giovedì 28 novembre 2019

INSEGNANTI E NUOVI STUDENTI. CON UN ELOGIO DELLA LEZIONE FRONTALE


Pubblicato su “ilsussidiario.net”, 28 novembre 2019*
All’inizio di Insegnanti, il bel libro autobiografico e di riflessione sulla scuola di Roberto Contu, c’è la sedia lanciata da uno studente verso un compagno davanti al costernato docente al suo esordio nell’insegnamento. Poi “le due ore assolutamente più lunghe e interminabili” della sua vita, il ritorno a casa, la moglie che lo guarda stralunata, la convinzione di non essere tagliato per insegnare. Ma è solo un flashback. L’autore (docente di italiano e storia negli istituti superiori) non solo decide di restare nella scuola invece di dedicarsi alla ricerca universitaria, ma diciassette anni dopo può dire che quella scelta la ripeterebbe “settanta volte sette”.
Un lieto séguito che da solo può incoraggiare i colleghi (sicuramente numerosi) che si trovino oggi ad affrontare analoghi inizi di “puro e adamantino caos”. Contu però nella sua “lunga chiacchierata” ci propone un’idea molto esigente dell’insegnamento, a cominciare dalla necessità di studiare in modo permanente e addirittura “forsennato”; che è tra l’altro una condizione necessaria (ma non sufficiente: ne vengono elencate molte altre non meno importanti) perché un insegnante possa considerarsi anche un intellettuale.
Molta attenzione e molto sforzo di comprensione sono dedicati nel libro al mondo degli allievi, che l’autore vede cambiati non solo rispetto al tempo in cui era allievo lui stesso, ma anche nel corso della sua esperienza di insegnamento, soprattutto in rapporto all’evoluzione delle tecnologie che i ragazzi si trovano tra le mani. Il modo di capire e di apprendere della “generazione Zero”, quella nata intorno all’anno duemila, agli occhi di Contu sembra “segnare un punto di non ritorno” rispetto a “un modello di trasmissione intimamente deduttivo, concettuale, sequenziale”. In parole povere l’ipotassi, cioè il pensiero organizzato in modo prevalentemente gerarchico, nei giovani cede sempre più il passo “alla paratassi delle connessioni multiple”. Di conseguenza si creerebbe la necessità di “una didattica modulare, autoconclusiva a ogni passo”, in quanto “più aderente al tempo presente”. Il dibattito è aperto, come suol dirsi; apertissimo e complesso. Si tratta di capire se questo slittamento è del tutto inevitabile, se è invece possibile un serio negoziato tra le nuove tendenze e il tradizionale modo di apprendere o se, infine, la scuola deve essere il luogo di una conservazione – critica ma determinata – del pensiero “ipotattico”. La domanda che ci si deve fare è: le nuove generazioni, uscendo da una scuola “paratattica”, saranno in grado di capire la complessità del reale, una capacità già oggi poco di moda? E qui peserà l’inerzia - o l’indifferenza – finora dimostrate da chi governa la pubblica istruzione rispetto alla necessità di studiare sul campo la scuola com’è veramente, lasciando perdere le astratte proclamazioni nuoviste. Per parte sua Contu sembra non avere dubbi: “Non è vero che i ragazzi sono peggiorati: semplicemente capiscono e imparano in modo diverso”.
La curiosità non superficiale per il nuovo non fanno però di Contu un “nuovista” acritico. Spicca anzi a metà del libro il capitolo dedicato all’Elogio della lezione frontale, bestia nera dei tanti che appioppano volentieri la qualifica di “laudatores temporis acti”. Contu, che pure auspica il possesso di una molteplicità di approcci, la considera “la pietra angolare del mestiere”, con gli allievi disposti all’antica e il professore munito solo di voce e di gessetto.  Per un motivo molto semplice: “Io so che i risultati migliori a scuola li ho ottenuti e li ottengo tuttora con lezioni frontali”. Purché, aggiunge, mi limiti ad alcuni argomenti, “quelli che conosco molto bene”. Con un criterio-guida valevole con ogni metodologia: bisogna sapere 1000 per trasmettere 10.
Ma Insegnanti indica anche altri tratti della professione che i docenti dovrebbero conservare o recuperare nel solco della tradizione: la centralità del proprio ruolo nell’apprendimento (forse in polemica implicita con l’idea dell’insegnante “facilitatore”); la giusta distanza fra chi insegna e chi impara, anche se non “siderale” come un tempo (no quindi al modello del professor Keating nell’Attimo fuggente, no al messaggio “Ehi, io sono come voi”, insomma niente fobia dell’alterità fra docente e allievo); infine il confronto, necessario anche se problematico, con il canone letterario. Su questo il libro è in parte anche un utile vademecum didattico. Contu ci fa infatti seguire ora per ora, naturalmente a grandi linee, lo svolgimento di un’unità didattica su Petrarca; e poi, nel capitolo spiritosamente intitolato Portare a spasso il canone, plana sul programma del triennio indicando – sulla base di un’ormai lunga esperienza – quali autori e quali argomenti “reggono” nel confronto con la classe, quali (pochi) “crollano” irreparabilmente e quali si possono invece recuperare tenendo conto delle odierne sensibilità giovanili.
Un cenno infine al capitolo Autorità, autorevolezza, autoritarismo. Dopo avere elencato le caratteristiche personali che conferiscono autorevolezza, Contu conclude che gli insegnanti hanno autorità in quanto sono autorevoli – una condizione che si può anche acquisire lavorando su sé stessi. Questo è senz’altro vero, però l’autorità non è solo il riflesso del prestigio conquistato sul campo, prima ancora è la legittimazione che la società assegna comunque al ruolo di insegnante. Riguarda o dovrebbe riguardare, quindi, tutti i docenti. Un tempo anche l’insegnante mediocre veniva rispettato, mentre le spinte antiautoritarie post sessantotto hanno volentieri confuso l’autorità e l’autoritarismo, cioè con il suo uso ingiusto, promuovendo l’idea che maestri e professori dovrebbero essere tutti “carismatici”. Un’utopia, probabilmente, anche per il selezionatissimo corpo insegnante finlandese, figuriamoci per quello italico, che viene via via integrato da nuovi docenti spesso senza alcuna verifica della loro preparazione. È invece ragionevole pretendere (anche nell’interesse educativo dei ragazzi) che tutti gli insegnanti nel loro complesso siano sostenuti da un clima di serietà e di rispetto delle regole che spesso manca; ed è invece un fattore fondamentale dell’apprendimento.
Giorgio Ragazzini

