venerdì 22 dicembre 2017

TROPPA DEMAGOGIA, COSÌ LA SCUOLA FABBRICA RAGAZZI INFELICI

Nel suo bel saggio Teoria della classe disagiata sulla crisi, forse epocale, di quello che un tempo si definiva “ceto medio”, il giovane e brillante studioso Raffaele Alberto Ventura dà ampio spazio all'analisi del nostro sistema scolastico, visto come uno dei più demagogici della nostra epoca. Ispirandosi anche alle riflessioni di altri sociologi ed economisti,  Ventura afferma che negli ultimi decenni, soprattutto in Italia, abbiamo reso infelici le persone abituandole a uno stile di vita che ora non possono più permettersi; e che questo le porterà prima o poi a ribellarsi contro una società che ha fatto sentire come necessari anche molti beni superflui. Da parte mia ho pochissimi rimpianti per quando la quasi totalità delle strade erano bianche, i campi arati grazie ai buoi e nei paesi un' unica bottega vendeva di tutto, dall'ago per cucire al lievito per fare il pane in casa. Resta il fatto che la crisi economica, il disorientamento, la sfiducia, a volte il nichilismo che da tempo colpiscono il nostro paese non affliggono in maniera così profonda altre nazioni europee, anche perché, al contrario di noi, hanno salvaguardato, pur riformandoli,  l'ossatura dei loro sistemi scolastici, contribuendo così a mantenere, malgrado la crisi, solide le loro economie. Inoltre, al contrario di noi, non si sono «affidati [...] alla propaganda dell'industria culturale e alle prediche degli intellettuali, che fin da piccoli ci hanno educati ai lussi dello spirito e alla dissimulazione di tutto ciò che, attorno a noi, è ‘economico’, ovvero la realtà». Così, per evadere dalla realtà, ci siamo serviti anche della scuola, diventata generalista, facile e realmente omologante nel far perdere, salvo il Liceo classico e pochissimo altro, identità alla gran parte degli altri storici indirizzi,  illudendo  peraltro i ragazzi  che scegliersi a quindici-sedici anni  il futuro  avrebbe significato comprometterlo per sempre.  E per il  trionfo  di una scuola del genere si sarebbero ideati curricula scolastici fatti di “paccottiglia alla moda”. E, aggiungo io, si sarebbe alimentato il disprezzo per il lavoro manuale, sottovalutato l'impegno nello studio, reclutato molti docenti e dirigenti senza adeguata preparazione per poi trattarli in maniera poco decorosa. Non fa così un paese che ha veramente a cuore il futuro dei ragazzi ove quelli svantaggiati stanno, non a caso verrebbe da dire,  inesorabilmente crescendo! La conseguenza di tutto ciò è che tra i due milioni di candidati al prossimo concorso per il pur nobilissimo lavoro di collaboratori scolastici (un tempo, di cui evidentemente vergognarsi chiamati bidelli o custodi ) vi sono centinaia di migliaia di diplomati e laureati. In altre parole, per dirla con l’autore del saggio, “la mobilità sociale è diventata oggi più difficile di quanto fosse nel dopoguerra”. Intanto le università sono spinte dal ministero, che finanzia di più chi sforna più laureati, a raggiungere l’obiettivo in ogni modo, compresa una grande generosità nel distribuire titoli e voti.  Una università di questo genere non dà molte prospettive alla maggior parte degli studenti e “avvantaggia chi può spendere più degli altri” potendo permettersi, dopo la laurea, master e specializzazioni varie, anche all'estero, che garantiranno una professione corrispondente agli studi fatti. Non vedo quindi perché molti rettori si stupiscano se i giovani sono poco attratti dalla laurea. Per gli altri, cioè per la gran parte dei laureati, rimane la desolazione di doversi inventare, spesso intorno ai trent'anni e oltre, un lavoro e un futuro radicalmente diversi da come li avevano sognati. Un numero crescente di giovani finisce così per scomparire dalla vita sociale chiudendosi in casa o sopravvivendo grazie alle risorse delle famiglie, tuttavia sempre più scarse. Non pochi scappano all'estero; e non solo i cosiddetti “cervelli”. Molti lo fanno anche per andarvi a svolgere dei lavori di cui qui si vergognerebbero, perché li vivrebbero come l'esibizione del loro fallimento. Ma il vero fallimento è quello di una buona parte della classe dirigente e probabilmente, se non interveniamo con urgenza e fuor di demagogia, anche quello dell'intero Paese.
Valerio Vagnoli
(“Corriere Fiorentino”, 21 dicembre 2017)

domenica 17 dicembre 2017

IL CELLULARE A SCUOLA: PERCHÉ NO E PERCHÉ SÌ (“la Repubblica Firenze” di oggi)

Lo smartphone
in classe?
È un incentivo
alla distrazione


Il proibizionismo
non funziona
La scuola insegni
a essere liberi
GIORGIO RAGAZZINI
Sull’uso scolastico dello smartphone, di cui si è occupata Valeria Strambi su La Repubblica Firenze, si discute da tempo e in modo particolare da quando la ministra Fedeli ha deciso di creare due gruppi di “super esperti, per elaborare, entro gennaio, linee guida e proposte operative”. A parte il fatto che i veri super esperti in materia sono i docenti, che da qualche anno devono combattere un avversario in più della già labile capacità media di attenzione dei loro allievi, mi permetto di mettere in fila i principali motivi per cui si tratta di un’iniziativa profondamente nociva. Lo farò subito dopo aver ricordato che proprio in questi giorni il ministro francese dell’educazione ha deciso di vietare l’uso dei cellulari, già operativo durante le lezioni, anche durante pause e intervalli. "Oggigiorno – ha dichiarato – i bambini e i ragazzi non giocano più nelle pause, sono tutti di fronte ai loro smartphone e dal punto di vista educativo questo è un problema". Detto questo, i cellulari in mano ai ragazzi durante le lezioni sono un formidabile incentivo a distrarsi praticamente impossibile da controllare. Lo conferma lo stesso presidente dell’Indire Biondi citato nell’articolo, che pone come condizione necessaria per permetterlo il “ribaltamento di spazi e tempi dell’apprendimento”. Qualunque cosa significhi, non sarà così né domani né l’anno prossimo, il che equivale alla necessità di vietarli. Secondo motivo per dire no: non è affatto un bene che la scuola si faccia invadere da tutti i fenomeni “che ormai fanno parte della quotidianità di tutti noi”, come dice la professoressa Ranieri. Al contrario, gli allievi devono poter fare esperienza della possibilità di non rimanere rinchiusi in tutto ciò che il mondo esterno ci propone e propina. Esistono poi ormai numerose conferme scientifiche della diffusione di una vera e propria dipendenza dal cellulare, diventato per molti ragazzi fonte di stress e di ansia, per il bisogno di essere sempre contattabili e la paura di esaurire la carica. E secondo una ricerca britannica, il 60% dei giovani tra i 18 e 29 anni va a letto con lo smartphone. Non si capisce quindi perché, mentre si mettono in guardia i giovani rispetto a fumo, alcol e droghe, si debba poi addirittura nobilitarlo come insostituibile strumento didattico.
L’autore è tra i fondatori del Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità


