lunedì 22 ottobre 2018

PERCHÉ LA SCUOLA HA BISOGNO DEI VOTI

Il 12 e il 13 ottobre si è svolto a Rimini didattiche.2018, un appuntamento organizzato dalla Erickson, Casa Editrice e Centro studi che si occupa di formazione, didattica, pedagogia e altri temi legati alla scuola. Non un convegno, ma un mega-evento con decine di conferenze, incontri, laboratori didattici.
Andrea Ragazzini, del Gruppo di Firenze, ha partecipato a un dibattito intitolato “diamo i numeri?! il dilemma dei voti a scuola”. Qui sotto il suo intervento, favorevole ai voti. Contraria invece la sua interlocutrice, Valentina Giovannini, insegnante nella scuola Pestalozzi di Firenze.

Una premessa. Le considerazioni che farò sono di carattere generale e riguardano, con le differenze del caso, tutti gli ordini di scuola. Qualcuno, pur favorevole ai voti anche nella primaria, pensa che si dovrebbe valutare la possibilità di non usare i voti il primo anno o nei primi due della primaria. Personalmente però, avendo esperienza solo della secondaria superiore, non entro nel merito della questione.
Inizio prendendo spunto dall’ultima frase dell’Abstract: “In questo intervento, i relatori cercheranno di sciogliere il dilemma della “valutazione”, che altro non vuol dire che “dare valore”, quindi valorizzare il potenziale di tutti gli studenti, accogliendo ciascuna diversità nel percorso di apprendimento.
“Valutare” e “valorizzare” hanno un differente significato. Valutare significa attribuire un valore, stimare (un gioiello, un terreno, una prestazione). Serve qualcuno che per i suoi studi e la sua esperienza ha gli strumenti per farlo. Valorizzare vuol dire invece far acquistare valore o mettere in risalto il valore di qualcosa o di qualcuno. Nel caso dell’insegnante mettere un allievo nelle condizioni di scoprire e utilizzare al meglio le proprie capacità, una competenza che integra quella strettamente disciplinare. Un insegnante deve essere capace di esercitare entrambe le funzioni, senza che una vada a detrimento dell’altra.
Gli studenti sono stimolati o demotivati da un voto negativo? C’è prima di tutto da chiedersi se, da questo punto di vista, c’è differenza tra un 5 e un “insufficiente” o tra un 4 e un “gravemente insufficiente”. E inoltre se è vero, come sembrano credere al MIUR, che le lettere sono “più eque e meno limitanti”.
Meglio quindi discutere, più seriamente, degli effetti di una valutazione negativa, comunque sia espressa. È ovvio che in buona parte dipendono dalla sensibilità e dal carattere dello studente, ma anche, e forse soprattutto, dalla qualità del rapporto con l’insegnante. All’interno di un rapporto di fiducia la valutazione negativa può non fare piacere, come è logico, ma è probabile che sia un incentivo a fare meglio.
Il voto è un elemento di chiarezza che, nella mia esperienza, gli studenti apprezzano. Il voto però ha bisogno di essere spiegato e motivato, si tratti di una verifica scritta o orale. E non c’è dubbio che sia molto importante motivare una valutazione, soprattutto quando non è positiva, e “valorizzare” eventuali miglioramenti o l’impegno che c’è stato e la possibilità di correggere gli errori (sbagliando si impara).
Io direi quindi che il voto ha bisogno del giudizio, ovvero di una spiegazione, ma anche un giudizio ha bisogno di confrontarsi con il voto, per evitare scarsa chiarezza, ambiguità, reticenze. Posso citare una mia esperienza negativa in materia: i giudizi di ammissione all’Esame di maturità in vigore dal 1969 al 1987, che prevedevano un colloquio orale su due materie, una scelta dal candidato e l’altra dalla commissione. In sede di scrutini di ammissione i giudizi erano formulati soprattutto per far sì che la commissione di esame scegliesse la seconda materia del colloquio secondo i desiderata dello studente, anche alterando in modo significativo i risultati reali. Tralascio di commentare in questa sede i risvolti deontologici di simili manipolazioni.
C’è un altro tema da tenere presente in questa discussione: la necessità di ricercare in un processo educativo un equilibrio tra codice paterno (principio di realtà) e codice materno (protezione, accoglienza), secondo una terminologia usata dagli psicologi. A volte la contrarietà al voto nasce soprattutto dal desiderio di proteggere sempre e comunque gli allievi dalla frustrazione e dalla delusione che una valutazione negativa inevitabilmente comporta. Ma nell’educazione un eccesso di maternage può avere serie conseguenze sulla personalità dei ragazzi, che possono diventare narcisi incapaci di reggere qualsiasi delusione o insuccesso. In realtà può succedere che l’insegnante protegga piuttosto se stesso, per evitare una scelta che a volte può essere penosa. È un tema molto forte nel rapporto tra genitori e figli, ma credo che spesso coinvolga anche gli insegnanti, magari i più appassionati.
Concludendo, una considerazione che mi sta a cuore. A differenza della discussione di oggi, che è stata molto corretta, anche se tra idee indubbiamente distanti, sento troppo spesso persone (pedagogisti, addetti ai lavori, politici) che non si limitano a sostenere la necessità di adottare nuove strategie didattiche, ma che lo fanno a partire da una vera e propria criminalizzazione della scuola attuale e dalla colpevolizzazione degli insegnanti, a cui si addebita senza eccezioni qualsiasi insuccesso scolastico. Anche qui, in uno degli incontri di ieri pomeriggio, mi è capitato di ascoltare una battuta sprezzante sul godimento che, non qualche insegnante, ma gli insegnanti in genere, proverebbero nel sentirsi ripetere a pappagallo le loro spiegazioni. Se si vuole che gli insegnanti riflettano sul proprio modo di lavorare e prendano in considerazione possibili cambiamenti, non credo sia questo il modo di incoraggiarli.
Andrea Ragazzini