LA SCELTA DELLA SCUOLA E QUEI LUOGHI COMUNI CHE OGGI VANNO EVITATI

 “Corriere Fiorentino”, 28 novembre 2019
In queste settimane le scuole stanno avviando le iniziative tese a presentare ai ragazzi e alle loro famiglie la loro «offerta formativa»: gli ambienti, i piani di studio, le attività opzionali, le eventuali sperimentazioni. Da quando sono (relativamente) autonome, nelle scuole è ovviamente aumentata la tendenza a mettere in maggiore evidenza quello che è diverso dagli altri istituti analoghi, a volte perfino amplificando i risultati ottenuti dai loro studenti. 
E questo un po’ per «patriottismo» e genuino orgoglio di istituto, un po’ perché con meno iscrizioni qualche docente o dirigente rischierebbe di andare da un’altra parte. La concorrenza è più forte fra le scuole superiori, dato che fra le elementari e le medie le differenze sono minime e influiscono sulla scelta più che altro la vicinanza e magari la fama di qualche docente e dirigente. Fornire informazioni chiare su quello che aspetta i nuovi iscritti è di certo utile, ma non tutto quello che viene fatto lo è.
Negli ultimi anni, per esempio, si è affermata l’idea di offrire ai ragazzi delle medie la possibilità di assistere a una «vera» lezione nel proprio istituto. Ma quanto può essere orientativa una singola lezione di uno dei tanti docenti (sicuramente scelto tra i migliori) di una delle tante materie?
La mia impressione è che, rispetto al passato, sia per fortuna quasi del tutto scomparso lo stile «pubblicitario» che un tempo a volte improntava le attività di orientamento organizzate dalle scuole. Oggi in moltissimi casi chi accoglie i ragazzi si preoccupa di non tradire la loro fiducia evitando di alimentare aspettative irrealistiche. Purtroppo non si può sempre dire alle famiglie che tutte le sezioni sono uguali per la qualità degli insegnanti, né avvertire che in alcune se ne trovano degli inadeguati (un problema a cui nessun ministro, come sappiamo, osa mettere mano). Eppure tutti sanno, al di là di tanti discorsi e di tanti open day, che coloro che fanno la scuola, nel bene e nel male, sono proprio i docenti. Che fare allora per evitare scelte sbagliate?
Per fortuna comincia a essere utilizzata in molte scuole della primaria e delle medie una vera e propria didattica per l’orientamento. Ma una sua impostazione più scientifica, in collaborazione con veri esperti del settore, dovrebbe essere generalizzata. Penso per esempio al cosiddetto «bilancio delle competenze», oggi rivolto solamente agli studenti dei professionali o ai «compiti di realtà» già in uso addirittura, senza chiamarsi così, nella «vecchia scuola» elementare e poi dimenticati. La stessa scuola media potrebbe essere più orientativa; in particolare l’educazione tecnica (ora «tecnologica») avrebbe potuto in questi decenni fornire saggi di quella «intelligenza delle mani» che è il cuore di tanti mestieri, per molti dei quali oggi non si trova chi li voglia esercitare.
Per come stanno le cose, spesso purtroppo le scelte avvengono secondo la tradizione e il luogo comune per cui i «bravi» vanno ai licei classico e scientifico, i «discreti» ai tecnici e ai licei considerati meno impegnativi, i «meno bravi» ai professionali.
C’è anche chi propone, come pure avviene in molti altri paesi, che il parere dei docenti delle medie sugli indirizzi delle scuole superiori a cui può iscriversi un allievo sia vincolante. Ma per arrivare a questo è appunto necessario avere alle spalle un lavoro di orientamento molto più affidabile e scuole che godano tutte di credibilità e di rispetto da parte della società; a iniziare dalla classe dirigente.
Valerio Vagnoli

