In un Paese che tenesse davvero al
futuro dei giovani l’inizio dell’anno scolastico dovrebbe essere un momento
solenne. Se così fosse, il Presidente della Repubblica si rivolgerebbe agli
allievi di ogni età per ricordare l’importanza di padroneggiare l’italiano, di
conoscere la storia, la geografia e le scienze; l’importanza, insomma, di
quanto l’umanità che ci ha preceduto ha nei secoli indagato, scoperto,
costruito e regalato. Ma — da buon padre di famiglia — dovrebbe aggiungere che
per avere risultati e soddisfazioni l’arma decisiva è la perseveranza, cioè
l’impegno costante di chi non si arrende alle difficoltà. Le attitudini sono
importanti, ma, come può testimoniare qualsiasi atleta, la dote che possiamo
anche chiamare costanza, tenacia, grinta o determinazione vale più di ogni
altra cosa.
Purtroppo sono tutte parole scomparse
dal lessico scolastico e dai documenti ministeriali. Si è diffusa l’idea di una
scuola in cui solo divertendosi si impara, mentre alle più svariate
«competenze» si dà sempre più risalto rispetto ai contenuti disciplinari. Il 14
agosto scorso, per esempio, leggendo sul Corriere della Sera il documento
«L’educazione sfida centrale anche per il mondo produttivo», firmato da un
folto e qualificato intergruppo parlamentare, mi ha colpito questo passo
davvero sorprendente: «È nostra convinzione che per contrastare la povertà
educativa e la dispersione scolastica possa essere efficace l’introduzione
della metodologia didattica delle “non cognitive skills” (amicalità,
coscienziosità, stabilità emotiva, apertura mentale) nel percorso didattico
delle scuole medie e delle scuole superiori». Ben venga, certo, la
«coscienziosità» in una scuola in cui troppo spesso si tollerano
l’irresponsabilità, la pigrizia e la mancanza di puntualità, anche se ha poco a
che fare con la didattica e la può ottenere solo una scuola che non si scorda
di richiamare gli allievi alle loro responsabilità.
Ma proporre come obbiettivi didattici
nientemeno che l’«amicalità» e la «stabilità emotiva» conferma quanto l’istruzione,
cioè il cuore del sistema scolastico, venga sempre più eclissata e spodestata
dalle più disparate «educazioni» che evito di elencarvi. Quanto all’apertura
mentale, non è sempre stato (ed è) il risultato dello studio approfondito delle
materie, del rapporto con docenti intelligenti e preparati, insomma di una
scuola che funzioni?
Con tutto il rispetto per gli estensori
di un documento per altri aspetti sensato, proporre come rimedio
all’impreparazione e all’insuccesso scolastico di tanti ragazzi le «abilità non
cognitive» di cui sopra, rischia di servire soltanto a distogliere l’attenzione
da quelli che sono i veri provvedimenti necessari a risollevare il nostro
sistema scolastico, in particolare nel settore professionale. Tanto per fare un
esempio, lo sanno bene gli autori del Manifesto, che da qualche anno è
frequente che entrino in ruolo docenti di materie professionali senza mai,
sottolineo mai, aver lavorato nel settore di riferimento? Naturalmente questo è
possibile grazie all’esistenza di un sistema di reclutamento raffazzonato e
indegno di un Paese moderno. La vera emergenza è quella di formare e
selezionare con serietà insegnanti competenti nelle loro materie, nella
didattica, nella psicopedagogia, nel saper comunicare. Insegnanti esigenti, ma
dotati delle necessarie attitudini relazionali e affettive, impegnati ad
aggiornarsi e consapevoli di quanto anche attraverso l’esempio si insegni ai
propri allievi. Purtroppo però all’orizzonte non si vede una forza politica in
grado di affrontare la crisi della scuola (una crisi che pesa sui progetti di
vita di milioni di giovani), con un concreto programma di serietà e di rigore
che riguardi tutti: insegnanti, dirigenti, studenti.
Valerio Vagnoli
(Editoriale del “Corriere Fiorentino”, 28 agosto 2019)