LUDOVICO ARTE
Il Gruppo di Firenze ha da tempo dichiarato guerra alla scuola che considera “buonista”. E non perde occasione per ribadire che occorre recuperare autorevolezza e serietà attraverso l’ordine e la disciplina, il rigore e i divieti. Così si chiedono più bocciature, si rivaluta il voto di condotta, si propongono i cani antidroga per far paura ai ragazzi, si esigono misure esemplari verso chi non rispetta le regole. L’ultima crociata è quella contro i telefonini, i nuovi demoni dei tempi moderni. Il Gruppo di Firenze rappresenta, naturalmente, una idea di scuola legittima. Che trova facile consenso in quella parte di opinione pubblica che cerca certezze nel ritorno al passato. Noi la pensiamo diversamente.
Ripartiamo dalla questione dei telefonini. Che oggi se ne faccia un uso eccessivo è certo. Ma è altrettanto certa la loro utilità, come dimostra il fatto che tutti li abbiamo in tasca. A meno che non si pensi che il demonio si sia impossessato di noi. La scuola non deve seguire le mode, ma non può essere fuori dalla realtà. Perché la scuola fuori dalla realtà l’abbiamo conosciuta e non la rimpiangiamo. Il problema non è il telefonino in sé. E’ l’abuso. Ma contrastarlo con i divieti sarebbe come bloccare le auto perché ci sono gli incidenti stradali. Il proibizionismo ha già dimostrato storicamente la sua inefficacia e, oltretutto, impedire qualcosa agli adolescenti alimenta spesso il loro desiderio. Lo psicoterapeuta Renato Palma racconta una simpatica storiella in cui la comunità dei Sissipole si contrappone a quella degli Unsipole. La scuola italiana è stata per troppo tempo vittima degli Unsipole, che vietavano di tutto. Riempire di mostri l’immaginario dei nostri ragazzi non ci sembra la strada giusta. Vorremmo una scuola in cui le regole liberino e non imprigionino, dove si educhi a essere autonomi e responsabili, anche rispetto ai telefonini. Il modello autoritario, che, per dirla con Recalcati, pretende di indicare la retta via e raddrizzare le viti storte, non è il nostro. Perché le viti storte le amiamo e perché vorremmo che ognuno la retta via se la trovi da solo. In una parabola un uomo va dal dottore per un terribile mal di testa. Racconta che non beve mai, non fuma, non fa sesso e va a letto presto. E’ moralmente rigoroso e non cede alle tentazioni. “Il suo problema è semplice”, gli dice il dottore, “Ha l’aureola troppo stretta, non c’è che da allentarla un po’”. Ecco, una scuola che fa venire quel genere di mal di testa non ci interessa.
L’autore è dirigente scolastico e collaboratore di “La Repubblica Firenze”

sabato 16 dicembre 2017

UN CHIARIMENTO: AUTORITÀ, AUTOREVOLEZZA, AUTORITARISMO

Facciamo un po' di chiarezza su tre termini ricorrenti nel dibattito sulla scuola: autorità, autorevolezza, autoritarismo. E' importante non confondere autorità e autorevolezza, tanto meno legittimare la seconda rifiutando la prima. L'autorevolezza è il prestigio conquistato sul campo dal singolo, quando dà dimostrazione di serietà e di capacità. Il numero di insegnanti autorevoli è tanto più alto quanto maggiore è la selezione in entrata e l'esperienza acquisita nel corso degli anni lavorando con impegno e senso di responsabilità. L'autorevolezza è anche legata alle caratteristiche personali. Sarebbe dunque irrealistico pretendere da tutti i docenti italiani, che sono più di settecentomila, lo stesso grado di autorevolezza. 
L'autorità è invece l'appoggio e la legittimazione che la società assegna comunque a TUTTI gli insegnanti in relazione al ruolo che rivestono, a cui sono connessi diritti, mansioni, poteri e ovviamente doveri. L'autorità degli insegnanti è stata irresponsabilmente indebolita confondendola con l'autoritarismo. Il Dizionario Italiano Ragionato (DIR) così definisce "autoritario": "Che fa valere in modo eccessivo la propria autorità, o si comporta come se avesse un'autorità che di fatto non detiene". Minare l'autorità degli insegnanti, dunque della scuola, per esempio legando i provvedimenti disciplinari a un eccesso di procedure burocratiche e di condizioni o impedendo che si possa bocciare un allievo per comportamenti gravemente inadeguati, è stata una grave responsabilità dei governi negli ultimi decenni. E ha prodotto in misura crescente logoramento dei docenti, scadimento degli apprendimenti a danno dei ragazzi educati e bullismo. (GR) 

domenica 3 dicembre 2017

IL BUON SENSO NON PUÒ SOSTITUIRE LE REGOLE

(“Corriere Fiorentino”, 3 dicembre 2017)
In un’intervista al “Corriere Fiorentino” di ieri, il sottosegretario all’Istruzione Gabriele Toccafondi aveva preso le distanze dalla richiesta di maggiore severità sulla condotta degli allievi che è emersa dal sondaggio della società Eumetra di Renato Mannheimer. Lo stesso quotidiano pubblica oggi la risposta di Valerio Vagnoli e Andrea Ragazzini del Gruppo di Firenze.

Gentile direttore,
nell’intervista pubblicata ieri dal Corriere Fiorentino al sottosegretario Gabriele Toccafondi, che conosciamo e di cui abbiamo stima, ci sono alcune considerazioni che abbiamo trovato francamente sorprendenti.
Dire che «le regole servono a poco, è una questione culturale», è obiezione che ci saremmo aspettati da quel tardo sessantottismo da cui lo stesso sottosegretario prende le distanze. Tanto meno ci sembra appropriato sintetizzare la richiesta di una scuola più rigorosa dicendo che si vuole il ritorno alle «bacchettate sulle nocche» e «alla punizione dietro la lavagna». Quanto emerge dal sondaggio, espressione di una larga maggioranza dell’opinione pubblica, auspica semplicemente una maggiore serietà nei comportamenti e maggiore fermezza educativa da parte della scuola, non il ritorno a certi metodi del passato. Insomma, nei panni del sottosegretario noi prenderemmo più sul serio questi dati. In un Paese in cui il rispetto delle regole, a tutti i livelli, è da troppi considerato una roba da gonzi e nel quale la classe politica dà spesso in materia dei pessimi esempi, si stenta ancora a convincersi che la scuola deve essere in questo rigorosa, perché gli studenti di oggi siano domani dei buoni cittadini e magari dei politici competenti e onesti. La considerazione che un Paese civile ha delle regole è parte integrante dei suoi fondamenti culturali e civili, né le regole possono essere sostituite dal «buon senso». Devono essere, questo sì, ragionevoli e il più possibile condivise, ma poi anche applicate, pena la credibilità delle stesse e di chi le ha formulate. L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), e non per fortuna inesistenti nostalgici dei maestri con le verghe, ha di recente certificato che i migliori risultati sul piano della preparazione culturale e delle competenze vengono ottenuti, non a caso, nei sistemi scolastici che danno molto valore al comportamento corretto degli studenti. 
In questo 2017 ricorre il cinquantenario della morte di don Milani e se ne ricorda l’opera nei suoi diversi aspetti. Quasi mai però si fa riferimento al suo inflessibile rigore educativo, talvolta a dire il vero perfino eccessivo e successivamente sostituito da molti suoi tardi epigoni ( tra i quali non mettiamo il sottosegretario) con una più spendibile pedagogia giustificazionista e permissiva. Stare dalla parte dei ragazzi significava per don Lorenzo costringerli a riscattare con lo studio e il sacrificio quotidiano la propria condizione di povertà e di emarginazione. Noi pensiamo che anche oggi, se la scuola vuole essere veramente un «ascensore sociale» deve offrire agli studenti le migliori opportunità ma anche chiedere responsabilità e impegno, senza i quali quell’ascensore non può funzionare.
Valerio Vagnoli e Andrea Ragazzini

sabato 2 dicembre 2017

IL SONDAGGIO: TANTI NO ALLA SCUOLETTA DEI POCHI (RUMOROSI)