martedì 26 novembre 2019

NUOVI ITALIANI E VECCHIE PRATICHE


In un recente editoriale sul Corriere della Sera (I nuovi italiani che sono stati trascurati) Beppe Severgnini vede con favore “l’adesione di massa alle proteste ambientali di Greta Thumberg, ma anche al movimento, per quanto orientato politicamente, delle Sardine da parte delle nuove generazioni, che rientrano così sulla scena politica italiana dopo anni di chiusura individualistica nelle ricerca di un personale benessere fisico e materiale. Secondo l’editorialista “adolescenti e giovanissimi stanno riprendendosi il centro della scena, trascinando con sé la generazione dei fratelli maggiori”.  È difficile – aggiunge – fare previsioni sugli sviluppi di questi fenomeni, ma sta certamente accadendo qualcosa di positivo, anche se chi ha un’altra età e un’altra esperienza conosce il rischio di “trasformare l’entusiasmo in presunzione, la freschezza in arroganza, l’intraprendenza in aggressività.” E conclude: “Lasciamo che una nuova generazione costruisca il proprio futuro, ora che sta trovando voce, passione ed energia; e sosteniamola, perché possiamo farlo”.
Non possiamo che condividere queste affermazioni. Vediamo nelle manifestazioni degli ambientalisti e delle Sardine un modo ironico, allegro e non violento di porre le ragioni della protesta. Però vediamo anche – e su questo gli adulti non possono tacere – che una parte degli studenti, aderendo alla battaglia ambientalista di Greta Thunberg, ripropone le vecchie pratiche politiche: da quelle che fanno perdere giornate di scuola (e credibilità) come gli “scioperi” scolastici (ne è stato indetto uno per il 29 novembre dal movimento Friday for Future) a quelle illegali come le occupazioni delle scuole.
In questi giorni, per esempio, il Liceo classico Michelangiolo di Firenze è stato occupato da 60 studenti. L’iniziativa sarebbe in preparazione dello sciopero di cui sopra, ai cui obbiettivi ecologici si vogliono aggiungere i temi cari ai movimenti antagonisti fiorentini, quali i “no” all’Alta velocità, alla nuova pista dell’aeroporto, all’inceneritore, alla cosiddetta “gentrificazione” del centro storico.
Di fronte a questo gli adulti si dimostrano come altre volte impotenti o titubanti o addirittura corrivi. La preside ha minacciato sanzioni disciplinari, ma non se l’è sentita di denunciare gli studenti. E alcuni genitori hanno giustificato gli atti illegali dei loro figli come fossero solo marachelle. (Quanto allo sgombero della scuola, il buon senso dice che dovrebbe essere compito delle forze dell’ordine di fronte a notizie di reato, senza pretendere che i presidi si accollino l’impopolare onere di farne richiesta).
Se queste, citando Severgnini, sono nuove traiettorie della democrazia, il futuro dei nostri giovani non è tanto roseo. Eppure viviamo in un paese democratico, dove le proteste possono essere fatte nel rispetto della legge e del diritto allo studio per chi legittimamente non aderisce né agli scioperi né tantomeno alle occupazioni. Non siamo a Hong Kong, dove i giovani studenti lottano per la democrazia e per la libertà contro il loro governo, asservito agli interessi di uno stato antidemocratico come la Cina, subendo tra l’altro una brutale repressione da parte delle forze dell’ordine (ma su questo nuovi e vecchi italiani tacciono).
Sergio Casprini

sabato 23 novembre 2019

L'ESAME ALLA CAMOMILLA DEL MINISTRO FIORAMONTI


Tra le due modifiche all'Esame di Stato annunciate dal Ministro Fioramonti, la prima, il ritorno della traccia di storia, è  condivisibile, anche se era stata soppressa perché veniva scelta da pochissimi studenti, ma limitandosi a prenderne atto, si direbbe senza porsi minimamente il problema di approfondirne le ragioni.
La seconda novità fa parte della serie "Dalla parte degli studenti", un fortunato  reality di produzione Miur che ha vista protagonisti in varia misura tutti i ministri dell'Istruzione, e qualche sottosegretario, degli ultimi anni. Fioramonti ha deciso di eliminare le buste da sorteggiare all'inizio del colloquio, mantenendo però l'idea dei materiali di varia natura (poesie, articoli, fotografie, riproduzioni di opere d'arte) con cui farlo partire. Queste le motivazioni: "La maturità non deve essere una roulette, non siamo al casinò (!). Non vogliamo che l'esame di stato sia un elemento di stress .... e  che diventi una corsa al massacro (!). Gli studenti devono andare all'esame fieri e sicuri della propria preparazione." Fierezza e sicurezza che saranno  sicuramente agevolate se, come ha dichiarato il Ministro a domanda dei giornalisti, gli studenti potranno conoscere in anticipo il materiale di cui sopra. Al Ministero smentiscono però il loro superiore, affermando che i materiali non si sapranno prima, ma sarà solo evitata la roulette russa (!) delle buste. Cioè non cambierebbe quasi nulla, salvo non escludere, pensando male, una preventiva comunicazione dell'argomento da parte di qualche commissario...
Ma tornando allo stress, questa idea di un esame alla camomilla è una palese mistificazione. Di fronte a una prova importante, come dovrebbe essere l'Esame di Stato, un qualche stress è fisiologico e inevitabilmente legato  tanto all'impegno necessario per essere e sentirsi preparati, quanto al misurare le proprie capacità e i propri limiti nell'affrontare la prova stessa. Rendendo l'esame più facile (questo è l'intento di Fioramonti) si diminuirà forse lo stress, ma si indeboliranno anche le motivazioni a prepararsi seriamente.
Andrea Ragazzini

