giovedì 30 novembre 2017

GLI ITALIANI BOCCIANO LA SCUOLA BUONISTA. Un sondaggio di Eumetra per il Gruppo di Firenze

Comunicato stampa
Sondaggio: la scuola deve essere più severa sulla condotta
e più esigente sulla preparazione degli studenti

- Per il 67% degli italiani la scuola è troppo poco severa riguardo alla condotta degli allievi;
- il 68% giudica sbagliata la recente abolizione della bocciatura per l’insufficienza in condotta;
- il 59% pensa che la scuola sia troppo poco esigente riguardo alla preparazione degli studenti;
- il 75% considera utili i compiti a casa;
- più del 50% è venuto a sapere che durante gli esami si copia.
Dunque i risultati del sondaggio (in allegato) dicono che in grande maggioranza l’opinione pubblica non condivide gli orientamenti pedagogici che hanno caratterizzato, con rarissime eccezioni, le politiche scolastiche degli ultimi decenni.
Dall’orizzonte ministeriale è infatti sparito il valore dell’impegno, dello studio e dell’esercizio costanti (a scuola, ma anche a casa). La colpa dell’insuccesso sembra essere esclusivamente della scuola, di una didattica sbagliata, di un’insufficiente “personalizzazione” dell’apprendimento. Gli esami poi sono stati via via aboliti e i due rimasti (terza media e maturità) resi sempre meno impegnativi.
Quanto alla disciplina, cornice indispensabile dell’apprendimento, mai si è sentito un ministro parlare agli studenti di responsabilità, dei doveri che si accompagnano ai diritti, di rispetto delle regole. E gli insegnanti, come i dirigenti, mai sono stati sollecitati a farle rispettare con la necessaria fermezza. Frequenti anzi i messaggi in direzione opposta, come la recente abolizione del 5 in condotta.
Ovvie conseguenze: difficoltà di chi in classe cerca di contrastare, anche con sanzioni, i comportamenti scorretti; stress crescente tra gli insegnanti; danni molto seri alla preparazione degli studenti; progressivo scadimento del senso civico.
Ci auguriamo che questi dati possano aiutare i responsabili politici a correggere la rotta, sapendo di avere l’appoggio della maggioranza degli elettori; e facciano sentire meno soli gli insegnanti e i dirigenti che si battono per una scuola accogliente, sì, ma anche rigorosa.
Firenze, 30 novembre 2017 

