L'appello rivolto, in vista delle elezioni, da un qualificato gruppo di intellettuali e docenti universitari a tutte le forze politiche perché si impegnino nella ricostruzione di una scuola basata sul merito potrebbe apparire a qualcuno scontato e pleonastico (chi mai oserebbe scendere pubblicamente in campo in difesa del demerito?). Sfortunatamente non lo è, per le ragioni ottimamente esposte ieri su queste pagine da Sergio Givone: lo sforzo, in sé lodevole, di eliminare ogni privilegio legato alla diversità delle condizioni sociali ha finito, attraverso il quarantennale accumulo di pratiche lassiste e permissive, col cancellare il principio stesso della selezione per merito e col trasformare la scuola (ma anche l'università) in una specie di gigantesco asilo di infanzia dove parcheggiare a tempo indefinito le generazioni più giovani. Ben venga dunque uno sforzo condiviso per consolidare quell'inversione di tendenza che il ministro Fioroni aveva avviato, pur fra molte incertezze, nell'ultima legislatura, per riconvertire insomma la macchina dell'istruzione pubblica ai suoi compiti naturali: assicurare a tutti una base minima di saperi e insieme promuovere i migliori, valutando e selezionando vocazioni e talenti attraverso l'uso appropriato di sanzioni e incentivi.Va da sé che una battaglia volta a riqualificare la scuola valorizzando, a tutti i livelli, il criterio del merito avrebbe un carattere strategico più generale e produrrebbe, se vinta, effetti positivi di lungo periodo sull'intero sistema-paese. Una scuola che non premia lo sforzo intellettuale e non stimola la competizione produce lavoratori poco motivati e incoraggia la tendenza a concepire l'occupazione come una sinecura vitalizia, dove non si rischia nulla e si progredisce per inerzia. Il che di fatto è accaduto in Italia negli ultimi decenni, e non solo a causa delle resistenze corporative delle categorie e degli automatismi imposti dall'egualitarismo sindacale. Se la scuola - ovvero la sede tradizionalmente deputata alla valutazione del rendimento, il luogo in cui ci si dovrebbe abituare fin da ragazzi a essere promossi o bocciati in base ai risultati ottenuti - rinuncia a questa parte essenziale della sua missione, se si sostituisce all'istituzione ecclesiastica nel rimettere a ognuno i propri debiti, se mantiene in vita una macchina complessa e costosa come quella degli esami di maturità privandola della sua indispensabile funzione di filtro, non ci si può poi stupire quando la pubblica amministrazione si dimostra strutturalmente incapace di usare a tutela della generalità dei cittadini gli strumenti selettivi di cui pure dispone.Gli esempi sono tanti e sono sotto gli occhi di tutti. Note di qualifica eternamente appiattite sui livelli più alti (il burocrate che per avventura non ottenga la valutazione più lusinghiera si sente per ciò stesso autorizzato a rivolgersi a qualche tribunale amministrativo e a mettere nei guai il superiore responsabile dell'affronto). Premi di produttività distribuiti a pioggia o addirittura ripartiti fra la totalità dei dipendenti (è successo recentemente nella regione siciliana) e dunque trasformati in mera regalia. Tassi di assenteismo medi pari a un mese e passa di ferie all'anno, che farebbero seriamente preoccupare sullo stato di salute dei dipendenti pubblici se non si sapessero frutto di uso disinvolto del certificato medico. E ancora, allargando il campo di indagine, magistrati che impiegano anni a scrivere le sentenze senza veder compromessa la propria progressione di carriera, professori universitari che intendono la libertà di insegnamento come libertà di fare i propri comodi, ordini professionali che concepiscono la loro funzione non tanto come garanzia per gli utenti (il solo scopo per cui avrebbero ragione di esistere o di essere riconosciuti pubblicamente) quanto come difesa corporativa degli iscritti.Risalendo in alto nella catena delle responsabilità, si arriva fatalmente al ceto politico: quello che, in linea teorica, essendo obbligato in democrazia a cercare il consenso dei più, dovrebbe avere non solo il dovere di perseguire gli interessi della maggioranza dei cittadini, ma anche l'interesse a farlo: e dunque a riportare efficienza nella scuola come nell'amministrazione pubblica. Sappiamo che nei fatti non è (sempre) così. E che, in particolare, un personale politico scelto più per cooptazione che per elezione, come quello selezionato dall'attuale legge elettorale, non è il più adatto a farsi paladino del principio del merito. Ma è ancora possibile sperare, con po' di ottimismo, che una battaglia in difesa di quel principio (purché innervata in poche e significative proposte concrete) possa costituire una buona risorsa da spendere con profitto in campagna elettorale.
Giovanni Sabbatucci
(Da "Il Messaggero", p.1, 27 marzo 2008)
giovedì 27 marzo 2008
QUANDO IL MAL DI MERITO CONTAGIA TUTTO IL PAESE, di Giovanni Sabbatucci
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