sabato 20 ottobre 2018

LA “SCOMMESSA” DEI PROFESSIONALI SULLA PELLE DEGLI STUDENTI

Tra i numerosi convegni in programma a Didacta, la mega-manifestazione sulla scuola che si svolge in questi giorni a Firenze, uno aveva come tema Il tramonto dei modelli tradizionali di scuola e il rilancio (o la fine?) dell’istruzione professionale. L’ipotesi contenuta nella parentesi sembrerebbe purtroppo prossima a realizzarsi. Il numero degli iscritti ai professionali, infatti, negli ultimi anni è praticamente crollato. Infatti, come era facilmente prevedibile dopo la riforma del 2011, la percentuale dei ragazzi che li frequenta è ridotta al 14% (solo due anni fa era al 18,6); e quasi la metà di questa percentuale è rappresentata da studenti che frequentano gli istituti alberghieri. Come abbiamo da tempo denunciato (inascoltati), il principale “baco” di quella riforma era il gran numero di materie, per di più prevalentemente teoriche, accompagnato ovviamente dall’insufficiente spazio riservato ai laboratori, che è poi quello in grado di consolidare negli studenti le motivazioni della loro scelta. A distanza di soli sette anni dalla precedente “epocale” riforma, ne è stata fatta un’altra per cercare di porre rimedio al suo fallimento. Anche di questa abbiamo già parlato, evidenziandone il limite enorme che è quello di scaricare sulle singole scuole l’onere di dare più spazio alla pratica attraverso i margini di flessibilità oraria previsti dall’autonomia. E già vediamo i collegi dei docenti approvare senza nessuna resistenza la riduzione di ore a questa e a quella materia per aumentare quelle di laboratorio. Auguri.
Il rischio di una definitiva demolizione del nostro sistema di istruzione e formazione professionale purtroppo è emerso con molta evidenza anche da quanto detto in occasione dell'incontro a Didacta dagli stessi esperti che hanno avuto un ruolo centrale nel precedente e anche nell'attuale riordino dell'indirizzo professionale. Infatti la parola da loro più usata nello spiegare le finalità e la struttura stessa di questa ultima riforma (già in vigore) è stata “scommessa”. Proprio così: la nuova riforma “è una scommessa”. Sembrerebbe di capire che o la va o la spacca; e purtroppo la seconda ipotesi ha maggiori probabilità di successo (si fa per dire) rispetto alla prima. Insomma, dopo decenni di declino di un settore fondamentale per la nostra cultura e per la nostra economia, come dovrebbe essere quello professionale, quando si interviene per correggerlo non lo si fa per dargli finalmente un assetto destinato a durare anche perché finalmente snellito dalla consolidata, mastodontica degenerazione burocratica. Lo si modifica un po', lo si addomestica alla meglio, lo si burocratizza ulteriormente nella speranza che alla fine qualcosa funzioni. E in questo, al di fuori di qualsiasi ironia, gran parte del personale della scuola è davvero capace di miracoli nel rendere dignitoso il lavoro spesso scadente della nostra burocrazia ministeriale. Ma a tutto c’è un limite e non è proprio il caso che lo Stato si permetta di fare scommesse sulla pelle degli studenti.

