Nel suo bel libro Fatica sprecata sulla crisi della scuola il
sociologo inglese Frank Furedi riflette sul crescente prestigio del “nuovo”
nelle società occidentali. In modo più vistoso nel continuo rinnovamento dei
prodotti reclamizzati, ma anche in altri campi, come quello della politica e,
non ultimo, in quello dell’istruzione. Scrive Furedi: «L’impulso ad
affrancare l’istruzione dal passato nasce dal pregiudizio che le idee non
attuali siano, per definizione, superate e irrilevanti». Ovviamente,
chiarisce l’autore, non si tratta di incoraggiare l’accettazione acritica di
ciò che una generazione trasmette alla successiva, ma di riconoscere la necessità
di fornire ai giovani gli strumenti per comprendere il mondo. È solo in
relazione a una realtà che riescono a capire che i nuovi venuti possono trovare
le idee e la forza per migliorarla.
Questo implica la necessità di impegnarsi per la preservazione del
passato, sulla cui importanza Hanna Arendt come al solito si esprime senza aver
paura delle parole: «Non vorrei essere fraintesa: secondo me il
conservatorismo, o meglio ‘il conservare’, è parte essenziale dell’attività
educativa».
Di questa sorta di “idolatria del nuovo” è inevitabile che lo studio
della storia sia la prima vittima. E per superare il disinteresse di una parte
degli studenti ci si propone naturalmente di diffondere una “nuova” didattica. Che
però ha dei contorni piuttosto nebulosi, dato che sarebbe centrata, invece che
sul “nozionismo”, sulle cosiddette competenze. Le quali, trasportate
dall’ambito del saper fare a quello del sapere, spesso non si capisce più in
cosa consistano. In realtà il buon insegnamento della storia non ha mai
favorito il pappagalismo acritico che gli viene imputato dai novatori. È stato
anzi un potente e spesso affascinante strumento di educazione intellettuale e
di apertura mentale, che difficilmente può fare a meno dell’ascolto di maestri colti
e appassionati.
Purtroppo, dell’attuale conoscenza della storia da parte dei giovani non
si occupano né l’Ocse, né l’Invalsi. Non abbiamo quindi basi “scientifiche” per
misurare l’entità del problema. Tuttavia, qualche indagine in ambito
universitario e le numerose testimonianze dei docenti, oltre al declino della
preparazione in tutte le materie, indicano una situazione di cui preoccuparsi,
ma soprattutto di cui occuparsi con misure concrete. Con questo intento, nei
giorni scorsi è stata diffusa una lettera aperta al Ministro Valditara, promossa dal Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità e dal Comitato Fiorentino per il Risorgimento, in cui
127 firmatari, quasi tutti docenti nella scuola e nell’università, con una
folta presenza di storici e insegnanti di storia, avanzano cinque proposte.
La prima è quella di “inserire dal prossimo anno una prova scritta
obbligatoria di storia nell’esame di maturità di tutti gli indirizzi di studio”
e in quello al termine del primo ciclo. La presenza di questa prova darebbe
anche simbolicamente maggiore importanza alla Storia e rafforzerebbe l’impegno
degli allievi nello studiarla.
Viene poi chiesto il ripristino della scansione cosiddetta “a
spirale” dello studio della storia, con la ripetizione per tre volte
del percorso dalla preistoria ai nostri giorni. Questo consentirebbe agli
allievi della scuola primaria di avere una prima conoscenza dell’età
contemporanea e di tornare in seguito in modo più approfondito sugli
argomenti già incontrati. In sostanza si tratterebbe di ripristinare la
situazione precedente alla riforma Moratti del 2004, che spalmò il percorso
dalla preistoria fino al novecento sugli otto anni del primo ciclo (primaria
più secondaria di primo grado). A questo si è aggiunta una generalizzata
riduzione del numero di ore dedicate alla materia nella scuola media e
nelle superiori, che invece la lettera aperta ritiene indispensabile
ripristinare. Già nel 2017 Mariangela Caprara scrisse sul “Mulino”: «Questi
ordinamenti hanno portato a una vera e propria dealfabetizzazione storica della
popolazione scolastica». La quale, tra l’altro, espone inevitabilmente i
giovani a prendere posizioni politiche prive dei necessari presupposti
culturali. Come ripete un programma radiofonico che si occupa di politica
internazionale, «ognuno ha diritto ad avere le sue opinioni, ma anche il dovere
di avercele informate».
I firmatari
del documento chiedono poi di «mettere a disposizione degli insegnanti, in accordo col servizio
pubblico radiotelevisivo, un catalogo ragionato dei documentari, dei
programmi e dei film di argomento storico utili come sussidi didattici». Alcuni
argomenti in particolare si possono giovare di una notevole scelta di
audiovisivi. Penso in particolare alla Shoah e a bellissimi film come Arrivederci
ragazzi, Jona che visse nella balena e La lista di Schindler; o all’efficace
film La Rivoluzione francese che uscì nel 1989 per il bicentenario di
quella svolta storica. Naturalmente film e documentari non devono sostituire la
didattica vera e propria; sono anzi utili come complementi se utilizzati dopo
che l’argomento è stato sufficientemente compreso e assimilato.
Di particolare rilievo, infine, l’ultima
richiesta, quella di “istituire rilevazioni
periodiche per verificare le conoscenze storiche degli studenti nei vari ordini di scuola” (si parla di
proposito di “conoscenze” invece che di “competenze”). Una caratteristica
ricorrente della scuola italiana (e frequente anche nel “sistema Italia”) è
l’allergia ai controlli e alle verifiche. Da sette anni, per esempio, si sta
sperimentando in alcune scuole superiori la durata quadriennale dei loro corsi,
ma sui risultati si sa poco o nulla, a parte il fatto, poco incoraggiante, che
numerosi istituti inizialmente aderenti non hanno rinnovato la loro
disponibilità. Meno che mai si indaga sul numero dei docenti non all’altezza
dei loro compiti sul piano didattico o su quello della correttezza professionale.
Una minoranza, certo, ma che non solo danneggia gli studenti, ma pregiudica
anche la credibilità della scuola italiana. E così su tutti gli aspetti
dell’istruzione pubblica. Solo la preparazione in matematica e la comprensione
del testo in italiano (più qualche domanda di grammatica) sono oggetto delle
discusse prove Invalsi, che fortunatamente non hanno dato luogo come si temeva
al “teaching to the test”, cioè al riorientamento della didattica in funzione
delle risposte ai questionari. Sarebbe del resto poco utile accogliere le
proposte della Lettera aperta senza poi verificare se abbiano avuto effetto.