I dati di questo sondaggio che come gruppo di Firenze abbiamo commissionato a Eumetra, autorizzano per fortuna una speranza al cambiamento. Risulta in tutta evidenza che l’opinione pubblica ha della scuola un’idea che contrasta decisamente con gli orientamenti fatti propri dai ministeri degli ultimi decenni: un trionfo di demagogia eredità del peggior Sessantotto.
Le percentuali di coloro che vorrebbero una scuola diversa, più attinente quindi con i principii della Costituzione e realmente fucina del senso di appartenenza ad una civiltà e ad una comunità che si faccia carico di tramandare entrambe queste istanze, sono inequivocabilmente in contrasto con chi ha determinato a costruire, e continua a farlo ostinatamente, la scuoletta dei nostri tempi. Una scuoletta che è il frutto di una irresponsabilità da condividere tra molte componenti. Innanzitutto i politici che, anche per quanto riguarda la scuola, hanno preferito accontentare coloro che sono abituati a fare la voce più grossa, e pertanto a contare, anziché prendersi le responsabilità di dare un senso alla vita dei ragazzi e soprattutto al loro futuro e a quello del Paese. Vi sono poi le responsabilità di quei genitori ( alcuni del Virgilio di Roma ne sono degni rappresentanti ) che non rinunciano a voler rimanere eterni ragazzi, amici dei loro pargoli ai quali nessuno può permettersi di creare ansie, difficoltà e insuccessi, tanto meno un disgraziato di docente che a malapena porta a casa i soldi per tirare a campare. Naturalmente questa tipologia genitoriale, e i dati del sondaggio sembrano confermarlo, è una minoranza ma da decenni stravince perché «conta» in quanto si fa, e sa farlo, sentire; e anche perché si richiama ad ideologie che in certe categorie culturali ed economicamente rassicurate sono graniticamente irrinunciabili. Non fosse altro perché grazie al trionfo di queste ideologie le medesime categorie si sono assicurate carriere senza tante selezioni e senza tanti sacrifici. Genitori del genere stravincono all’interno delle scuole, in particolare e non a caso nei licei, avvalendosi anche di quel carrozzone demagogico e fintamente democratico rappresentato dai cosiddetti Decreti delegati del ‘74, che permette loro sconfinamenti nella didattica e nella sua gestione, degni solo di certe dittature populiste sudamericane del secolo scorso. Naturalmente i presidi e i docenti hanno anch’essi abbondanti responsabilità per aver alla fine abdicato al loro ruolo, permettendo di essere assaliti, svillaneggiati e umiliati da personaggi, come abbiamo visto, spesso animati a rappresentare solo se stessi e a difendere le apatie o le arroganze dei loro figli. A questa categoria di genitori se ne contrappone un’altra, numericamente molto più ampia, che invece non è attrezzata, verrebbe da dire per fortuna, per ricoprire questo ruolo alla maniera dei loro colleghi «impegnati». Più silenziosa rispetto alla prima, questa categoria patisce gli insuccessi dei figli o gode momentaneamente dei loro successi sapendo però che comunque la scuola difficilmente servirà a premiare i bravi. Né forse servirà a trovare un posto di lavoro adeguato alla loro preparazione, né a rendere più educati e maturi i loro figli. Una scuola senza regole, senza rispetto e ammirazione per chi ci lavora serve solo a farci lentamente precipitare nella barbarie e a premiare alla fine proprio i furbi e gli arroganti. Per questo quando l’opinione pubblica ha ancora la possibilità di poter esternare liberamente il proprio disappunto, anche attraverso l’anonimato dei sondaggi, reclamando serietà, impegno, educazione, rispetto delle regole e quindi delle leggi, è fondamentale che Governo e Parlamento abbiano il coraggio di cambiare rotta e di dare risposte finalmente chiare e coraggiose. Guidare un Paese democratico consiste innanzitutto nel conoscerlo veramente e nell’avere come interlocutori non solo, come nel caso della scuola, i professionisti della pedagogia, delle carriere ministeriali e gli arroganti. Il risultato del sondaggio ci rassicura, perché ci autorizza a pensare che abbiamo la possibilità di salvarci in quanto la maggioranza delle persone è disposta a credere che si può ancora cambiare questo Paese; e lo si fa solo se la scuola sarà diversa, profondamente diversa da come è purtroppo da molti anni.
Valerio Vagnoli
("Corriere Fiorentino", 1° dicembre 2017)

giovedì 30 novembre 2017

GLI ITALIANI BOCCIANO LA SCUOLA BUONISTA. Un sondaggio di Eumetra per il Gruppo di Firenze

Comunicato stampa
Sondaggio: la scuola deve essere più severa sulla condotta
e più esigente sulla preparazione degli studenti

- Per il 67% degli italiani la scuola è troppo poco severa riguardo alla condotta degli allievi;
- il 68% giudica sbagliata la recente abolizione della bocciatura per l’insufficienza in condotta;
- il 59% pensa che la scuola sia troppo poco esigente riguardo alla preparazione degli studenti;
- il 75% considera utili i compiti a casa;
- più del 50% è venuto a sapere che durante gli esami si copia.
Dunque i risultati del sondaggio (in allegato) dicono che in grande maggioranza l’opinione pubblica non condivide gli orientamenti pedagogici che hanno caratterizzato, con rarissime eccezioni, le politiche scolastiche degli ultimi decenni.
Dall’orizzonte ministeriale è infatti sparito il valore dell’impegno, dello studio e dell’esercizio costanti (a scuola, ma anche a casa). La colpa dell’insuccesso sembra essere esclusivamente della scuola, di una didattica sbagliata, di un’insufficiente “personalizzazione” dell’apprendimento. Gli esami poi sono stati via via aboliti e i due rimasti (terza media e maturità) resi sempre meno impegnativi.
Quanto alla disciplina, cornice indispensabile dell’apprendimento, mai si è sentito un ministro parlare agli studenti di responsabilità, dei doveri che si accompagnano ai diritti, di rispetto delle regole. E gli insegnanti, come i dirigenti, mai sono stati sollecitati a farle rispettare con la necessaria fermezza. Frequenti anzi i messaggi in direzione opposta, come la recente abolizione del 5 in condotta.
Ovvie conseguenze: difficoltà di chi in classe cerca di contrastare, anche con sanzioni, i comportamenti scorretti; stress crescente tra gli insegnanti; danni molto seri alla preparazione degli studenti; progressivo scadimento del senso civico.
Ci auguriamo che questi dati possano aiutare i responsabili politici a correggere la rotta, sapendo di avere l’appoggio della maggioranza degli elettori; e facciano sentire meno soli gli insegnanti e i dirigenti che si battono per una scuola accogliente, sì, ma anche rigorosa.
Firenze, 30 novembre 2017 

