mercoledì 24 febbraio 2021

NON POTEVAMO CANCELLARE IL CLASSISMO E RISPARMIARE IL MERITO?

 

(Per Graziella Giovacchini: tutti i suoi allievi sanno il perché, Nda) – È passato del tutto inosservato il grido d’allarme denunciato lo scorso dicembre dal professor Luigi Ambrosio, direttore della scuola Normale di Pisa secondo il quale, oggi, l’ascensore sociale, che in passato permetteva al figlio dell’operaio di diventare normalista e laurearsi, è praticamente scomparso. Sono oramai una quindicina di anni che alla prestigiosa università pisana accedono solamente figli di persone che hanno a disposizione eredità e contesti culturali  senz’altro privilegiati. A nulla serve che quella prestigiosissima Scuola metta da sempre a disposizione dei suoi allievi vitto, alloggio e corsi gratuiti perché chiunque possa  frequentarla purché ovviamente “meritevole”: purtroppo da tempo le sue aule non sono frequentate da ragazzi “del popolo”.

In passato era del tutto scontato, verrebbe proprio da dire normale, che alla prestigiosa università pisana si iscrivessero allievi figli di operai e perfino di ceti sociali ancor più marginali. Per diretta conoscenza di chi scrive, vi hanno avuto accesso ragazzi orfani di padre operaio e perfino figli di contadini, quando esserlo significava appartenere al contesto sociale più umile, per non dire arretrato, dell’intero paese. Tutto ciò era possibile  perché, pur con tutti i limiti della “vecchia” scuola italiana, rispetto a quella di oggi la Normale del passato era in grado, come lo stesso direttore Ambrosio sembra riconoscere, di garantire straordinarie possibilità a ragazzi che possedendo spiccate capacità sarebbero stati in grado di rivoluzionare la loro vita e perfino quella della loro stessa famiglia.

E tutto ciò sarebbe stato possibile anche perché molti di questi ragazzi avevano avuta l’altrettanto straordinaria possibilità d’incontrare sulla strada della loro formazione docenti illuminati (a quei tempi forse abbastanza rari e una vera fortuna incontrarli) che, non rinunciando alla loro missione e passione civile, instradavano questi loro allievi verso percorsi formativi di alto spessore perfino degni della Normale. E, per riuscirvi, non era raro dovessero insistere e dannarsi per convincere genitori impauriti e increduli davanti a tali impegnative prospettive che avrebbero collocato i loro figlioli nella medesima condizione di coetanei di ben altra estrazione sociale.

In assenza di docenti così, la strada di questi ragazzi sarebbe stata segnata dal percorrere esattamente quella fatta dalla loro famiglia o, nella migliore delle ipotesi, avviandosi per quella del seminario, qualora un benefattore o la comunità si fossero fatti carico di sostenerne le spese. Questa è stata la nostra realtà sociale, almeno fino ai primissimi anni settanta: tradizionalmente e istituzionalmente ingiusta, classista e assolutamente da non rimpiangere. Tuttavia in grado di formare intellettuali, scienziati e una classe dirigente degna di questo nome e che per diventare tale aveva potuto misurarsi con una scuola che, malgrado le tante ingiustizie che pur offriva, era tuttavia in grado di valorizzare il merito: almeno quando questo era davvero straordinario.

Con la “nuova scuola”, quella che prese forma proprio nei medesimi anni, avremmo voluto che le tante ingiustizie del passato fossero superate e che le opportunità di valorizzare i talenti si estendessero anziché, come purtroppo è accaduto, venissero svilite in nome di una concezione assistenziale e demagogica che non prevede la serietà e il merito come condizione perché la scuola sia davvero un “ascensore sociale”. E lo svilimento avviene purtroppo per scelta o incompetenza politica o per entrambe le ragioni che hanno permesso che la scuola non si curi più di  intercettare, formare e valorizzare i ragazzi talentuosi: a maggior ragione quando questi provengono da ceti sociali più svantaggiati.

Valerio Vagnoli

“ilSussidiario.net”, 24 febbraio 2021


lunedì 1 febbraio 2021

SENTENZE CHE MINANO LA CREDIBILITÀ DELLA SCUOLA

Una serie di pronunce secondo cui gli studenti possono occupare la scuola, le bocciature dei professori non sono valide, e, persino, non ci sono conseguenze per avere copiato dal cellulare. 

