Rispondendo a un lettore, il direttore della “Tecnica della scuola” Reginaldo Palermo afferma che i bambini non imparano per i voti, ma solo perché sono spinti “da una motivazione interna, per il gusto e per il piacere di scoprire cose nuove”. Qui si può leggere tutto l’articolo. Ma le cose non stanno proprio così. Ecco la nostra risposta.
Carissimo dottor Palermo,
le scrivo per contestare garbatamente la
“teoria del risotto”, cioè l’idea che l’unica motivazione che spinge a imparare
sia il gusto di conoscere cose nuove, un po’ come si cucina il primo piatto di
cui sopra per poter dire “Mmm, che buono!” C’è del resto chi va oltre e pensa
che solo a forza di manicaretti, cioè di una nuova didattica accattivante, si
risolvano anche tutti i problemi di disciplina, determinati dalla lontananza
della scuola dai “giovani d’oggi” e dalla conseguente noia.
Naturalmente è fondamentale che un insegnante
sappia essere un buon “cuoco” della sua materia, abbia cioè quelle competenze
disciplinari, metodologiche e relazionali che rendano il più possibile
interessanti le sue lezioni. Ma il luogo comune della scuola divertente giocato
contro la scuola “tradizionale” è sbagliato. La “motivazione interna” che
spinge il bambino e il ragazzo sulla strada della conoscenza è fatta di altre
cose non meno necessarie: la scuola è una cosa importantissima, ci vanno tutti
i bambini, ci sono andati papà e mamma, serve a imparare com’è il mondo, a
farsi nuovi amici, ci sono spesso difficoltà che dobbiamo imparare a superare,
ci si deve impegnare per ottenere dei risultati, si deve stare attenti,
studiare e fare i compiti a casa; più impariamo, più facilmente troveremo un
lavoro che ci piace; una ricompensa per la fatica che facciamo sono gli elogi della
maestra o della professoressa e anche i buoni voti per cui i genitori si
congratulano. Come disse Barack Obama agli studenti, “noi possiamo avere gli
insegnanti più appassionati, i genitori più attenti e le scuole migliori del
mondo: nulla basta se voi non tenete fede alle vostre responsabilità. Andando
in queste scuole ogni giorno, prestando attenzione a questi maestri, dando
ascolto ai genitori, ai nonni e agli altri adulti, lavorando sodo, condizione
necessaria per riuscire.[...] Non vi piacerà tutto quello che studiate. Non
avrete la stessa sintonia con tutti i professori. Non tutti i compiti vi
sembreranno così fondamentali. E non avrete necessariamente successo al primo
tentativo. È giusto così.”
Aggiungo in chiusura che la scuola, come faceva notare il suo “attento lettore”, avrebbe il preciso dovere di certificare quello che gli allievi hanno imparato. Una valutazione ci deve quindi essere. L’uso dei voti (quanto, quando, come) è un tema didattico che si può approfondire, ma chi non li vuole deve almeno sostituirli con qualcosa che sia altrettanto comprensibile e che renda chiari i meriti e le carenze, invece di nasconderli con locuzioni cervellotiche. Ricordandosi comunque che non qualificano la persona, ma solo una sua prestazione o la sua preparazione in un dato momento.
Cordialmente,
Giorgio Ragazzini