giovedì 23 novembre 2017

IL DECLINO DELL’ITALIANO NEL PAESE DEI CONDONI

(Pubblicato sulla rivista Il governo delle idee, settembre-ottobre 2017)
Nel febbraio scorso la lettera aperta di oltre seicento docenti universitari che denunciava le carenze in italiano dei loro studenti suscitò consensi, ma anche reazioni negative solo in minima parte attente a quello che effettivamente diceva il testo. Fra i critici, soprattutto i linguisti sembrarono vivere l’iniziativa come un’invasione di campo – benché fossero numerosi i loro colleghi tra i firmatari, di cui otto accademici della Crusca – e alcuni chiesero su quali dati scientifici si basasse quell’allarme; quasi che le numerose notizie di stampa succedutesi negli anni precedenti sul semi-analfabetismo di molte matricole non fossero un motivo sufficiente per porre il problema; e come se il numero stesso dei sottoscrittori non fosse di per sé una prova di quanto grave sia la situazione. Altri, inforcando gli occhiali dell’ideologia, parlarono di nostalgia della scuola classista del passato, un’accusa basata soltanto sulla richiesta di regolari verifiche degli apprendimenti linguistici, comprendenti tra l’altro dettato, analisi grammaticale e chiarezza della scrittura corsiva (anche ultimamente rivalutata in quanto utile allo sviluppo cognitivo). Altri ancora, scambiando l’appello per un manifesto didattico, denunciarono l’assenza di questa o quella metodologia. Molti infine vi hanno visto un puro e semplice atto di accusa contro la scuola primaria, solo perché si sottolinea che al termine della scuola media dovrebbe essere raggiunta una sufficiente padronanza della lingua – come del resto prescrivono le indicazioni nazionali. Il che non implica affatto che non si debba continuare a lavorare anche in seguito sulle competenze linguistiche.
In realtà, se si legge la lettera “dei 600” sine ira et studio, dovrebbe saltare agli occhi che l’obbiettivo di carattere generale è la necessità di “una scuola davvero esigente nel controllo degli apprendimenti oltre che più efficace nella didattica”; che quello più specifico che riguarda l’italiano è “il raggiungimento, al termine del primo ciclo, di un sufficiente possesso degli strumenti linguistici di base da parte della grande maggioranza degli studenti; e che la strada da percorrere in concreto dovrebbe prevedere anche “l’introduzione di verifiche nazionali periodiche durante gli otto anni del primo ciclo”. A differenza di quanto si fa con i test Invalsi, che si propongono (o pretendono) di valutare competenze complesse, si tratterebbe di accertare solo conoscenze e abilità assolutamente imprescindibili a un certo livello del percorso scolastico. D’altra parte, se le stesse indicazioni nazionali per l’italiano stabiliscono alcuni traguardi “ineludibili” e “prescrittivi” già per la fine della scuola primaria, tra cui quello di saper scrivere “testi corretti nell’ortografia, chiari e coerenti”, cosa c’è di più logico e anzi doveroso di una verifica? E il carattere “nazionale” di queste verifiche, che sarebbero cioè le stesse – a ciascun livello – per tutte le scuole italiane, è indispensabile se si vogliono confrontare e valutare i risultati degli sforzi fatti per migliorare la situazione. Inoltre costituiscono un incentivo per un maggiore impegno di tutti.
Eppure è proprio qui che casca l’asino. La scuola italiana manifesta da decenni una palese insofferenza per la cultura del controllo (serio) dei risultati. Di qui l’abolizione degli esami nella scuola elementare (ce n’erano due) e al termine del biennio ginnasiale; di qui la ripetuta semplificazione di quelli che rimangono solo perché prescritti dalla Costituzione; di qui non di rado la vera e propria falsificazione delle valutazioni negli scrutini di fine anno all’ombra del “voto di consiglio”, in cui miracolosamente i quattro si trasformano in sei in barba a quanto risulta dai registri. Eppure una scuola rigorosa (che alla fine può bocciare di meno perché sollecita di più l’impegno degli studenti) è nell’interesse prima di tutto dei ragazzi che partono svantaggiati dal contesto familiare.
C’è poi da aggiungere, a proposito di valutazione dei risultati, la latitanza del ministero rispetto a una minoranza di docenti, la cui grave inadeguatezza sul piano delle capacità o della correttezza professionale può continuare per anni a rovinare indisturbata intere classi oltre che il prestigio della categoria.
Infine, sulla diffusa pratica del copiare durante gli scritti degli esami di Stato, moltiplicatasi con l’avvento di internet, le istituzioni tacciono ostinatamente. Mai si è sentito un ammonimento da parte del ministro di turno, mai si è provveduto a serie forme di prevenzione nonostante le ripetute campagne del Gruppo di Firenze e dell’Associazione Nazionale Presidi; e mai naturalmente si è saputo di provvedimenti disciplinari a carico di quei colleghi che ritengono giusto “aiutare” i candidati non solo chiudendo un occhio o due, ma a volte fornendo loro stessi traduzioni e soluzioni di problemi.
Potremmo continuare, ma il contesto è ormai chiaro: il paese dei condoni edilizi e fiscali è anche quello dei condoni scolastici e educativi, in cui merito e responsabilità vengono di regola snobbati o penalizzati, benché in realtà assicurino (anche se con crescente fatica) la tenuta complessiva del sistema, scolastico o sociale che sia.
Ecco quindi perché non stupisce che la proposta centrale dell’appello sulla crisi dell’italiano, quella delle verifiche periodiche, non sia stata accolta – almeno per il momento – dal governo della scuola. Va naturalmente riconosciuta la cortesia istituzionale che ha spinto la ministra Fedeli a ricevere i promotori dell’iniziativa, dedicando loro un incontro non frettoloso. Facendo però capire che si stanno battendo altre strade per affrontare il problema, peraltro in vario modo ridimensionato dai dirigenti ministeriali presenti*. Non sarà quindi facile vincere le resistenze alla cultura della verifica, ma neppure far dimenticare una denuncia che ha messo il dito in una piaga aperta della scuola italiana.
Giorgio Ragazzini

* Successivamente alla pubblicazione di questo articolo sul "Governo delle idee", la Ministra ha chiesto al noto linguista Luca Serianni di presiedere una commissione incaricata di studiare il problema posto dai docenti universitari. Si dovrebbe occupare, a quanto ha detto Valeria Fedeli, di rivedere le indicazioni nazionali del primo ciclo di studi, che, secondo un'altra proposta contenuta nell'appello, dovrebbero essere rese più essenziali. Ma non risulta che si intenda andare anche verso un sistema strutturato di verifiche nazionali dei risultati.