lunedì 18 novembre 2019

CIVILTÀ E DOCENTI PERDUTI. Dalla scuola di un piccolo villaggio toscano a quella dispersa del villaggio globale


La rivista “Adò”, edita dall’Associazione “Laboratorio Adolescenza”, ha posto ad alcuni docenti e una giornalista la domanda : “Servono ancora gli insegnanti?”. Pubblichiamo qui sotto la risposta di Valerio Vagnoli del Gruppo di Firenze; le altre possono essere lette direttamente sulla rivista reperibile sulla nostra pagina facebook o direttamente a questo indirizzo: http://bit.ly/2r4tTq0.
Sono nato e vissuto, per fortuna o purtroppo (come direbbe Giorgio Gaber), in un villaggio minuscolo della campagna toscana. Allora – si era negli anni cinquanta – nessuno al mondo avrebbe potuto pensare che anche quel paesino, attraversato solamente da una strada bianca e dal suono delle campane di chiese sperse sulle colline, avrebbe lasciato il posto all’attuale immenso villaggio globale.
Per quelli della mia generazione fu sufficiente l'esperienza della scuola media, da raggiungere nella cittadina sede del Comune facendo sette-otto chilometri in bicicletta o in corriera, a farci rendere conto di quanti limiti, insieme ad alcune cose belle, segnavano la nostra vita nel villaggio. Così, insieme alla solidarietà spontanea, ma a volte anche interessata, che caratterizzava i rapporti tra le famiglie e la nostra stessa vita quotidiana, avremmo lentamente scoperto, grazie ai libri – soprattutto se si trattava dei classici – e a qualche illuminato docente, che la nostra vita era dominata dalle superstizioni, dalla maldicenza e dalle prepotenze di chi manteneva e ostentava privilegi di casta contro i quali era difficile opporsi, pena l'esclusione dal convivere sociale che spesso non era convivenza civile. E avremmo scoperto la grandezza di quei pochissimi che avevano osato opporsi, pagando di persona prezzi umanamente pesanti, alle meschinità delle idee dominanti di quella nostra piccola comunità. La quale, tanto per fare un esempio, considerava ragazze perdute le prime che preferirono il lavoro in fabbrica rispetto alla solitudine disperata di quello a domicilio o, ancor peggio, di quello dei campi. E ancora a quei tempi dare alla luce un figlio significava per la donna il dover “rientrare in santo” prima di poter rimettere piede in chiesa. Se poi il figlio fosse nato con problemi di qualunque natura, era un'atroce tragedia per lui e per l'intera famiglia, il più delle volte “costretta” per vergogna a crescerlo nascondendolo agli altri, per sempre prigioniero tra le mura di casa. In quegli stessi anni i poderi venivano affidati solo a contadini che avevano figli maschi, braccia forti per lavorare la terra e garantire la continuità nella gestione dei poderi (ma anche l’inamovibilità della gerarchia sociale). Noi, invece, nati nei primi anni '50, avremmo scoperto grazie alla nuova scuola media unificata che all'ingiustizia della Storia si potevano e si dovevano trovare spiegazioni e rimedi senza doversi fare scudo di ideologie forti, che difficilmente forniscono analisi eque e lucide. Molti docenti, soprattutto quelli della nuova generazione, seppero trovare i loro entusiasmi proprio grazie a quel mondo nuovo che entrava nelle aule scolastiche: aule prima riservate solo alle classi sociali privilegiate, mentre noi, i nuovi arrivati, ci portavamo dietro, insieme alle timidezze, le aspettative di chi entrava in mondi fino ad allora sconosciuti e forse in grado di mutare i nostri destini.
Ma pochissimi sarebbero stati i genitori che mandando i figli alla scuola media, anche perché finalmente costretti a farlo, avrebbero chiesto loro di impegnarsi, com’è frequente oggi, per diventare chissà che cosa! Quasi sempre chiedevano ai figli di studiare e di dare ascolto ai docenti per essere domani persone capaci di pensare con la propria testa, senza rischiare di fare la vita che era toccata loro, quella di dover ubbidire senza fiatare. Ci raccomandavano anche di non cedere alle lusinghe della pubblicità sempre più frequente nella televisione, che andavamo a vedere nell'unica bottega del borgo. A scuola ci veniva invece chiesto di vederla per poi discutere insieme su cosa, di quanto veduto, ci entrava nell'anima, ed entrandovi se poteva esserci o meno utile. E il più prezioso aiuto che, con pazienza, ci veniva dato era che vi sono doveri per il genere umano imprescindibili, il primo dei quali è la salvaguardia del proprio pensiero dalle ingegnose e infide ingerenze degli altri. E ogni tanto accadeva che la televisione ci fosse d'aiuto e ci stimolasse, soprattutto se guidati dagli insegnanti, anche a misurarci con realtà diverse dalla nostra, con storie e documenti che ci offrivano nuove conoscenze e nuovi stimoli per comprendere il mondo e la gente diversa da noi. Questo riuscirono a darci i nostri docenti che, anche attraverso la storicizzazione delle loro materie, ci spiegavano quale faticoso ma essenziale esercizio fosse il mantenersi vigili rispetto ai pifferai magici, quelli che oggi spadroneggiano in rete e domani chissà dove.
