domenica 16 giugno 2019

ESAMI: CAMBIARE OGNI ANNO, PERÒ SEMPRE IN PEGGIO


Mercoledì la prova di italiano scritto darà il via agli esami di maturità. Si potrà scegliere tra l’analisi di un testo letterario, il tema argomentativo e il tema di attualità. Il resto (seconda prova e orale) non sarà come lo scorso anno: la formula è cambiata.
Certo anche gli esami possono aver bisogno di modifiche in relazione ai cambiamenti della società. Ma est modus in rebus. Tanto meno si dovrebbe cambiare, come stavolta è accaduto, ad anno scolastico avviato, senza neanche dare tempo alle scuole di capire come prepararli. Negli ultimi 12 anni l’esame è stato cambiato 6 volte. Ma quali sono stati i principali cambiamenti del corso degli anni? Quello più importante è il numero delle materie da preparare per l’orale: tutte fino al 1968; solo due, di cui una a scelta del candidato, dal ’69, con l’evidente intenzione di compiacere la contestazione studentesca. Di nuovo tutte le materie per l’orale dal ’97 a oggi, con variazioni legate alle competenze dei commissari. Diverse volte è cambiata la fisionomia della commissione esaminatrice, un tempo composta da docenti tutti esterni, poi (per risparmiare) tutti interni, poi metà e metà. È cambiato ripetutamente il valore del «credito scolastico», cioè del punteggio relativo all’andamento del triennio, così come i punteggi da assegnare al colloquio o alle prove scritte e le modalità di attribuzione del «Bonus»: un gruzzoletto di punti, questo, da assegnare ai meritevoli. Mutate anche le condizioni per essere ammessi all’esame: prima occorreva la sufficienza in tutte le discipline, ora può bastare che sia sufficiente la media. Per rendere più raggiungibile questo traguardo, da quest’anno conterà anche il voto di condotta.
Come si sarà capito, si tende sempre più a facilitare, facilitare, facilitare. Ci si propone di diminuire ulteriormente la percentuale dei non ammessi (intorno al 2%), come quella dei non promossi all’esame, benché posizionata allo zero virgola. E per questo è stata abolita la «terza prova», quella scritta su varie materie preparata dalla commissione, temutissima dagli studenti per la sua vera o presunta difficoltà. Si vuole banalizzare per forza un esame che è prezioso proprio in quanto costituisce una messa alla prova delle proprie capacità. Se un ragazzo si preoccupa (com’è normale), è un dramma. Il compito di far tendere a zero la percentuale dei bocciati è stato ora «delegato» anche all’aumento dei punti legati al curriculum triennale, che passano da 25 a 40 sul totale di 100, che è il massimo (lode a parte). È stato abolito, rispetto alle decisioni della ex ministra Fedeli, anche l’obbligo di aver svolto l’intero monte ore di alternanza scuola-lavoro per essere ammessi all’esame. E rispetto al passato tale monte ore è stato, come chiedevano gli studenti e alcuni sindacati, pressoché dimezzato in tutti gli indirizzi. Via, purtroppo, il tema di carattere storico, ma non è detto che un richiamo alla storia non sia presente nelle altre tracce. Positivo invece il fatto che la seconda prova potrà avere un carattere multidisciplinare, coinvolgendo magari due materie per poter così trattare, anche in maniera trasversale, lo stesso argomento. C’è inoltre la novità del colloquio che inizierà da un argomento svolto durante l’anno ma estratto a sorte dal candidato, e delle griglie per la correzione e valutazione delle prove che non saranno più costruite dalle singole commissioni, ma predisposte a livello nazionale. Finalmente una importante dichiarazione di qualche giorno fa del ministro Bussetti a proposito della serietà degli esami da garantire anche indossando da parte dei candidati, e talvolta potrebbe essere opportuno ricordarlo pure a certi commissari, un abbigliamento consono ad un contesto così importante come l’esame di maturità. E ha fatto bene a ricordare che non si copia e se colti con il cellulare acceso si sarà esclusi dall’esame. Di questo dovranno essere consapevoli le commissioni, tutte, perché capita talvolta che commissari e presidenti si rendano perfino disponibili a fornire soluzioni di problemi e traduzioni ai candidati. Durante il colloquio è previsto che obbligatoriamente venga richiesto al candidato di trattare il tema della «Cittadinanza e Costituzione». Insomma, una occasione per dimostrare che le parole non vanno tradite dai fatti e che almeno durante l’esame di maturità non si insegna, permettendo la copiatura, il «valore» dell’ipocrisia.
Valerio Vagnoli
“Corriere Fiorentino”, 14 giugno 2019