Valerio Vagnoli

sabato 13 ottobre 2018

CATTEDRE SCOPERTE, PRIORITÀ INVERTITE


In questi giorni molte scuole sono alla ricerca dei docenti che mancano perché quasi nulla si è fatto da decenni per una seria programmazione degli organici. E ogni anno la situazione è peggiore di quella precedente perché non mancano ministri che anziché preoccuparsi di dare ordine al faraonico sistema scuola si perdono nella ricerca di consensi fin troppo facili. Il riferimento al recentissimo snaturamento dell’alternanza scuola lavoro e alla sempre maggior banalizzazione dell’esame di maturità non è casuale. E il sistema è diventato così complesso anche perché si sono riempiti gli indirizzi di materie aggiungendo negli ultimi anni qualche centinaio di migliaia di cattedre solo per creare nuovi posti di lavoro e accontentare anche i sindacati. E nel passato, anche abbastanza recente, non sono mancati ministri, pur del medesimo schieramento politico, che hanno creato, a distanza di pochissimi anni uno dall’altro, sistemi di reclutamento farraginosi e tra loro addirittura antitetici. Tuttavia, come constatiamo in questi giorni, anche le generose immissioni in ruolo degli ultimi anni non sono state sufficienti a coprire tutte le cattedre prive di docenti titolari e questi, anziché essere tenuti a rimanere per tre anni nella stessa scuola, come inizialmente stabilito, si sono poi visti riconoscere il diritto a chiedere il trasferimento dopo il primo anno, contribuendo così ad aumentare il caos. Ma più di tutti pagano i ragazzi disabili e le loro famiglie e, in generale, anche le scuole in cui studiano, soprattutto quelle professionali dove la loro presenza ha percentuali altissime rispetto agli altri indirizzi. Infatti non potranno, come accade da anni, contare su docenti dotati di specializzazione perché da tempo le loro graduatorie sono esaurite e nessuno ha indetto nuovi concorsi. In definitiva, solo il 20% dei ragazzi disabili può contare in generale su docenti con titolo specifico. Di conseguenza le scuole, come accade in questi giorni soprattutto nei professionali, sono alla frenetica ricerca di insegnanti di sostegno purché abbiano una laurea e abbiano naturalmente fatto domanda di supplenza. Per il 2019 andrà certamente ancora peggio e per questo ci aspettiamo che il ministro, anziché pensare a demolire l’esistente che funziona, prenda finalmente atto che prima di tutto ci si deve occupare delle situazioni drammatiche.
 Valerio Vagnoli 
("Corriere Fiorentino", 12 ottobre 2018)

giovedì 11 ottobre 2018

IMPUNITÀ QUOTIDIANA (E L’EDUCAZIONE DA SOLA NON BASTA)

