Andrea Ragazzini,
del Gruppo di Firenze, ha partecipato a un dibattito intitolato “diamo i numeri?! il dilemma dei voti a scuola”.
Qui sotto il suo intervento, favorevole ai voti. Contraria invece la sua
interlocutrice, Valentina Giovannini, insegnante nella scuola Pestalozzi di
Firenze.
Una premessa. Le considerazioni che farò sono di carattere
generale e riguardano, con le differenze del caso, tutti gli ordini di scuola. Qualcuno,
pur favorevole ai voti anche nella primaria, pensa che si dovrebbe valutare la
possibilità di non usare i voti il primo anno o nei primi due della primaria.
Personalmente però, avendo esperienza solo della secondaria superiore, non
entro nel merito della questione.
Inizio prendendo spunto dall’ultima frase dell’Abstract: “In
questo intervento, i relatori cercheranno di sciogliere il dilemma della “valutazione”, che altro non vuol dire
che “dare valore”, quindi valorizzare
il potenziale di tutti gli studenti, accogliendo ciascuna diversità nel
percorso di apprendimento.
“Valutare” e “valorizzare” hanno un differente
significato. Valutare significa attribuire
un valore, stimare (un gioiello, un terreno, una prestazione). Serve qualcuno
che per i suoi studi e la sua esperienza ha gli strumenti per farlo. Valorizzare vuol dire invece far acquistare valore o mettere in
risalto il valore di qualcosa o di qualcuno. Nel caso dell’insegnante mettere
un allievo nelle condizioni di scoprire e utilizzare al meglio le proprie
capacità, una competenza che integra quella strettamente disciplinare. Un
insegnante deve essere capace di
esercitare entrambe le funzioni, senza che una vada a detrimento
dell’altra.
Gli
studenti sono stimolati o demotivati da un voto negativo? C’è prima di tutto da chiedersi se, da questo punto
di vista, c’è differenza tra un 5 e un “insufficiente” o tra un 4 e un
“gravemente insufficiente”. E inoltre se è vero, come sembrano credere al MIUR,
che le lettere sono “più eque e meno limitanti”.
Meglio quindi discutere, più seriamente, degli effetti di una valutazione negativa,
comunque sia espressa. È ovvio che in buona parte dipendono dalla sensibilità e
dal carattere dello studente, ma anche, e forse soprattutto, dalla qualità del rapporto con
l’insegnante. All’interno di un rapporto di fiducia la valutazione negativa
può non fare piacere, come è logico, ma è probabile che sia un incentivo a fare
meglio.
Il voto è un elemento di chiarezza che, nella mia esperienza, gli studenti apprezzano.
Il voto però ha bisogno di essere
spiegato e motivato, si tratti di una verifica scritta o orale. E non c’è
dubbio che sia molto importante motivare una valutazione, soprattutto quando
non è positiva, e “valorizzare” eventuali miglioramenti o l’impegno che c’è
stato e la possibilità di correggere gli errori (sbagliando si impara).
Io direi quindi che il voto ha bisogno del giudizio,
ovvero di una spiegazione, ma anche un
giudizio ha bisogno di confrontarsi con il voto, per evitare scarsa
chiarezza, ambiguità, reticenze. Posso citare una mia esperienza negativa in
materia: i giudizi di ammissione all’Esame di maturità in vigore dal 1969 al
1987, che prevedevano un colloquio orale su due materie, una scelta dal
candidato e l’altra dalla commissione. In sede di scrutini di ammissione i
giudizi erano formulati soprattutto per far sì che la commissione di esame
scegliesse la seconda materia del colloquio secondo i desiderata dello studente,
anche alterando in modo significativo i risultati reali. Tralascio di
commentare in questa sede i risvolti deontologici di simili manipolazioni.
C’è un altro
tema da tenere presente in questa discussione: la necessità di ricercare in un
processo educativo un equilibrio tra codice
paterno (principio di realtà) e codice
materno (protezione, accoglienza), secondo una terminologia usata dagli
psicologi. A volte la contrarietà al voto nasce soprattutto dal desiderio di
proteggere sempre e comunque gli allievi dalla frustrazione e dalla delusione
che una valutazione negativa inevitabilmente comporta. Ma nell’educazione un
eccesso di maternage può avere serie
conseguenze sulla personalità dei ragazzi, che possono diventare narcisi
incapaci di reggere qualsiasi delusione o insuccesso. In realtà può succedere
che l’insegnante protegga piuttosto se stesso, per evitare una scelta che a
volte può essere penosa. È un tema molto forte nel rapporto tra genitori e
figli, ma credo che spesso coinvolga anche gli insegnanti, magari i più
appassionati.
Concludendo, una
considerazione che mi sta a cuore. A differenza della discussione di oggi, che
è stata molto corretta, anche se tra idee indubbiamente distanti, sento troppo
spesso persone (pedagogisti, addetti ai lavori, politici) che non si limitano a
sostenere la necessità di adottare nuove strategie didattiche, ma che lo fanno
a partire da una vera e propria criminalizzazione della scuola attuale e dalla
colpevolizzazione degli insegnanti, a cui si addebita senza eccezioni qualsiasi
insuccesso scolastico. Anche qui, in uno degli incontri di ieri pomeriggio, mi
è capitato di ascoltare una battuta sprezzante sul godimento che, non qualche
insegnante, ma gli insegnanti in genere, proverebbero nel sentirsi ripetere a
pappagallo le loro spiegazioni. Se si vuole che gli insegnanti riflettano sul
proprio modo di lavorare e prendano in considerazione possibili cambiamenti,
non credo sia questo il modo di incoraggiarli.
Andrea Ragazzini