Purtroppo in questi ultimi decenni la nostra società, grazie anche allo sconsiderato uso dei nuovi strumenti di comunicazione, è per certi aspetti tornata a fare i conti con l'ignoranza e la fragilità, anche se in forme nuove. Santoni e maldicenti, presuntuosi e ciarlatani spesso hanno, proprio grazie a questi mezzi, un successo da far impallidire quelli del passato. Di fronte a un quadro del genere, in cui ognuno si sente libero di affermare ciò che vuole e di affrontare con spudorata ignoranza il mondo intero, non abbiamo quasi altra risorsa per recuperare i valori della nostra civiltà se non la scuola e in particolare il lavoro dei suoi bravi docenti. Mai come in questi nostri tempi, e ancor più in futuro, il loro impegno sarà indispensabile per ritrovare, per dirla con Leopardi, “il verace saper, l'onesto e il retto / conversar cittadino”. E perché ciò accada è indispensabile che il ruolo dei docenti torni a essere centrale. Ma dovranno essere docenti seriamente formati e selezionati, perché solo i migliori possono garantire un'istruzione degna di questo nome. E solo così la scuola non penalizza chi non ha in famiglia adeguate risorse culturali. Occorre poi che sia garantito e insegnato il rispetto delle regole, per impedire che la società possa cadere nelle mani di quelli che le regole se le fanno da soli, costringendo tutti gli altri a subirle. A rendere necessario tutto ciò non c’è solo il declino del nostro sistema scolastico e parallelamente anche delle nostre istituzioni, ma anche il dover constatare che la vera cultura dominante dei nostri tempi è, appunto, quella della rete, così accattivante per i giovani da creare vere e proprie dipendenze. Siamo di fronte a una rapidissima circolazione di contenuti priva di filtri e non di rado legata a interessi di carattere commerciale, quando non subdolamente politico. Di fronte a internet molti giovani hanno un comportamento di piena acquiescenza, anche per colpa di un orientamento poco esigente impresso alla scuola da pedagogie sconsiderate, che rinunciando a chiedere a tutti i ragazzi una solida preparazione, abbassano così le loro difese rispetto ai messaggi da cui sono raggiunti.
A causa dell’uso forsennato della rete, si diventa sempre meno pazienti e capaci di sostenere l’impegno richiesto da una vera formazione. D’altronde ormai da decenni il governo della scuola non ritiene fondamentale, come avveniva un tempo, che i nostri ragazzi siano tutti quanti, nessuno escluso, capaci di leggere, di scrivere bene e di far bene i conti. Le strategie didattiche e formative si sono progressivamente lasciate andare a un insegnamento in competizione con i nuovi mezzi di comunicazione, dove tutto deve essere regolato da tempi brevi. Basterebbe vedere la condizione di abbandono di molte biblioteche scolastiche per renderci conto di come abbiamo distrutto uno dei cardini della nostra cultura, cioè la ponderatezza e la costruzione graduale di saperi approfonditi attraverso lo studio personale e di gruppo, quest'ultimo nella mia esperienza utilissimo per fare ricerche condivise, discusse e destinate a rimanere archiviate anche per tutta la vita nella testa di noi ragazzi. Come per tutta la vita sarebbe rimasto gran parte del nostro sapere imparato a memoria. Insomma, sempre più il compito della scuola dovrà tornare a essere quello di formare futuri cittadini dotati di forza critica e di autonomia di pensiero, proprio come la conoscemmo nei primi anni della scuola media unificata che si preoccupava, senza sconfinamenti di carattere ideologico, di farci scoprire le cause e le origini delle cose. Tutto questo è e sarà possibile solo nel quotidiano rapporto personale con insegnanti in grado di condurci per mano, con sapienza e fermezza, alla scoperta del mondo che non è solo quello, come a molti viene fatto credere, che entra nelle nostre case.
Valerio Vagnoli
Pubblicato su “Adò – Laboratorio Adolescenza” – Vol. 2 – n.3 – 2019

