di Giorgio Ragazzini
L’aggiornamento è un diritto del docente o anche un dovere? Questione più volte dibattuta in questi ultimi anni. Sotto il profilo giuridico si può leggere, dal sito dell’Adi, il documentato parere del professor Carlo Marzuoli, uno dei maggiori studiosi della scuola come servizio pubblico, che conclude: è un diritto, ma indubbiamente anche un dovere.
Con ciò, però, il problema dell'aggiornamento è tutt'altro che chiuso. Abbiamo infatti un obbligo ancora privo di oggetto preciso. E cioè: su che cosa un docente si dovrebbe aggiornare? E chi lo stabilisce?
Mentre il medico è tenuto a tenersi informato sulle novità nella diagnosi e nella terapia, l’avvocato sulle nuove leggi e l’ingegnere sui progressi tecnici nel suo campo, non mi pare che per tutte le materie di insegnamento esista qualcosa di così evidentemente necessario. Il nostro lavoro non è una scienza esatta e comporta conoscenze di tipo disciplinare, ma anche relazionale e metodologico; e su questo non ci sono, né ci possono essere, verità indiscutibili.
C’è invece chi è convinto che l’obbligo di aggiornarsi sia una specie di bacchetta magica per la scuola italiana. Tra le più recenti prese di posizione quella dai toni sdegnati e ultimativi di Omer Bonezzi, presidente di “Proteo Fare Sapere”, l’associazione professionale di area Cgil. A mio avviso sarebbe invece deleteria la riproposizione del tipo di aggiornamento prevalente negli scorsi decenni, che, lungi dal riqualificare la scuola italiana, ha largamente contribuito alla demotivazione e al disamore per il nostro mestiere. A quanti colleghi è accaduto, infatti, che l'ispettore, l'esperto, il docente universitario di turno si sia rivolto ai presenti come a professionisti depositari di qualche competenza? A me personalmente mai. E poiché a nessuno fa piacere di essere trattato come oggetto di rieducazione, per di più da persone spesso con poca o nessuna esperienza concreta di insegnamento, è comprensibile che molti di noi si siano stufati di corsi e convegni in cui veniva rivelato “il verbo” sulla didattica, spesso in modo fumoso e astratto.
Non posso fare a meno di citare il tentativo in grande stile di far attecchire la programmazione per obbiettivi (nata negli USA in contesto non scolastico), la quale per un po' è sembrata affascinare, con la sua apparente logica scientifica, un certo numero di colleghi, ma che all'atto pratico si è rivelata arida e impraticabile (centinaia di obbiettivi e sotto-obbiettivi, smania di registrare e valutare oggettivamente ogni respiro del discente...).
D’altra parte un periodo di aggiornamento obbligatorio è esistito, quello legato agli “scaloni” (cento ore di aggiornamento in sei anni), risoltosi in gran parte in una fiera di corsi e corsetti per la maggior parte inutili. Bonezzi questo periodo lo giudica tutto sommato positivamente:
"Il sistema aveva dei limiti: i collegi docenti [...] approvavano tutto, compreso corsi di ballo, scacchi ed equitazione. Con i limiti detti e i brontolamenti degli insegnanti libero professionisti fu una stagione notevole: in 5 anni un milione d'insegnanti ha in ogni modo fatto formazione per 100 milioni d'ore."
Traduzione: il livello dei nostri insegnanti è talmente basso che anche un corso pur che sia è meglio di niente. Questa sarebbe la qualità della "leva strategica fondamentale" per il rinnovamento della scuola...
E allora? Ho sempre pensato – e l’esperienza me ne ha dato ampia conferma – che per trasformare gli insegnanti in professionisti a tutti gli effetti è necessario prima di tutto trattarli come tali, invece che come scolaretti da correggere. Bisogna quindi farla finita col dominio sulla scuola italiana di quella casta dei pedagogisti paraministeriali che ha cercato di imporre dall’alto i suoi dogmI. Il cardine della formazione continua deve essere il metodo seminariale, tipico del mondo della scienza e della cultura alta, in cui ci si scambiano liberamente idee, esperienze, proposte, meglio se svincolate da obbiettivi contingenti. Questo metodo, che ha tra l'altro il vantaggio di non costare nulla o pochissimo, si fonda principalmente non sull'asimmetria tra "esperto" e aggiornandi, ma sulla convinzione che tutti hanno qualcosa da dare (successi da condividere, errori su cui riflettere, problemi da porre ai colleghi), partendo dal proprio patrimonio professionale. Così si valorizzano e rimotivano fortemente i partecipanti, che si sentono “comunità professionale”, anche per il fatto di stabilire loro, e non altri, su cosa aggiornarsi. L’aggiornamento degli “esperti”, invece, presenta spesso in forma compatta e priva di incertezze un ideale molto elevato, che deprime invece di sollecitare le energie (anche perché spesso accompagnato dalla sollecitazione ad accedere a un “nuovo” modo di insegnare).