Alcuni giorni fa la Procura di Roma ha chiesto l’archiviazione delle denunce nate da occupazioni studentesche di varie scuole romane. Il reato ipotizzato era “interruzione di pubblico servizio”. Ma il magistrato ha deciso che di reato non si tratta; e lo ha fatto con argomentazioni una più sbalorditiva dell’altra. Chi si impossessa di una scuola, infatti, non farebbe altro che esercitare il diritto di riunione e di manifestazione; peraltro, si aggiunge, “gli studenti devono essere considerati soggetti attivi della comunità scolastica e partecipi alla sua gestione”. Dunque farebbero parte della “gestione” della scuola, al pari del lavoro di dirigenti, insegnanti, segreteria e custodi, anche queste iniziative, benché si distinguano spesso per il fatto di impedire agli altri “gestori” di lavorare; e ad altri studenti – quasi sempre in maggioranza – di seguire le lezioni. Ma anche a questo c’è rimedio, secondo la Procura, perché il diritto allo studio sarebbe comunque garantito proprio grazie alle lezioni autogestite e attraverso le attività culturali e la didattica alternativa(!). Da notare che in passato la Cassazione ha affermato che anche poche ore di occupazione ledono il diritto all’apprendimento e rappresentano quindi un’interruzione di pubblico servizio a tutti gli effetti”. 

La difesa delle occupazioni non è certo monopolio della Procura romana. Anche ministri e sottosegretari si sono distinti in questo campo, accanto a insegnanti e intellettuali nostalgici delle proteste giovanili, insieme a genitori inteneriti nel vedere i figli ripercorrere le loro orme. Ma queste sono legittime opinioni, per quanto nocive alla scuola e alla formazione dei ragazzi. Il caso di un magistrato è diverso, perché con le sue sentenze dovrebbe applicare la legge, non esprimere il suo personale punto di vista. Purtroppo quello di Roma è solo l’ultimo di una serie di interventi che  hanno minato la credibilità della scuola e l’idea stessa dello stato di diritto. Ne ricordo solo alcuni. Una sentenza del 2011 accolse il ricorso dei genitori contro la bocciatura del figlio in una scuola media intitolata a Gioacchino Belli, che al caso avrebbe di certo dedicato uno dei suoi sonetti. La convergenza tra i familiari sindacalisti e un giudice amministrativo – forse memore di qualche docente antipatico – produsse la trasformazione di quattro 5 in altrettanti 6. Il Tar per l’occasione argomentò che si trattava di “insufficienze non molto gravi” e il ragazzo fu spostato in terza nel bel mezzo dell’anno, anche se la legge, stabilisce che si viene promossi solo "con voto non inferiore a sei decimi in ciascuna disciplina". Nel 2012 il Consiglio di Stato dichiarò illegittima l'esclusione dagli esami di una candidata sorpresa a copiare dal cellulare. Motivo: il provvedimento era stato deciso senza tener conto dell’intero percorso scolastico della ragazza e del fatto che l’episodio fosse da attribuire a «uno stato d’ansia probabilmente riconducibile anche a problemi di salute»”. Nel 2014 il TAR espropriò un consiglio di classe di una sua esclusiva competenza, cioè della valutazione finale, invece di limitarsi a eventuali rilievi di carattere formale. Fu così annullata la bocciatura di uno studente di un liceo classico romano, che aveva meritato 3 in matematica, 4 in fisica e 3 in storia dell’arte, perché i docenti non avrebbero valutato adeguatamente la sua preparazione complessiva. Infatti, sostenne il tribunale, in un liceo classico il 3 in matematica e il 4 in fisica sono meno gravi...

Sentenze di questo tipo si inseriscono nella tendenza della magistratura a intervenire in molti settori della società, anche perché sospinta da una sempre più forte rivendicazione di diritti veri o presunti e dal crescente rifiuto delle autorità di cui un tempo si accettavano le decisioni. Il ribasso di quella degli insegnanti ha varie cause, anche endogene; e mi riferisco a quei filoni di pensiero che si radicano nel ’68 e dintorni. C’è quindi sintonia tra le sentenze dalla parte dei presunti deboli e la diffusa pratica dei condoni sulla preparazione e sul comportamento. Una deriva che della scuola colpisce in modo grave la serietà, la quale, come benissimo la definisce il dizionario di Tullio De Mauro, è la “qualità di chi agisce con responsabilità, con correttezza, con capacità e volontà di assolvere i propri doveri e gli impegni assunti”.

Giorgio Ragazzini

("Pensalibero", 1° febbraio 2021)