sabato 18 novembre 2017

SCONFIGGERE LA MAFIA DA DENTRO UN CARCERE

(“Corriere Fiorentino", 18 novembre 2017)
Caro direttore, stasera festeggerò insieme ad Antonio Gelardi, che ha scelto proprio Firenze per farlo perché qui giovanissimo iniziò la sua carriera con l’incarico di vicedirettore nell’allora nuovo carcere di Sollicciano, il suo compleanno. Sessant’anni spesi benissimo, malgrado la grave malattia che da oltre vent’anni lo affligge e che gli lascia pochissima autonomia, perfino nel respirare. Ciò non gli impedisce di fare ogni giorno sessanta chilometri per andare da dove abita a dirigere il carcere di Augusta, in provincia di Siracusa, con la fermezza e la grazia illuminata di chi sa che la mafia si può sconfiggere non solo perché i mafiosi — anche loro grazie a dio — se ne vanno, ma perché il carcere deve diventare il luogo in cui anche coloro che si sono macchiati di crimini orrendi, possono e devono essere recuperati. Il carcere di Gelardi rappresenta forse l’esempio migliore in Italia di come attraverso la formazione, il lavoro, l’arte, la scuola, la solidarietà e malgrado la scarsezza di mezzi, si possano fare miracoli. Perfino i Radicali gli riconoscono questa sua capacità illuminata, e non a caso quella di Augusta è la casa di reclusione ove spesso si recano per additarla a esempio e per seguire le numerose attività che vi si svolgono. Eravamo poco più che ragazzi quando, in ruoli diversi, ci ritrovammo a Sollicciano, in quello che fin dalla sua inaugurazione appariva già un carcere vecchio e malandato. Pochissimi anni dopo Gelardi sarebbe diventato direttore ad Augusta. Una personalità che continua ancora oggi a stupirci per la forza e per il coraggio, anche nell’andare avanti malgrado la scarsezza di mezzi. È una gran bella occasione vedere Gelardi, come lo è sentirci per telefono quasi tutte le settimane. Potrebbe, per motivi di salute, già essere in pensione, ma rimarrà al suo posto di lavoro in carcere fino a quando non scadranno i tempi propri di tutte le persone che non hanno problemi. È così che si sconfigge la mafia, e non soltanto in Sicilia, senza aspettare che siano le malattie e la vecchiaia a portarci via i mafiosi che temono soprattutto gli uomini dello Stato che fanno il loro dovere. Amareggia che proprio lo Stato e i politici non sempre si accorgano di uomini che lo servono come da decenni fa Antonio Gelardi, che ritorna per i suoi sessant’anni nella città dove si è formato e dove ebbe modo di collaborare con personalità quali i giudici Alessandro Margara e Antonino Caponetto.
Valerio Vagnoli

venerdì 3 novembre 2017

IL TIRO ALL'INSEGNANTE, LOGICA CONSEGUENZA DELLA PEDAGOGIA MINISTERIALE

Pubblichiamo la lettera da noi inviata l'altro ieri alla Ministra dell'Istruzione, a commento di un corsivo di Massimo Gramellini sul grave affronto a un'insegnate messo in atto a Mirandola. Da decenni, con rarissimi momenti di resipiscenza, il ministero diffonde e spesso impone una pedagogia del dialogo a tutti i costi, mentre scredita e limita ben al di sotto della sufficienza le sanzioni, che sarebbero in quest'ottica l'opposto dell'educazione (è recente l'abolizione della bocciatura per cattiva condotta). Buona parte dei dirigenti - e comprensibilmente non pochi colleghi - si sono adattati a questa ideologia totalmente contraria all'interesse educativo dei giovani. Nessuna meraviglia, quindi, che episodi vergognosi di questo tipo siano da tempo frequentissimi e che, anche quando non si arriva a tanto, il rispetto delle regole più ovvie richieda spesso fatica e perdite di tempo a non finire. 

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Gentile ministra Fedeli,
sul "Corriere della Sera" di stamani Massimo Gramellini racconta - desolatamente - un episodio, uno tra i tanti che non arrivano sui giornali, verificatosi in una classe della scuola italiana: uno studente ha tirato il cestino dei rifiuti in testa all'insegnante in cattedra, che non ha reagito, neppure alzando la testa. Certo perché sapeva che nella sua scuola, come in tantissime altre, non si punisce chi si comporta male. E come lapidariamente scrisse Leonardo da Vinci: "Chi non punisce il male, comanda che si faccia". Un'infinità di colleghi sono costretti a non reagire (o lo fanno senza risultati) nella scuola dei condoni educativi, parte della società dei condoni di ogni tipo. Aggrava la posizione del tiratore il fatto che si sia accordato con un compagno perché filmasse tutto col cellulare per poi diffonderlo in rete. Il che dovrebbe anche suggerire un’ulteriore riflessione sull’opportunità di sdoganare gli smartphone come strumenti didattici.
Con la decisione di abolire il voto di condotta e quindi la possibilità di bocciare - come extrema ratio - chi ripetutamente e gravemente abbia violato le regole della convivenza civile, è stato mandato agli studenti un messaggio che suona promessa di impunità. A poco serviranno, in assenza di chiari paletti di fronte alla maleducazione e al teppismo, i piani nazionali per insegnare il rispetto reciproco, che viene ampiamente già  insegnato da tutti i colleghi. Per parte nostra non ci stancheremo di ripetere che non c'è sistema educativo che possa fare sempre a meno di sanzioni proporzionate alla gravità dei comportamenti. E non c'è scuola che possa funzionare senza disciplina, come più volte ha sottolineato l'Ocse.
Mi permetto di inviarle in allegato, insieme al Caffé di Gramellini, un mio recente intervento sull'argomento.
Giorgio Ragazzini

sabato 28 ottobre 2017

L’USCITA DEI RAGAZZI, UNA TEGOLA IN PIÙ SULLA SCUOLA DEI RICORSI

(“Corriere fiorentino”, 28 ottobre 2017)
Nel mondo della scuola è diffuso lo scaricabarile in tema di responsabilità di qualsiasi tipo; e spesso alla fine il cerino resta in mano ai docenti e soprattutto ai presidi che in Italia hanno sulle loro spalle oneri che non ha nessun altro dirigente della Pubblica amministrazione.
Oneri tra cui è compreso quello di farsi avvocato dello Stato nelle cause di lavoro relative al proprio personale. Anche quando la responsabilità ricade sul dipendente, quasi sempre le sentenze chiamano a risponderne anche il dirigente per non averlo adeguatamente controllato e istruito in merito ai suoi compiti. Tra questi, secondo quanto stabilito da una recente ordinanza della Cassazione, c’è quello di verificare che gli allievi minori di quattordici anni siano prelevati all’uscita da scuola dai loro genitori o da persona appositamente delegata a farlo. Immaginatevi il caos di quei minuti davanti a scuole frequentate da centinaia e centinaia di allievi, con la possibilità che qualcuno scappi al controllo dei poveri docenti! Ma tornando al problema sollevato da questa sentenza, che ne conferma altre dei Tribunali ordinari, di sicuro essa contribuisce a creare ulteriore tensione tra scuola e famiglie, per le quali è comodo farle la guerra, vista la farraginosa normativa da cui è sommersa. Una normativa su cui sono basate molte — e a volte scandalose — sentenze dei Tar, che danno spesso torto alla scuola. Tanto nessuno o quasi farà ricorso, vista anche l’inadeguatezza degli organici dell’Avvocatura dello Stato, che dovrebbe sostenere le ragioni dell’istituzione.
Rispetto a questo sfascio legale, ma anche culturale, le famiglie e i loro avvocati hanno sempre più possibilità di portare a casa sentenze a loro favorevoli, quando il ragazzo sia stato escluso dall’esame perché scoperto a copiare o perché non ammesso agli esami per le numerose insufficienze. È poi quasi normale che in caso d’infortunio, seppur minimale, vi sia un ricorso con tutto quello che ne consegue.
La stessa ministra Fedeli, anziché limitarsi a intimare al mondo scolastico il rispetto dell’ordinanza della Cassazione, avrebbe l’altra sera potuto ricordare che ogni scuola potrebbe, grazie ai regolamenti d’Istituto, scegliere come organizzare l’uscita degli allievi, anche a seconda della loro età. Un’altra rassicurazione sembra venire nelle ultime ore da Simona Malpezzi del Pd, che si è impegnata a varare le nuove norme per liberare le scuole da questo tipo di responsabilità.
È davvero difficile pensare che un ragazzo di tredici e quattordici anni debba essere consegnato alla fine delle lezioni a un adulto. Personalmente mi auguro che a quell’età e anche qualche anno prima, salvo casi particolarissimi, le ragazze e i ragazzi siano lasciati liberi di tornarsene a casa da soli o in compagnia dei coetanei. Lasciamogli questa libertà utile alla loro crescita e meno rischiosa rispetto a quella di viaggiare, nel fortino della propria camera, davanti a uno schermo su altre «strade», che possono rivelarsi molto più pericolose di quelle che da scuola conducono alle loro abitazioni.
Valerio Vagnoli

mercoledì 25 ottobre 2017

ABOLIRE IL VOTO IN CONDOTTA, ULTIMO ATTENTATO ALLA RESPONSABILITÀ DEGLI STUDENTI (con un’aggiunta)