sabato 8 giugno 2019

IL TRIONFO DI ROUSSEAU


Uno dei maggiori rischi che una democrazia possa correre è quello di permettere che la si scimmiotti proprio in uno dei luoghi deputati a insegnarla, come accade spesso nelle scuole superiori in occasione degli spazi che gli studenti autogestiscono (o addirittura si prendono con le occupazioni) per fare «le loro esperienze» di democrazia diretta. È quanto avviene da quando il diritto alle assemblee fu legalizzato nel 1974 dai cosiddetti Decreti delegati che sancirono la nascita della «partecipazione democratica» in diversi ambiti, scuola compresa. E con il diritto di svolgere attivi e assemblee fu varata la rappresentanza degli studenti e dei genitori negli stessi organi di gestione della vita scolastica. E forse proprio con queste misure si accentuò il lento e inesorabile declino della nostra scuola, la cui debacle, ahimé, è ormai scientificamente accertata. Furono però sufficienti pochi anni perché l’entusiasmo partecipativo degli studenti si spegnesse per riaccendersi ogni tanto con il riesplodere delle proteste. A sancire l’immiserirsi delle assemblee, come scriveva ieri il presidente dell’Anp Toscana Alessandro Artini, contribuirono negli anni le norme che avrebbero dovuto regolarle, sempre più confuse, contraddittorie e spesso demagogiche, al punto da consentire di parteciparvi solo al delegato del preside e non agli altri docenti; quasi che un loro aiuto ai ragazzi nell’organizzarle e nel gestirle minasse chissà quale autonomia. Evidentemente per molti è ancora difficile scrollarsi di dosso il macigno della pedagogia russoiana, dogma educativo negli anni Sessanta, con la condanna di qualsiasi intervento dei maestri per correggere, e perciò compromettere, la spontaneità dei bambini e dei ragazzi. Anche parecchi dei nostri esperti di educazione, legislatori compresi, sembrano poco inclini ad aggiornarsi e a tagliare i ponti con la loro «illusa gioventù» (V. Cardarelli). In tanto marasma normativo è facilissimo pescare la norma che contraddica le decisioni, soprattutto in fatto di disciplina, prese dagli organi scolastici. E ancora più facile è imbattersi in un vizio di forma, vista l’esosa mole di decreti, contratti, circolari, atti d’indirizzo, inviti, leggi con cui un preside dovrebbe gestire la scuola. E a questo, cioè a un vizio di forma, si sono attaccati i genitori di alcuni studenti del liceo Petrocchi di Pistoia per chiedere e ottenere l’annullamento delle misure disciplinari comminate ai loro figli, mesi fa opportunamente sanzionati perché in occasione di un’assemblea si erano resi colpevoli di gravi episodi di bullismo.
E alla presenza di un vizio di forma, l’organo di garanzia regionale, istituito all’interno del rispettivo Ufficio scolastico, non poteva che annullare i provvedimenti. D’altra parte la mia personale esperienza mi porta a credere che, se il ricorso fosse stato fatto al Tar o al Consiglio di Stato, di sicuro un motivo per annullare le sanzioni disciplinari si sarebbe trovato anche senza alcun vizio di forma. Non tanto per colpa dei magistrati, ma soprattutto grazie alla fioritura di una miriade di regole spesso non chiare. Ciò contribuisce a spingere famiglie e avvocati a cercare il cavillo per fare ricorso, con notevoli possibilità di vincerlo. Delegittimando così ulteriormente la funzione della scuola, oltre alla professionalità e alla dignità dei suoi docenti. Così il trionfo di Rousseau continua insieme a quello dei genitori che non educano i loro figli e, per dirla con Luca Ricolfi, impediscono anche ad altri di farlo.
Valerio Vagnoli
(Editoriale del “Corriere Fiorentino”, 8 giugno 2019)