tradizionali automatismi di carriera a scapito dei meritevoli. Nel ribadire intanto che rimuovere dalla scuola i non meritevoli e cioè i fannulloni sarebbe una scossa salutare per tutta la categoria, sono consapevole anch’io che un eccesso di autoreferenzialità può avere effetti negativi se non si trovano i giusti contrappesi.
L’aggiornamento professionale insieme ai colleghi della propria scuola ed una verifica periodica (ogni 4/5 anni) del proprio operato possono però garantire che l’anzianità di servizio non si riduca ad un solipsistico esercizio dell’attività professionale con ovvie ricadute negative sulla didattica.
Sulle modalità della valutazione degli insegnanti e sulle figure a cui affidarla occorre affrontare un altro ordine di problemi, che esulano dal tema che mi sono proposto in questo intervento; posso solo suggerire che una valorizzazione professionale non dovrebbe prescindere dalla costituzione in sede locale e nazionale di organismi tecnici, tipo albi e consigli professionali rappresentativi degli insegnanti, da cui trarre almeno una parte dei valutatori.
5 commenti:
Caro Casprini, lo sai bene che la nostra opera all'interno della scuola è spesso focalizzata su funzioni importanti sì, ma accessorie rispetto alla nostra primaria attività di docenza ed aggiornamento, oltre che essere distolta da troppe forme di gestione eccessivamente burocratizzate . Troppe sono le responsabilità date al docente, soprattutto se questi si dimostra disponibile, mentre d'altra parte gli studenti sono sempre più indifferenti a ciò che, con entusiasmo, ancora proponiamo loro.
Sono comunque d'accordo con te, anche se ritengo piuttosto impraticabile istituire delle "commissioni di valutazione"; si rischierebbe di avere un'ennesima commissione-farsa o, laddove questa affrontasse seriamente il problema, mi chiedo se sarebbe veramente disposta a valutare dei "colleghi" ... padri di famiglia ......
Paolo Volsi
Ho usato quasi le stesse parole di Casparini in un intervento sul sito della mia scuola.E' la conoscenza della propria disciplina e l’amore per essa, insieme al piacere di insegnarla che fanno il buon insegnante insieme ad una esperienza effettivamente vissuta nell'ambito dell'insegnamento.
c'è mai stato il merito nella scuola?
Credo proprio di no!
good start
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