Chi non punisce il male
comanda che si faccia
(Leonardo da Vinci)

Aggiungo in premessa a questo articolo, già pubblicato su “ilsussidiario.net” del 19 ottobre 2017 e su facebook, un’ulteriore annotazione: l’abrogazione del “5 in condotta” è stata decisa senza dibattiti e consultazioni di sorta. Né i mezzi d’informazione un dibattito, almeno ex post, lo hanno aperto. Si sono quasi tutti limitati a riportare il comunicato stampa del ministero.
Le indagini internazionali Ocse-Pisa non mirano solo a valutare la comprensione di testi di vario tipo da parte dei quindicenni, ma anche a ottenere indicazioni sul contesto dell’apprendimento: condizione familiare, ambiente sociale, differenze di genere. Già in passato nell’analisi dei dati l’Ocse sottolineava l’importanza della disciplina in classe in relazione ai risultati scolastici. E sarebbe la scoperta dell’acqua calda: basta il buon senso per capire che “dove la disciplina è allentata, gli insegnanti sprecano tempo e gli studenti non sono concentrati a causa delle numerose interruzioni”. Ma il buon senso, si sa, è merce rara e mai come in questo caso repetita iuvant.
Non basta. Nell’indagine del 2015 viene fuori che fra le caratteristiche delle scuole in cui gli studenti stanno meglio occupano i primi due posti attività impegnative nelle materie di studio e disciplina (seguono coinvolgimento dei genitori; cura, rispetto e fiducia negli studenti; una relazione positiva tra studenti e insegnanti; equità)[1].
A fronte di queste chiarissime indicazioni, il decreto firmato martedì scorso dalla ministra Fedeli va in direzione esattamente opposta, abrogando il voto in condotta e quindi la relativa insufficienza, con la quale si doveva ripetere l’anno: una delle rarissime iniezioni di serietà che la scuola italiana abbia ricevuto da molto tempo a questa parte. Si è forse corsi ai ripari in séguito a un’epidemia di bocciature per maleducazione? Assolutamente no, anzi c’è da dubitare che la norma sia mai stata applicata (come al solito si fa e si disfa senza rendere noto uno straccio di indagine a sostegno delle decisioni). Del resto la funzione delle sanzioni, se sufficientemente severe e all’occorrenza applicate, dovrebbe essere proprio quella di scoraggiare i comportamenti sbagliati. Quella del ministero è dunque una scelta di carattere puramente ideologico, come confermano le tortuose e inconsistenti motivazioni che la vorrebbero giustificare. Leggiamo: “La valutazione del comportamento sarà espressa d’ora in poi con giudizio sintetico e non più con voti decimali, per offrire un quadro più complessivo sulla relazione che ciascuna studentessa o studente ha con gli altri e con l’ambiente scolasticoMa agli allievi e ai loro genitori la valutazione del comportamento viene comunicata a voce e per scritto durante tutto l’anno, non solo con un giudizio a fine quadrimestre, che peraltro potrebbe tranquillamente accompagnare il voto invece di sostituirlo.
Ancora: via il 5 in condotta, ma “resta confermata la non ammissione alla classe successiva (in base a quanto previsto dallo Statuto delle studentesse e degli studenti) nei confronti di coloro a cui è stata irrogata la sanzione disciplinare di esclusione dallo scrutinio finale”. Si evita però di precisare che nello Statuto questa eventualità è riferita solo a “reati che violano la dignità e il rispetto della persona umana”; e non basta, perché lo si può fare soltanto a una serie di condizioni: “nei casi di recidiva, di atti di violenza grave, o comunque connotati da una particolare gravità tale da ingenerare un elevato allarme sociale, ove non siano esperibili interventi per un reinserimento responsabile e tempestivo dello studente”. In altre parole, chi “si limitasse”, nonostante richiami ed eventuali sospensioni, a un continuo disturbo delle lezioni, a offendere più volte insegnanti, custodi e compagni, a falsificare firme, a uscire di classe senza permesso, insomma se dimostrasse (cosa tutt’altro che rara nelle aule odierne) una radicata maleducazione e l’incapacità di ravvedersi, non correrebbe il rischio di ripetere l’anno.
È incredibile che questa ulteriore mazzata alla funzione educativa della scuola avvenga mentre in tanti si riempiono la bocca con le “soft skills”, le cosiddette competenze trasversali necessarie per vivere in società e nel mondo del lavoro, tra le quali adattabilità e flessibilità, rispetto delle regole e dei livelli gerarchici, autocontrollo, comprensione dei bisogni altrui. E come si può ottenere tutto questo trasmettendo ai giovani continui messaggi di permissività e senza ricordare una sola volta negli ultimi decenni l’esistenza delle responsabilità e dei doveri? Non sarebbe invece il momento di andare con fermezza in direzione esattamente contraria, proprio nell’interesse educativo dei giovani, come ormai invitano a fare stuoli di psicologi e psicoterapeuti, che del disastro educativo in corso vedono gli effetti su tanti genitori in crisi?
Tempo fa, in un editoriale sul “Corriere della Sera”, Ernesto Galli della Loggia si chiedeva se in viale Trastevere si sapesse che “in moltissime realtà scolastiche italiane ormai si assiste ad una vera e propria abolizione di fatto della disciplina”. Purtroppo con questa decisione anche la sua progressiva abolizione di diritto ha fatto un altro grave passo avanti.