Ovviamente anche il metodo seminariale ha le sue esigenze, tra cui la preparazione e il coordinamento del lavoro. Ma la strada è questa. Eventualmente saranno poi gli stessi docenti a sentire il bisogno di integrare liberamente il loro lavoro con il contributo di pesone competenti su questo o quel punto.
Quanto all’obbligo (che non è in sé un buon motivatore), è inevitabile che il principio venga affermato. La principale spinta ad aggiornarsi deve essere però non il “dovere”, ma l’esigenza di migliorare l’efficacia della propria azione didattica sotto tutti i profili: disciplinare, metodologico e relazionale. Eviterei quindi di stabilire per legge più di un minimo di ore annuali obbligatorie. Meglio un’adesione libera e motivata che una presenza passiva e poco interessata. Per questo ogni scuola o rete di scuole dovrà progettare l'aggiornamento in modo tale da offrire sempre più di una proposta. In altre parole dobbiamo scegliere tra docente-esecutore e docente-professionista, cioè tra una visione autoritaria dell'aggiornamento come adesione a dogmi didattici stabiliti dall'alto e una visione liberale, imperniata sul binomio libertà e responsabilità.
Teniamo poi conto che le norme che in questo periodo sono all'attenzione del parlamento valgono soprattutto per il futuro, in cui ci auguriamo una approfondita preparazione iniziale degli aspiranti docenti. Il che dovrebbe far cessare i ricorrenti e irrealistici progetti di riqualificazione ab imis dell'intero corpo docente.
3 commenti:
Il primo obbligo di un docente è aggiornarsi sui contenuti della propria disciplina.
Troppo spesso i docenti non hanno la volontà di aggiornarsi, neanche quando vengono loro proposte attività interessanti e direttamente spendibili in classe. Basta pensare alla bassissima partecipazione ai piani M@t.abel, ISS e Poseidon.
Condivido in pieno le opinioni del prof. Ragazzini. E' facile e comodo, quanto inutile, predicare sugli obblighi morali e indignarsi per la mancanza di interesse; chi sia veramente interessato a migliorare la qualità dell'insegnamento dovrebbe però chiedersi il perché di tale disinteresse e porsi il problema di come motivare gli insegnanti ad aggiornarsi. Fermo restando che gli obblighi di legge producono solo scantonamenti, come è appunto il caso dei vari corsi di medicine orientali, di cucina macrobiotica o delle proiezioni di film alternativi che, tutti, imperversavano (a laute spese del contribuente) al tempo dell'aggiornamento obbligatorio. Che poi questo sia rimpianto dalle associazioni professionali e dai sindacati, non stupisce troppo, dato che moltissimi corsi erano organizzati da loro... e mi chiedo poi quanti di essi (percentualmente) abbiano proposto, ad esempio, gli esiti della pubblicistica qualificata nel settore della ricerca disciplinare recente relativa a una data materia o gruppo di materie e alla relativa didattica, e quanti si siano limitati a sottoporre gli sventurati frequentatori agli sproloqui di pseudo-esperti improvvisati e di pedagogisti invasati dall'ideologia.
Dal punto di vista della motivazione, a mio parere, il punto cruciale è proprio quello esposto dal prof. Ragazzini: per avere di fronte dei professionisti in possesso di competenza e intenzionati a perfezionarla occorrerebbe innanzitutto comportarsi come di fronte a dei professionisti in possesso di competenza e intenzionati a perfezionarla. Se poi sussistono degli asini che non vogliono bere, occorrerebbe la consapevolezza che alla lunga un simile comportamento danneggerà la loro carriera (carriera? che parolaccia è questa?) a causa del peggioramento della qualità del loro lavoro, qualità seriamente monitorata in modo attendibile, non certo con berlinguerate estemporanee o con l'attestazione di frequenza al corsetto che ti dà i punticini che, come al supermercato, quando hai completato la tessera ti fanno scattare il livello (come appunto accadeva ai tempi tanto rimpianti da alcuni).
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