giovedì 23 novembre 2017

IL DECLINO DELL’ITALIANO NEL PAESE DEI CONDONI

(Pubblicato sulla rivista Il governo delle idee, settembre-ottobre 2017)
Nel febbraio scorso la lettera aperta di oltre seicento docenti universitari che denunciava le carenze in italiano dei loro studenti suscitò consensi, ma anche reazioni negative solo in minima parte attente a quello che effettivamente diceva il testo. Fra i critici, soprattutto i linguisti sembrarono vivere l’iniziativa come un’invasione di campo – benché fossero numerosi i loro colleghi tra i firmatari, di cui otto accademici della Crusca – e alcuni chiesero su quali dati scientifici si basasse quell’allarme; quasi che le numerose notizie di stampa succedutesi negli anni precedenti sul semi-analfabetismo di molte matricole non fossero un motivo sufficiente per porre il problema; e come se il numero stesso dei sottoscrittori non fosse di per sé una prova di quanto grave sia la situazione. Altri, inforcando gli occhiali dell’ideologia, parlarono di nostalgia della scuola classista del passato, un’accusa basata soltanto sulla richiesta di regolari verifiche degli apprendimenti linguistici, comprendenti tra l’altro dettato, analisi grammaticale e chiarezza della scrittura corsiva (anche ultimamente rivalutata in quanto utile allo sviluppo cognitivo). Altri ancora, scambiando l’appello per un manifesto didattico, denunciarono l’assenza di questa o quella metodologia. Molti infine vi hanno visto un puro e semplice atto di accusa contro la scuola primaria, solo perché si sottolinea che al termine della scuola media dovrebbe essere raggiunta una sufficiente padronanza della lingua – come del resto prescrivono le indicazioni nazionali. Il che non implica affatto che non si debba continuare a lavorare anche in seguito sulle competenze linguistiche.
In realtà, se si legge la lettera “dei 600” sine ira et studio, dovrebbe saltare agli occhi che l’obbiettivo di carattere generale è la necessità di “una scuola davvero esigente nel controllo degli apprendimenti oltre che più efficace nella didattica”; che quello più specifico che riguarda l’italiano è “il raggiungimento, al termine del primo ciclo, di un sufficiente possesso degli strumenti linguistici di base da parte della grande maggioranza degli studenti; e che la strada da percorrere in concreto dovrebbe prevedere anche “l’introduzione di verifiche nazionali periodiche durante gli otto anni del primo ciclo”. A differenza di quanto si fa con i test Invalsi, che si propongono (o pretendono) di valutare competenze complesse, si tratterebbe di accertare solo conoscenze e abilità assolutamente imprescindibili a un certo livello del percorso scolastico. D’altra parte, se le stesse indicazioni nazionali per l’italiano stabiliscono alcuni traguardi “ineludibili” e “prescrittivi” già per la fine della scuola primaria, tra cui quello di saper scrivere “testi corretti nell’ortografia, chiari e coerenti”, cosa c’è di più logico e anzi doveroso di una verifica? E il carattere “nazionale” di queste verifiche, che sarebbero cioè le stesse – a ciascun livello – per tutte le scuole italiane, è indispensabile se si vogliono confrontare e valutare i risultati degli sforzi fatti per migliorare la situazione. Inoltre costituiscono un incentivo per un maggiore impegno di tutti.
Eppure è proprio qui che casca l’asino. La scuola italiana manifesta da decenni una palese insofferenza per la cultura del controllo (serio) dei risultati. Di qui l’abolizione degli esami nella scuola elementare (ce n’erano due) e al termine del biennio ginnasiale; di qui la ripetuta semplificazione di quelli che rimangono solo perché prescritti dalla Costituzione; di qui non di rado la vera e propria falsificazione delle valutazioni negli scrutini di fine anno all’ombra del “voto di consiglio”, in cui miracolosamente i quattro si trasformano in sei in barba a quanto risulta dai registri. Eppure una scuola rigorosa (che alla fine può bocciare di meno perché sollecita di più l’impegno degli studenti) è nell’interesse prima di tutto dei ragazzi che partono svantaggiati dal contesto familiare.
C’è poi da aggiungere, a proposito di valutazione dei risultati, la latitanza del ministero rispetto a una minoranza di docenti, la cui grave inadeguatezza sul piano delle capacità o della correttezza professionale può continuare per anni a rovinare indisturbata intere classi oltre che il prestigio della categoria.
Infine, sulla diffusa pratica del copiare durante gli scritti degli esami di Stato, moltiplicatasi con l’avvento di internet, le istituzioni tacciono ostinatamente. Mai si è sentito un ammonimento da parte del ministro di turno, mai si è provveduto a serie forme di prevenzione nonostante le ripetute campagne del Gruppo di Firenze e dell’Associazione Nazionale Presidi; e mai naturalmente si è saputo di provvedimenti disciplinari a carico di quei colleghi che ritengono giusto “aiutare” i candidati non solo chiudendo un occhio o due, ma a volte fornendo loro stessi traduzioni e soluzioni di problemi.
Potremmo continuare, ma il contesto è ormai chiaro: il paese dei condoni edilizi e fiscali è anche quello dei condoni scolastici e educativi, in cui merito e responsabilità vengono di regola snobbati o penalizzati, benché in realtà assicurino (anche se con crescente fatica) la tenuta complessiva del sistema, scolastico o sociale che sia.
Ecco quindi perché non stupisce che la proposta centrale dell’appello sulla crisi dell’italiano, quella delle verifiche periodiche, non sia stata accolta – almeno per il momento – dal governo della scuola. Va naturalmente riconosciuta la cortesia istituzionale che ha spinto la ministra Fedeli a ricevere i promotori dell’iniziativa, dedicando loro un incontro non frettoloso. Facendo però capire che si stanno battendo altre strade per affrontare il problema, peraltro in vario modo ridimensionato dai dirigenti ministeriali presenti*. Non sarà quindi facile vincere le resistenze alla cultura della verifica, ma neppure far dimenticare una denuncia che ha messo il dito in una piaga aperta della scuola italiana.
Giorgio Ragazzini

* Successivamente alla pubblicazione di questo articolo sul "Governo delle idee", la Ministra ha chiesto al noto linguista Luca Serianni di presiedere una commissione incaricata di studiare il problema posto dai docenti universitari. Si dovrebbe occupare, a quanto ha detto Valeria Fedeli, di rivedere le indicazioni nazionali del primo ciclo di studi, che, secondo un'altra proposta contenuta nell'appello, dovrebbero essere rese più essenziali. Ma non risulta che si intenda andare anche verso un sistema strutturato di verifiche nazionali dei risultati.