In un’intervista all’Avvenire sulla sua proposta di ritorno dell’educazione civica nei programmi scolastici, il sindaco Nardella ha affermato: “Le assicuro che le sanzioni non servono a convincere i cittadini che le carte non si buttano per terra, che i monumenti non si imbrattano, che è giusto parcheggiare dentro gli spazi e gettare i rifiuti nei cestini”. Solo ripartendo dalla scuola, ha aggiunto, “si migliora in modo profondo e strutturale la nostra società”. 
L’idea che tutto si può ottenere informando, sensibilizzando e dialogando senza punire è tanto diffusa – anche nella scuola – quanto infondata. Le sanzioni non sono contrarie all’educazione. Sono invece lo strumento educativo che rimane nei casi in cui la conoscenza delle regole e la ripetuta esortazione a rispettarle non abbia avuto successo. È stato certo un bene aver superato metodi fortemente punitivi nella formazione delle nuove generazioni e nella gestione della società; la quale però non può rinunciare a far valere il limite alla libertà di ciascuno nel momento in cui danneggia gli altri. Del resto un’affermazione come quella di Nardella si espone inevitabilmente a una serie di contraddizioni. La prima è contenuta nel suo elenco di comportamenti scorretti: non risulta infatti che sia contrario a multare chi non parcheggia “dentro gli spazi”. E proprio l’altro ieri ha lanciato una petizione per rafforzare la sicurezza dei cittadini in cui tra l’altro si chiede certezza dell’esecuzione della pena, perché “per le comunità è intollerabile il senso di impunità che a volte pare trasparire dal vedere in strada soggetti solitamente dediti a malefatte”. Certo, si tratta di reati; ma anche l’impunità di cui godono comportamenti scorretti come sporcare le strade, imbrattare i muri, andare pericolosamente in bici sui marciapiedi e contromano, impedire il riposo con la musica a tutto volume, non pagare il biglietto sull’autobus o sui treni regionali crea nei cittadini corretti irritazione e sfiducia nelle istituzioni e anche, nei meno determinati, adeguamento all’andazzo prevalente. Non a caso si cita spesso la famosa “finestra rotta”, che, se non riparata a tempo, induce a romperne altre. Aggiungiamo che gli studiosi hanno dimostrato che il senso civico, la consapevolezza di avere doveri oltre che diritti, la disponibilità a cooperare costituiscono un capitale sociale di fondamentale importanza per lo sviluppo economico. Anche in questa luce, la tolleranza zero sarebbe un investimento democratico insostituibile e non può riguardare solo la sicurezza sul lavoro, lo sfruttamento e l’evasione fiscale (su questo è d’accordo anche chi vuole il dialogo educativo a tutti i costi), ma anche i tanti aspetti della convivenza quotidiana.
Infine, un sindaco che sottolinea così tanto – e giustamente – l’importanza dell’educazione, dovrebbe coerentemente utilizzare le potenzialità educative che il suo ruolo comporta, rivolgendosi frequentemente ai concittadini per richiamarli alle loro responsabilità, per fare il punto sui progressi riscontrati nel decoro della città e proporre iniziative per migliorare ancora; ricordando, infine, che esistono delle sanzioni per chi ignora le regole. E se ne dovrebbero ricordare anche alcuni vigili che fanno volentieri finta di nulla, per esempio quando gli sfreccia accanto un ciclista in piazza del Duomo, mettendo a rischio l’incolumità delle persone. Interrogati in proposito, una volta mi risposero: “Ci vuole l’educazione”.
Giorgio Ragazzini
“Corriere Fiorentino”, 11 ottobre 2018