martedì 12 novembre 2019

GLI STUDENTI E LE IMPRESE, UNA PROPOSTA CONTRO LA DISPERSIONE


“L’Economia del Corriere Fiorentino”
11 novembre 2019
La disgregazione oramai quasi senza ritorno del nostro sistema scolastico ha i suoi livelli di maggior problematicità nell’istruzione e formazione professionale, a parte le poche illuminate Regioni che le hanno unificate, come la Costituzione permette. Anche la nostra regione negli ultimi anni finalmente si è mossa e permette che in certe particolari situazioni si possano adottare percorsi del genere: ma essi sono pochi e si portano dietro troppe materie che appesantiscono in maniera eccessiva gli studenti. Occorrerebbe insomma maggior coraggio; e si potrebbe prendere a esempio il Trentino, dove esiste solo il percorso di formazione professionale che permette un reale ingresso nel mondo del lavoro, oltre ad avere pressoché eliminato la dispersione scolastica. La quale in molte regioni, compresa purtroppo la Toscana, ha percentuali che contribuiscono a posizionare l'Italia al penultimo posto, poco prima della Grecia, nella classifica dei paesi Ocse.
La gran parte degli insuccessi scolastici si verifica a 16 anni, quando gli studenti, nella maggior parte dei professionali, abbandonano definitivamente gli studi a causa, appunto, delle troppe materie e degli spazi del tutto marginali per i laboratori e le attività pratiche; il che contrasta fortemente con le loro aspettative, orientate a un sapere innanzitutto pratico. E a sedici anni la maggior parte di questi ragazzi, viste deluse le loro attese, finisce per chiudersi nelle loro camere a collegarsi a un mondo fittizio e irreale come è quello che si presenta attraverso i social e gli altri nuovi strumenti di comunicazione, che, se usati in maniera sconsiderata, finiscono per dare loro solo ignoranza e fragilità. Per questo, e soprattutto per non rischiare di perderli definitivamente, sarebbe opportuno far leva sulle numerose risorse che per fortuna il nostro territorio continua a offrirci.
Soprattutto nelle nostre periferie sopravvivono infatti con coraggio e determinazione tanti piccoli artigiani e perfino piccolissime industrie, che non hanno l'opportunità di trovare giovani disponibili a imparare un lavoro che se imparato bene, come si imparano bene le cose da ragazzi, rimane un capitale da spendere per tutto l'intero arco della vita. A tale proposito sarebbe davvero opportuno che a partire dagli enti locali (i centri per l'impiego purtroppo denunciano da tempo la loro completa inadeguatezza) si riuscisse a far incontrare le esigenze occupazionali del territorio con la disponibilità dei ragazzi, che vi abitano e che hanno abbandonato la scuola, a misurarsi con queste esigenze. Che ci sono, come sanno bene tutti coloro che ancora frequentano il mondo del lavoro. Sapere che ci possono essere ragazze e ragazzi disposti a imparare un mestiere a partire dai sedici anni servirebbe quindi anche a dare speranze agli imprenditori disponibili a investire su un capitale umano su cui contare a lungo. Se questo incontro venisse facilitato, potrebbe anche dare continuità al lavoro di vecchi artigiani che da soli mai potrebbero assumere dei giovanissimi a cui insegnare il mestiere. Sarebbe quindi opportuno che la Regione potesse garantire un aiuto economico alle imprese che si facessero carico di offrire una occupazione destinata a durare almeno un triennio, in modo da garantire l'acquisizione di competenze molto più raggiungibili da un ragazzo che ha fatto le sue scelte con motivazione e interesse. Naturalmente al lavoro si dovrà accompagnare un certo numero di ore, per esempio una settimana al mese per la durata del contratto di apprendistato (almeno un triennio), un percorso di formazione legata alla acquisizione di competenze più teoriche, che completino le conoscenze delle tre materie di base ( italiano, matematica e storia ) affiancate dal diritto del lavoro, dall' informatica e dalla lingua inglese. A far fronte a queste necessità potrebbero essere chiamati i docenti delle locali scuole medie, o, ancora meglio, i docenti impegnati nei Centri Territoriali per l'istruzione e la formazione in età adulta. I piccoli comuni potrebbero, a questo proposito, consorziarsi tra di loro, consapevoli che una organizzazione del genere potrebbe ridare vitalità a tante nostre realtà locali che si vanno spopolando e vedono scomparire mestieri che hanno contribuito a fare grandi i nostri territori. Si perderebbe così un valore culturale immenso e prezioso. Infine, cosa altrettanto importante, si realizzerebbe di nuovo quell'incontro tra generazioni che rappresenta il fulcro centrale della nostra civiltà e che, salvaguardando il valore dell'esperienza e del passato, permette di dare un futuro a giovani a cui la nostra scuola non sembra in grado di garantirlo.
Valerio Vagnoli

lunedì 11 novembre 2019

UN DIARIO-SAGGIO SULL’IMPORTANZA E LA RESPONSABILITÀ DI INSEGNARE

“Cercare con volontà bellezza, equilibrio, armonia in un verso, in uno snodo storico, in un'equazione”