sabato 18 novembre 2017

SCONFIGGERE LA MAFIA DA DENTRO UN CARCERE

(“Corriere Fiorentino", 18 novembre 2017)
Caro direttore, stasera festeggerò insieme ad Antonio Gelardi, che ha scelto proprio Firenze per farlo perché qui giovanissimo iniziò la sua carriera con l’incarico di vicedirettore nell’allora nuovo carcere di Sollicciano, il suo compleanno. Sessant’anni spesi benissimo, malgrado la grave malattia che da oltre vent’anni lo affligge e che gli lascia pochissima autonomia, perfino nel respirare. Ciò non gli impedisce di fare ogni giorno sessanta chilometri per andare da dove abita a dirigere il carcere di Augusta, in provincia di Siracusa, con la fermezza e la grazia illuminata di chi sa che la mafia si può sconfiggere non solo perché i mafiosi — anche loro grazie a dio — se ne vanno, ma perché il carcere deve diventare il luogo in cui anche coloro che si sono macchiati di crimini orrendi, possono e devono essere recuperati. Il carcere di Gelardi rappresenta forse l’esempio migliore in Italia di come attraverso la formazione, il lavoro, l’arte, la scuola, la solidarietà e malgrado la scarsezza di mezzi, si possano fare miracoli. Perfino i Radicali gli riconoscono questa sua capacità illuminata, e non a caso quella di Augusta è la casa di reclusione ove spesso si recano per additarla a esempio e per seguire le numerose attività che vi si svolgono. Eravamo poco più che ragazzi quando, in ruoli diversi, ci ritrovammo a Sollicciano, in quello che fin dalla sua inaugurazione appariva già un carcere vecchio e malandato. Pochissimi anni dopo Gelardi sarebbe diventato direttore ad Augusta. Una personalità che continua ancora oggi a stupirci per la forza e per il coraggio, anche nell’andare avanti malgrado la scarsezza di mezzi. È una gran bella occasione vedere Gelardi, come lo è sentirci per telefono quasi tutte le settimane. Potrebbe, per motivi di salute, già essere in pensione, ma rimarrà al suo posto di lavoro in carcere fino a quando non scadranno i tempi propri di tutte le persone che non hanno problemi. È così che si sconfigge la mafia, e non soltanto in Sicilia, senza aspettare che siano le malattie e la vecchiaia a portarci via i mafiosi che temono soprattutto gli uomini dello Stato che fanno il loro dovere. Amareggia che proprio lo Stato e i politici non sempre si accorgano di uomini che lo servono come da decenni fa Antonio Gelardi, che ritorna per i suoi sessant’anni nella città dove si è formato e dove ebbe modo di collaborare con personalità quali i giudici Alessandro Margara e Antonino Caponetto.
Valerio Vagnoli

venerdì 3 novembre 2017

IL TIRO ALL'INSEGNANTE, LOGICA CONSEGUENZA DELLA PEDAGOGIA MINISTERIALE

Pubblichiamo la lettera da noi inviata l'altro ieri alla Ministra dell'Istruzione, a commento di un corsivo di Massimo Gramellini sul grave affronto a un'insegnate messo in atto a Mirandola. Da decenni, con rarissimi momenti di resipiscenza, il ministero diffonde e spesso impone una pedagogia del dialogo a tutti i costi, mentre scredita e limita ben al di sotto della sufficienza le sanzioni, che sarebbero in quest'ottica l'opposto dell'educazione (è recente l'abolizione della bocciatura per cattiva condotta). Buona parte dei dirigenti - e comprensibilmente non pochi colleghi - si sono adattati a questa ideologia totalmente contraria all'interesse educativo dei giovani. Nessuna meraviglia, quindi, che episodi vergognosi di questo tipo siano da tempo frequentissimi e che, anche quando non si arriva a tanto, il rispetto delle regole più ovvie richieda spesso fatica e perdite di tempo a non finire. 

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Gentile ministra Fedeli,
sul "Corriere della Sera" di stamani Massimo Gramellini racconta - desolatamente - un episodio, uno tra i tanti che non arrivano sui giornali, verificatosi in una classe della scuola italiana: uno studente ha tirato il cestino dei rifiuti in testa all'insegnante in cattedra, che non ha reagito, neppure alzando la testa. Certo perché sapeva che nella sua scuola, come in tantissime altre, non si punisce chi si comporta male. E come lapidariamente scrisse Leonardo da Vinci: "Chi non punisce il male, comanda che si faccia". Un'infinità di colleghi sono costretti a non reagire (o lo fanno senza risultati) nella scuola dei condoni educativi, parte della società dei condoni di ogni tipo. Aggrava la posizione del tiratore il fatto che si sia accordato con un compagno perché filmasse tutto col cellulare per poi diffonderlo in rete. Il che dovrebbe anche suggerire un’ulteriore riflessione sull’opportunità di sdoganare gli smartphone come strumenti didattici.
Con la decisione di abolire il voto di condotta e quindi la possibilità di bocciare - come extrema ratio - chi ripetutamente e gravemente abbia violato le regole della convivenza civile, è stato mandato agli studenti un messaggio che suona promessa di impunità. A poco serviranno, in assenza di chiari paletti di fronte alla maleducazione e al teppismo, i piani nazionali per insegnare il rispetto reciproco, che viene ampiamente già  insegnato da tutti i colleghi. Per parte nostra non ci stancheremo di ripetere che non c'è sistema educativo che possa fare sempre a meno di sanzioni proporzionate alla gravità dei comportamenti. E non c'è scuola che possa funzionare senza disciplina, come più volte ha sottolineato l'Ocse.
Mi permetto di inviarle in allegato, insieme al Caffé di Gramellini, un mio recente intervento sull'argomento.
Giorgio Ragazzini