Giorgio Ragazzini
(Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità)



[1] Informazioni tratte dal sito dell’Adi, più precisamente dall’articolo Il benessere degli studenti in Pisa 2015 di Marco Bardelli (http://bit.ly/2kJwPor)

giovedì 19 ottobre 2017

VILLARI E IL SUO LIBRO ROSSO (A SCUOLA E A CASA)

 (“Corriere Fiorentino”, 19 ottobre 2017)

Mentre sto scrivendo queste mie riflessioni sulla morte di Rosario Villari, un grande storico e un grande autore di manuali scolastici scomparso poche ore fa, cerco con gli occhi nei miei scaffali la copertina rossa di uno di questi suoi libri.
È uno dei volumi che mi sono tenuto quando, al momento di smettere d’insegnare, ho salvaguardato quei testi che più mi avevano aiutato proprio nell’insegnamento. E devo dire che i manuali del Villari non spiccano tra gli altri libri solo per il colore rosso della copertina, ma per quello che hanno lasciato a me e anche ai miei allievi che hanno avuto la fortuna di studiarvi e che spero non l’abbiano allora rivenduto al mercato dell’usato.
Alla chiarezza espositiva, i manuali di Rosario Villari univano la precisione della documentazione e l’onestà di non cercare come autore «di scomparire» rispetto alla narrazione dei fatti, prendendosi invece, con discrezione, la responsabilità di far capire il suo pensiero rispetto ai grandi eventi della Storia. Capita invece, a volte, che certi autori di manuali vogliano far credere di essere neutrali, ovviamente fingendo una neutralità che non hanno, essendo appunto impossibile essere al di sopra delle parti quando si parla e si scrive di Storia. Villari, nei suoi testi scolastici, riusciva senz’altro a mantenere quel distacco nei confronti dei fatti storici fondamentale per rispettare l’autonoma e libera formazione dei giovani, ma non riusciva, per fortuna, a censurarsi, facendo così traspirare dalle sue pagine la forte passione civile che lo caratterizzava. Come sappiamo, Villari si era dedicato a lungo anche alla politica attiva che lo vide schierato tra le fila del partito comunista. E da attivo e convinto militante comunista, seppe tuttavia sempre mantenere una autonomia di giudizio che non lo rese mai dogmaticamente piegato al partito e alle sue linee ufficiali. Antifascista, si impegnò attivamente nell’immediato secondo dopoguerra per il riscatto delle masse contadine calabresi e in generale contro le arretratezze sociali, culturali ed economiche del nostro meridione. E anche senza aver letto i suoi numerosi saggi dedicati proprio alla questione meridionale, è ancora oggi sufficiente leggere con attenzione le pagine del suo manuale dedicate ai mali del Sud, per rendersi conto che se c'era nel suo pensiero una passione, questa era per la democrazia unita alla speranza che la società italiana fosse davvero più giusta e libera di come lo era in quegli anni, soprattutto nel meridione.
Ecco perché spero tanto che i miei ex allievi conservino ancora i libri di Rosario Villari, perché al loro interno vi potranno ritrovare, non solo il ricordo dei loro anni giovanili, belli o brutti che essi siano stati, ma l’occasione per riflettere su testi che costringevano a pensare e che educavano alla libertà e alla passione civile. Ideali che non terminano con i cicli di studi e che solo i grandi manuali sono in grado di trasmettere. Niente in comune con quei testi di storia che in nome della imparzialità trovano oggi sempre più ampio spazio nelle aule scolastiche e che si caratterizzano per presentare documenti storici di varia natura da interrogare con domande a risposta aperta e a volte perfino chiusa. Come se la Storia la si potesse interrogare con dei quiz aspettandosi da essa perfino delle risposte definitive e non, come ci insegnavano anche i libri del Villari, la conoscenza degli uomini, delle loro contraddizioni, delle loro malvagità, delle loro passioni e soprattutto della loro volontà di migliorarsi e di andare avanti.
Valerio Vagnoli

mercoledì 11 ottobre 2017

UNA LAUREA PROFESSIONALE (PER TECNICI CAPACI)

(“Corriere Fiorentino”, 11 ottobre ’17) – La risposta che sul Corriere della Sera di domenica scorsa l’attore Diego Abatantuono ha dato a Candida Morvillo su com’era la Milano del boom economico è quanto mai efficace nel descrivere la deriva che da allora in poi ha segnato il cammino di parte della nostra società e della nostra scuola.
L’attore dice che allora la città era «bella, e non c’era la sindrome del pezzo di carta. Se sapevi fare qualcosa, stavi bene. Dopo, invece, si doveva studiare per forza e abbiamo avuto generazioni di potenziali elettricisti e idraulici dispersi nel tentativo di diventare ingegneri gestionali». Parole molto in sintonia con quelle dette agli inizi degli anni ‘90 da Umberto Eco che già allora ricordava come i giovani avrebbero pur dovuto decidersi di farsi carico anche di quei mestieri, e con la recentissima diagnosi dell’Ocse sul rapporto tra scuola e mondo del lavoro in Italia; rapporto che si conferma, anno dopo anno, a dir poco disastroso. Infatti molte industrie, grandi e piccole, cercano tecnici o operai specializzati che né le scuole né le università riescono a formare. Le prime perché è stata distrutta gran parte della formazione tecnica e professionale, le seconde perché continuano a proporre indirizzi che garantiscono lauree del tutto inutili, se non dannose, per l’ingresso nel mondo del lavoro. E quando questi indirizzi sono in grado di corrispondere alle richieste dell’economia e delle imprese, può accadere, come fanno pensare certi recenti scandali nel mondo accademico, che di rado venga premiato il merito. Ma anche il mondo delle imprese ha le sue responsabilità, dato che spesso mortifica i giovani talenti con stipendi e carriere che in altre parti del mondo sono ben più appaganti. E non a caso i migliori guardano sempre più all’estero, a beneficio di altre economie. Purtroppo questa situazione sarà confermata, con probabili aggravanti, nei prossimi anni (e rischia di esserlo per decenni) se la classe politica non si deciderà a prendere urgentemente i necessari provvedimenti. Sarebbe per esempio opportuno pensare a una istituzionalizzazione della formazione tecnicoprofessionale post diploma, trasformando gli attuali corsi Its (Istituti tecnici superiori), che a oggi coinvolgono a livello nazionale meno di diecimila giovani, in una sorta di università tecnico-professionale a plurindirizzo, come avviene in molti Paesi europei, dove viene scelta da centinaia di migliaia di studenti. Potrebbe così crescere, come l’Ocse ci chiede, il numero delle lauree, almeno di quelle brevi; e, come accade in Germania, saremmo finalmente in grado di preparare tecnici capaci, alla cui formazione potrebbero contribuire esponenti qualificati del mondo delle imprese e del lavoro, oltre naturalmente ai veri e propri docenti universitari delle discipline tecniche e giuridico-economiche. I laboratori, come già accade nei corsi Its, si troverebbero all’interno delle imprese stesse e questo limiterebbe in maniera consistente i costi. Ne guadagnerebbe l’economia e soprattutto ne guadagnerebbero i giovani, ai quali non basta semplicemente assicurare anni e anni di scuola per sentirci garanti della loro formazione. Una scuola degna di questo nome non è solo quella, pur importantissima, che sa accogliere, ma è anche quella che sa spingere i giovani nella vita con prospettive e attese nei confronti del futuro. Attese che oggi molti non hanno con il rischio, prima o poi, che ce ne chiedano conto. E allora potrebbe essere un grosso guaio, per tutti naturalmente.
Valerio Vagnoli

giovedì 21 settembre 2017

CELLULARI: VOGLIAMO INCENTIVARE UNA DIPENDENZA IN CRESCITA?