Un bellissimo libro quello di Roberto Contu (Insegnanti, Aguaplano editore), che da intellettuale colto e raffinato racconta la sua esperienza di docente in licei e istituti tecnici e professionali di provincia, in cui si deve essere capaci di trasmettere agli allievi la propria cultura cercando di non sminuirla, in modo che, grazie alla passione dell'insegnante, abbiano anche loro la possibilità di misurarsi con Dante e Petrarca, con Galileo e Leopardi. Autori che “arrivano” ai ragazzi solo se non rinunciamo a pensare che insegnare consiste nel “farlo per l'altro e solo per l'altro”. In molti episodi ho ritrovato la stessa passione e la stessa determinazione di tanti docenti come Contu e come la sua anziana e bravissima collega a cui chiede perché sia rimasta per tutta la vita in un istituto professionale, anche se avrebbe potuto permettersi altre “carriere”; e la sua risposta è un sorriso fatto di soddisfazione e appagamento che dice tutto sulla passione con cui ha donato la propria cultura a chi sarebbe stato destinato a rimanerne privo. E ho trovato spesso la stessa dedizione in molti racconti scolastici di Antonella Landi, sempre accompagnata, come nel libro di Contu, dalla lucida consapevolezza di cosa sia la complessa realtà della nostra scuola e dei ragazzi che la frequentano, con i quali dobbiamo confrontarci con onestà e anche con molto coraggio.
Il diario-saggio di Contu non è rivolto soltanto agli insegnanti di lettere, ma a tutti quelli che hanno la fortuna di trovarsi di fronte studenti che ci chiedono di essere all'altezza del nostro mestiere; e che, se si rendono conto che è così, si affidano a noi con la stessa riconoscenza con cui ci si affida ai veri maestri. Quelli che, attraverso la cultura, insegnano a vivere e a dare un senso profondo alle loro esistenze, altrimenti frastornate da un mondo spesso confuso, vociante e mediocre.
La lettura di Insegnanti mi ha quindi rafforzato nella convinzione di avere fatto, insegnando, il mestiere più bello del mondo. E se potessi tornare indietro nel tempo come in un film di Zemeckis, la scelta ricadrebbe sull'insegnamento in tutti gli ordini di scuola, come feci con convinzione fin da quando, poco più che ragazzo, mi dedicai alle pluriclassi di doposcuola in paesini sperduti delle nostre colline, oggi quasi del tutto scomparsi.
PS: capiterà un giorno che persone come Contu possano trovare l'attenzione di chi governa  il nostro sistema scolastico?
Valerio Vagnoli

venerdì 1 novembre 2019

IL "RAMMENDO" DELLA STORIA

“Poiché conta solo ciò che sta per essere o che sarà, il passato nella scuola perde qualunque aspetto esemplare e del pari s’indebolisce molto fino a venir meno del tutto il peso della tradizione e la fede nel suo significato… Cancellando così, tra l’altro, una funzione importante della continuità culturale: quella che consente ai membri di qualunque società di percepirsi con delle radici, di sentirsi eredi di qualcosa anziché individui gettati casualmente nella vita.”
Ernesto Galli della Loggia, L’Aula vuota, Marsilio  
Nel suo recente libro L’aula vuota sul declino della scuola (strettamente legato a quello della società italiana) Ernesto Galli della Loggia indica tra le sue cause il venir meno dei saperi umanistici e in particolare il non aver coltivato la memoria storica del nostro Paese. Parlare di memoria storica – italiana ma anche europea – non significa solo riaffermare i valori e i principi costitutivi della civiltà occidentale, ma anche concretamente prendersi cura di ciò che nei secoli si è stratificato: le piazze, i monumenti, gli edifici, insomma tutte le grandi e piccole tracce che ci ricollegano al passato di cui il presente in cui viviamo è il risultato.  
A fronte del quadro pessimistico e allarmato delineato da Galli della Loggia, ma anche di altri intellettuali, non dobbiamo comunque trascurare tutto ciò che nella società opera nel senso opposto, a cominciare dai programmi che da anni vanno in onda su Rai Tre e Rai Storia, come il pregevole Passato e Presente condotto da Paolo Mieli. Nella società civile cittadini illuminati, esponenti di associazioni culturali e di istituzioni locali promuovono miriadi di iniziative per far conoscere all’opinione pubblica fatti, personaggi, luoghi della storia patria; e un’importanza particolare hanno quelle che riguardano il nostro Risorgimento, considerando le deformazioni e il relativo oblio che lo hanno riguardato negli ultimi decenni. Sono a volte lacerti di una storia minore che però, ricuciti pazientemente, nel tempo possono ricostruire il tessuto storico di un paese, di una nazione, dell’Europa.
Un esempio recente, tra i tanti possibili, riguarda una lapide posta a Firenze dal Comune nella centrale via de’ Neri:
A Giuseppe Barellai
soldato dell’Indipendenza italiana
maestro valente nell’Arte della medicina
in quello della carità valentissimo
fondatore degli Ospizi marini
qui morto il III dicembre del MCCCLXXXIV