domenica 7 ottobre 2018

OCCUPAZIONI CONTRO LA MANOVRA CHE PENALIZZA I GIOVANI? NON È UNA BUONA IDEA

Qualche giorno fa Pietro Ichino, in un editoriale sul suo blog, riferendosi alla manovra del governo si chiedeva come sia possibile che gli adolescenti e i ventenni di oggi non abbiano niente da ridire “sul vero e proprio furto che la generazione dei loro padri e nonni sta perpetrando ai loro danni”. Trenta miliardi che si aggiungono ai 2300 del debito pubblico, altri miliardi di interessi da pagare a chi presta i soldi allo Stato, in definitiva “alto rischio di non avere né lavoro, né assistenza, né pensione”. E ricordava di essere sempre stato un critico severo delle occupazioni scolastiche, ma aggiungeva: “Quest’anno, però, riconosco che un motivo forte e specifico per protestare – tutto sta nello scegliere la forma più efficace – i giovani in quanto tali lo avrebbero”.
Due giorni dopo il direttore del “Foglio” Claudio Cerasa ha rilanciato l’idea precisandola: occupate per un giorno la vostra scuola in difesa del vostro futuro. Le occupazioni in genere sono “carnevalate”, ma per una volta si può fare eccezione.
Stimiamo tutti e due i proponenti e comprendiamo le loro preoccupazioni; ma non siamo d’accordo. La pratica delle occupazioni non è solo una “carnevalata”, un vuoto rituale e un modo per fare vacanza o bisboccia; è soprattutto una pratica illegale e quindi diseducativa, che oltretutto ha deluso e allontanato dalla politica moltissimi ragazzi, come sanno tanti docenti e dirigenti. Anche quando nel suo ambito si organizzano attività alternative varie per dare alla cosa una vernice di serietà, resta comunque un’interruzione di pubblico servizio, un’invasione di edifici altrui (checché ne vaneggi la Cassazione), una dilapidazione di denaro dei cittadini, una sopraffazione di minoranze (o maggioranze che siano) su chi vuole seguire le lezioni. Riabilitare, anche se pro tempore, le occupazioni per contrastare una manovra basata su deficit e debito accredita l’idea che l’importanza della causa giustifichi l’aggiramento delle leggi. Dobbiamo invece ricordare ai ragazzi che hanno molti strumenti per farsi sentire: da internet ai tradizionali volantini, dai comunicati stampa alle lettere aperte. C’è poi il monte ore delle assemblee d’istituto, che potrebbero essere in parte accorpate per indire una giornata di discussione e di protesta invece che di occupazione. Ci sono infine i vari modi di manifestare il proprio pensiero nelle piazze e davanti alle sedi istituzionali. Tutto sta, appunto, nello scegliere la forma più efficace, ma rispettando le leggi e i diritti altrui.
Giorgio Ragazzini

giovedì 4 ottobre 2018

IL MIUR RECLUTI PROFESSORI E DIRIGENTI IN PENSIONE PER VALUTARE STUDENTI E SCUOLE - Un sistema di istruzione che non conosce se stesso