Provate a digitare su Google “Miur prevenzione dipendenze”: vi verrà fornito un nutrito elenco di riferimenti a iniziative in corso o a progetti in cui è implicato il ministero dell’Istruzione, accanto ad altri del Ministero della Salute, della Polizia di Stato o delle Regioni. E non si tratta solo delle varie droghe illegali, di alcol o di tabagismo, ma anche di “prevenzione di tutte le forme di dipendenza” compresa la ludopatia e in genere le “dipendenze comportamentali”.
In occasione della recentissima intesa fra la Presidenza del Consiglio e il Miur sulla prevenzione dell’abuso di alcol e delle tossicodipendenze, si è ripetuto ancora una volta che “partire dall’educazione nelle scuole è fondamentale”. Ma paradossalmente è proprio nella scuola che si andrà a incentivare una dipendenza in forte crescita fra i giovani, quella dal cellulare, dopo la decisione della ministra Fedeli di sdoganarli come strumento didattico. A sconsigliare di darle seguito, questo argomento si aggiunge ai molti già evocati: la disponibilità dello smartphone distoglie dalla necessaria attenzione, aumenta la tentazione di copiare da internet, favorisce gli scherzi e il bullismo. Per di più, sostituendo uno strumento privato a quelli che la scuola stessa potrebbe fornire, fomenterebbe “la peggiore competizione tra gli studenti, e giocoforza tra le loro famiglie, a chi si compra l'oggetto più nuovo”, come ha scritto Adolfo Scotto di Luzio. Che aggiunge: Lo smartphone in classe preclude ai giovani l'esperienza della scuola come reale scoperta di quello che non si conosce e come incontro con l'estraneo culturale. [...] Educando viceversa i giovani a ritrovare in classe ciò che già conoscono fin troppo bene fuori, li si addestra nella logica dell'uguale e della ripetizione del noto”.
Esistono diverse conferme scientifiche di una già notevole diffusione di questa nuova dipendenza. Una viene da uno studio molto serio realizzato dalla Scuola di psicoterapia “Erich Fromm”e presentato di recente a Firenze, secondo il quale l’attrazione per lo smartphone sta diventando per molti una fonte di stress e di ansia, con sintomi come il bisogno di essere continuamente raggiungibili, la paura di esaurire la carica, la “vibrazione fantasma”, cioè la sensazione errata che l’apparecchio stia vibrando, fino al tremore, alla tachicardia, agli attacchi di panico. Nelle persone con bassa autostima e difficoltà relazionali, l’uso del cellulare favorisce la chiusura in sé stessi e la paura di essere rifiutati. Una ricerca britannica attesta che il 60% dei giovani tra i 18 e 29 anni va a letto con lo smartphone. Si parla ormai di “nomofobia”, (no mobile + fobia), cioè la paura di restare senza questo vero e proprio talismano.
Anche senza conoscere la letteratura scientifica, se vogliamo proteggere almeno i giovanissimi dal diventare schiavi del telefonino, oltre che metterli in guardia dal fumo, dall’alcol, dalle droghe, dai disturbi alimentari e dal bullismo, la messa al bando degli smartphone dalle aule scolastiche dovrebbe apparire come una misura necessaria e di buonsenso.  
Dal canto suo la ministra Fedeli assicura che non si tratterà “di smartphone come dispositivo a gestione individuale mentre ci sono le lezioni”, ma di uso regolato sotto la responsabilità dei docenti. Intenzione in astratto rassicurante, se si potesse garantire una pratica saltuaria di “uso consapevole della tecnologia”, accompagnata dall’obbligo tassativo di tenere l’apparecchio spento nello zaino per il resto del tempo. Ma quanto è diffuso e quanto incoraggiato nella scuola italiana (a iniziare dal ministero) il rigore necessario per assicurare un simile equilibrio? Siamo purtroppo vicini allo zero assoluto. Bisogna quindi insistere perché non sia assestato un colpo definitivo alla possibilità di lavorare in classe con l’indispensabile concentrazione. Del resto, numerosi manager e programmatori di Microsoft, Apple, Google e di altre aziende della new economy da Seattle a Cupertino, incluso Steve Jobs, hanno scelto e scelgono per i loro figli scuole in cui anche il computer è rigorosamente bandito. Vogliamo proprio essere più “digitali” di loro?
Giorgio Ragazzini

Aderisci all' iniziativa “No al cellulare in classe – Scrivi un rigo alla Ministra: segreteria.particolare.ministro@istruzione.it

lunedì 18 settembre 2017

PROMEMORIA: LA LETTERA APERTA AL MINISTRO GIANNINI DEL LUGLIO 2016: “NO AL CELLULARE IN CLASSE”

La sottoscrissero oltre duemila fra insegnanti e dirigenti (per la precisione 2066, tra cui anche alcuni cittadini non docenti interessati alla serietà della scuola).
Tra i firmatari la scrittrice Paola Mastrocola, il linguista Luca Serianni,  Giovanni Belardelli, storico e editorialista del “Corriere della Sera”, Adolfo Scotto Di Luzio, storico della pedagogia, il politologoVittorio Emanuele Parsi, il filosofo Remo Bodei. lo storico della letteratura Giulio Ferroni.

“Gentile Ministro,
nei giorni scorsi il sottosegretario Faraone ha annunciato che sarà abolito il divieto di usare il cellulare il classe, una misura del ministro Fioroni, che giustamente si preoccupava di evitare motivi di distrazione e di disturbo. Un divieto che oggi è più che mai attuale data la diffusione tra i ragazzi degli smartphone, tanto più attraenti dei cellulari di allora. Tutti abbiamo avuto modo di constatare quanto essi possano monopolizzare la loro attenzione; e non c’è alcuna seria motivazione didattica o educativa per un cambio di rotta che costituirebbe un forte incentivo alla distrazione e all’uso improprio di questi strumenti (copiare, giocare, praticare il bullismo via internet, schernire un docente). D’altra parte, per l’uso didattico dell’informatica, è bene usare eventualmente strumenti assai più indicati come i tablet e le Lim.
Riteniamo quindi indispensabile che il vigente divieto venga mantenuto (e rispettato) nell’interesse degli stessi studenti e del lavoro degli insegnanti”. 
Tra i firmatari segnaliamo (in ordine alfabetico)
ADOLFO SCOTTO DI LUZIO, docente di storia della pedagogia;
ADRIANO PROSPERI, docente di  storia moderna  collaboratore di “Repubblica”;
AMEDEO QUONDAM, docente emerito di letteratura italiana; 
EMILIO PASQUINI, docente emerito di letteratura italiana; 
GIORGIO ALLULLI, dirigente dell’ Isfol, esperto di formazione professionale;
GIOVANNI BELARDELLI, storico e editorialista del “Corriere della Sera”;
GIULIO FERRONI, docente di letteratura italiana;
LORENZO STRIK LIEVERS, docente di didattica della storia, già senatore della Repubblica;
LUCA SERIANNI, linguista e accademico dei Lincei;
MARCELLO DEI, docente di sociologia e autore di Ragazzi si copia. A lezione di imbroglio nella scuola italiana;
MICHELE ZAPPELLA, docente di neuropsichiatria infantile;
PAOLA MASTROCOLA, insegnante, scrittrice e collaboratrice del “Sole24Ore”;
PAOLA TONNA, coordinatrice dell’Apef (Associazione Professionale Europea Formazione)
PAOLO CARETTI, docente di diritto costituzionale;
PAOLO PADOIN, già Prefetto di Firenze;
PIER VINCENZO ULERI, docente di Scienza della politica;
REMO BODEI, docente di filosofia all'University of California, Los Angeles (UCLA);
RENZA BERTUZZI, Responsabile di redazione di “Professione Docente”, organo della Gilda degli insegnanti;
RINO DI MEGLIO, coordinatore nazionale della Gilda degli insegnanti;
ROBERTO TRIPODI, presidente dell’Associazione Scuole Autonome della Sicilia;
VITTORIO EMANUELE PARSI, politologo e editorialista del “Sole24Ore”.