La riscoperta di questa lapide ormai dimenticata fu l’occasione per organizzare un convegno sulla bellissima figura di questo medico filantropo, che aveva curato i bambini tubercolotici indigenti e realizzato tra l’altro le prime colonie marine; e che fu anche un patriota (partecipò alla battaglia di Curtatone come medico, e fu fatto prigioniero dagli austriaci) e un protagonista della vita pubblica di Firenze nell’Ottocento. Il convegno, promosso dall’Università di Firenze, dal Centro di Documentazione di Storia della Sanità Toscana, dalla Misericordia di Firenze e dal Comitato Fiorentino per il Risorgimento, si svolse nel rinascimentale salone Brunelleschi dell’Ospedale degli Innocenti di Firenze con un buon successo di pubblico. Una storia apparentemente minore del Risorgimento toscano mise invece in evidenza la stretta relazione tra il processo storico unitario del nostro Paese e le dinamiche modernizzatrici della società e della sanità in Toscana e a Firenze. Non solo: l’eco mediatica di questa iniziativa coinvolse anche i docenti e gli allievi della scuola media Barellai di Pratolino vicino a Firenze. Infatti gli studenti, ignari delle ragioni del nome della loro scuola, sotto la guida dei loro insegnanti, fecero una ricerca storica coinvolgendo gli abitanti di Pratolino, realizzarono poi una mostra con documenti, immagini e perfino un video e infine, insieme al comune di Vaglia (di cui Pratolino è una frazione) organizzarono una pubblica e partecipata cerimonia di intitolazione ufficiale della loro scuola a Giuseppe Barellai, non più figura anonima, ma degna di essere annoverata tra quelle che fecero l’Italia. Dunque un esempio, questo, di circuito virtuoso tra società civile e mondo della scuola nella riscoperta del passato di cui i giovani d’oggi si devono riappropriare per stringere un vivo e sentito rapporto con i loro nonni e i loro avi.
Un altro caso di recupero della memoria a partire da una lapide trascurata si è concluso felicemente da pochi giorni. Due anni fa un cultore di storia della Romagna Toscana, discendente di notabili ottocenteschi di San Benedetto in Alpe, denunciò pubblicamente il degrado di una lapide del periodo dei Lorena, precisamente del 1836, posta sul muraglione che dà il nome al passo che collega Forlì e Firenze (oggi punto d’incontro cult per gli appassionati di motociclismo).
Questa strada la si deve infatti al Granduca Leopoldo II, che volle questa infrastruttura per facilitare gli scambi tra la Romagna e la Toscana; scambi commerciali, ma anche culturali, tra i due popoli divisi dall’Appennino. All’apertura della carrozzabile, nel 1836, sul passo fu posta appunto una lapide a ricordo dei lavori voluti dal Granduca e diretti dall’architetto Alessandro Manetti. L’allarme sul degrado e sulla necessità di un rapido restauro ebbe eco presso altri esponenti della comunità tosco-romagnola, presso istituzioni culturali come l’antica e prestigiosa Accademia degli Incamminati di Romagna, presso le amministrazioni locali e ricevette anche il supporto dei Comitati risorgimentali della zona, da Firenze al Mugello e alla Romagna toscana. L’Accademia degli Incamminati si è assunta l’onere della raccolta dei fondi necessari per i lavori di restauro e, vincendo le resistenze burocratiche dei vari enti preposti alla tutela del manufatto in tempi relativamente brevi (data la notoria lentezza dei lavori pubblici in Italia), ha portato a termine i lavori. Sabato 19 ottobre si è svolta una festosa cerimonia d’inaugurazione alla presenza dei sindaci di San Godenzo e di Portico di Romagna e con gli interventi di docenti universitari di Storia e di Economia.
La cura della memoria storica dell’evento è stato invece compito dei Comitati toscani del Risorgimento, in primis quello del Mugello, che hanno promosso un momento di riflessione sull’importanza dell’opera promossa dall’ultimo Granduca di Toscana con un convegno che si terrà sabato 9 novembre a Dicomano e una mostra che verrà inaugurata nella stessa data. Una mostra che nei giorni successivi verrà visitata anche dagli allievi delle scuole di Dicomano. Entra pertanto nelle aule scolastiche un brano di storia non solo locale, ma anche nazionale, in quanto l’esigenza di modernizzazione economica portata avanti dai Lorena in Toscana e in Romagna con la creazione di nuove ed efficienti vie di comunicazione sarà poi sviluppata ulteriormente nella fase decisiva del Risorgimento a partire dal Piemonte di Cavour.
Altri esempi ancora potrebbero essere fatti sull’importanza di questo volontariato culturale presente nella società italiana, che ha il merito di questo “rammendo” del tessuto storico del nostro Paese. Siamo certamente consapevoli dei vuoti culturali che oggi caratterizzano la scuola italiana, ma è incoraggiante sapere che nella società civile esistono ancora forze vitali che si impegnano  per contrastare la perdita della memoria storica di un popolo; e chissà se un cauto ottimismo della volontà possa nel tempo compensare il non infondato pessimismo della ragione.
Sergio Casprini (dal sito del Comitato Fiorentino per il Risorgimento)