C’è un rapporto dettagliato in base al quale il Ministro ha deciso di ridurre l’alternanza scuola-lavoro? Quanti sono gli insegnanti e i dirigenti inadeguati? Qual è la situazione della disciplina nelle classi? Come funziona l’insegnamento della nostra lingua agli allievi stranieri? Cosa sanno i ragazzi di storia, geografia, Costituzione al termine degli studi secondari? Quanti non scrivono correttamente in italiano? Sono alcune delle domande che si dovrebbe porre chi si interessa di scuola; e a maggior ragione dovrebbe farlo chi la scuola è chiamato a governare su una solida conoscenza dei problemi e sulla verifica degli effetti dei provvedimenti presi. Purtroppo la scuola italiana indaga poco se stessa; e per di più, come altri settori dello Stato, è refrattaria alla cultura del controllo dei risultati. Che dietro al perdurare di questa mentalità ci siano spesso i sindacati, con i loro riflessi corporativi, non può che rendere ancora più amara la constatazione della realtà.
Come sappiamo, per la valutazione del sistema educativo è stato creato l’Invalsi, che si è occupato in prevalenza di comprensione del testo, problemi matematici e padronanza dell’inglese. Da quando è stato creato è stato bersaglio di critiche severe, tra cui quelle acuminate del professor Giorgio Israel, che però precisava di non essere né contro le prove Invalsi, né contro l’Istituto in quanto tale, a condizione che fosse possibile una discussione aperta sui contenuti delle prove, che si definissero con chiarezza gli scopi dell’ente e che esso non fosse una struttura poco trasparente e chiusa a competenze esterne. Quanto alle prove, Israel affermava giustamente che dovessero puntare solo all’accertamento delle conoscenze e delle abilità imprescindibili per ogni livello di scolarità e non di competenze complesse, per cui non sono adatte. Al di fuori di questi limiti c’è il pericolo, rivelatosi reale negli Usa, di orientare la didattica in funzione dei test, con relativo smercio di eserciziari ad hoc. Tanto meno si può pensare che si tratti di strumenti adatti a valutare i singoli docenti.
Ad ogni modo, la constatazione che il “teaching to the test” non si è per il momento verificato su larga scala, sembra aver tranquillizzato la maggior parte dei docenti; fra i quali, però, rimangono minoranze combattive che si oppongono alle prove Invalsi, anche per timori in parte irrazionali dovuti più che altro alla poca chiarezza iniziale circa possibili ricadute sull’autonomia delle scuole e addirittura sui singoli insegnanti.
Purtroppo per valutare il nostro sistema scolastico non ci possiamo affidare neppure agli esami, ridotti peraltro nell'intero ciclo scolastico solo a due. Specialmente quello detto un tempo “di maturità” offre un quadro davvero poco credibile. Capita come sappiamo che in alcune regioni meridionali sovrabbondino i "cento" e i “cento e lode”, mentre al nord gli studenti eccellenti risultano in numero nettamente inferiore. Nei test Invalsi e Pisa, invece, le stesse regioni si posizionano agli ultimissimi posti. Con tutti i dubbi sui test, è difficile non pensare che si usino criteri di valutazione troppo diversi. Per questo da anni le università non tengono conto del curriculum scolastico per le ammissioni ai loro corsi. E sempre più spesso neanche il mondo del lavoro seleziona i giovani sulla base dei voti ottenuti all'esame di Stato, voti sempre meno credibili anche per la colpevole compiacenza di certi professori e presidenti di commissione che non impediscono ai ragazzi di copiare e a volte prendono addirittura l’iniziativa di aiutarli. Anche per questo è indispensabile controllare e confrontare i risultati, perché solo in questo modo sarà possibile adottare una politica scolastica in grado d'impedire il declino del sistema formativo.
Esemplificativo a tale proposito l'appello dei 770 docenti universitari a favore di un serio intervento per migliorare negli studenti le competenze della lingua italiana; che, grazie anche alle testimonianze dei firmatari, abbiamo scoperto essere gravemente e diffusamente carenti. Accanto a un ripensamento delle indicazioni nazionali, l’appello chiedeva l’introduzione di verifiche periodiche nazionali durante il primo ciclo; ma da questo orecchio il ministero non ci sente.
La difficoltà di operare una valutazione generale dei risultati dipende anche dall’assenza, forse non casuale, di un corpo ispettivo all’altezza delle necessità. Nel Regno Unito, oltre alla NAA (Agenzia Nazionale per la Valutazione), che produce e somministra i test nazionali, esiste l’Ofsted, un dipartimento indipendente – a garanzia di imparzialità – che, disponendo di un gran numero di ispettori, ogni settimana esegue centinaia di visite nelle scuole e pubblica i risultati on line.
In Italia negli ultimi anni ne sono stati reclutati un centinaio in base al curriculum dei candidati, ma il numero degli ispettori, anche con i nuovi ingressi, continua a essere irrisorio; senza contare che quelli assunti recentemente sono quasi tutti utilizzati come responsabili degli uffici scolastici periferici. È anche per questa grave carenza che è tra l’altro molto difficile porre rimedio alle situazioni di particolare inadeguatezza di docenti e dirigenti scolastici. Per far fronte, almeno provvisoriamente, a questa lacuna, il Ministero potrebbe reclutare, previa accurata selezione, personale in pensione disposto a svolgere funzioni ispettive e in generale utilizzare tutti i possibili strumenti per verificare a campione la credibilità dei risultati ottenuti dalle scuole e in particolare quelli degli esami di Stato.

Giorgio Ragazzini e Valerio Vagnoli

Da "ilSussidiario.net" del 3 ottobre 2018.