domenica 26 gennaio 2020

ORAZIO, IL NONNO «GIUSTO»

I destini diversi dei fratelli Lovari: il primo nascose due ebrei, Angiolo dovette fuggire in Francia
Che i fratelli Orazio e Angiolo Lovari fossero socialisti era noto allora in tutta la zona di Poppi. Angiolino, il minore, coltivava una vigna e andava a opra: abitava a Lierna, un piccolo paese che si dice essere stato assai generoso di fascisti. Orazio invece era contadino nel grande podere di Pruneto poco distante da Lierna: uno dei tanti poderi della fattoria di Bucena, gestita allora da una famiglia di Bibbiena.
Orazio poteva permettersi un podere importante perché, oltre ad essere un gran lavoratore, aveva tre figli e due figlie a garantire al padrone che i campi avrebbero avuto, in un futuro vicino, altre buone braccia a disposizione. L’ultima figlia, sebbene fosse la quarta, si chiamava Settimia: Orazio la volle chiamare così in quanto nata poche ore dopo che i fascisti di Lierna e di Poppi, durante la notte tra il 1 e 2 giugno del ‘23 avevano ucciso, massacrandolo di bastonate e finendolo con un colpo di pistola davanti ai figli e alla moglie, un suo amico, Settimio Moneti, un contadino socialista e «colpevole» inoltre del fatto che i suoi due fratelli il giorno precedente si erano ben difesi dall’assalto di una banda di camicie nere a Lierna durante la festa del Corpus Domini.
Orazio e Angiolino saranno invece assaliti a Poppi da un gruppo di fascisti locali durante la festa di Santorello, anche allora la più grande di tutto il Casentino, del 4 maggio 1924. Ma grazie alla loro corporatura riuscirono a darle piuttosto che a prenderle. Sapevano tuttavia che non sarebbe finita con quello scontro e che nelle notti seguenti sarebbe potuto accadere qualcosa di molto più grave.
Perciò Orazio fin da quella sera pensò di passare, come altre volte, le notti su una grande quercia vicina a casa e con il fucile a portata di mano.
Angiolo, invece, forse sentendosi protetto dal vivere dentro un borgo fitto di case, rimase dentro la sua che, la notte stessa, fu invasa da una squadraccia che lo riempì di legnate e di olio di ricino. Aspettarono infine che quest’ultimo facesse effetto per obbligarlo con forza poi a svuotare dentro il paiolo l’anima e il corpo davanti a sua moglie e ai suoi due bambini. Vale la pena di ricordare, anche per capire la profondità dell’umiliazione, che a quei tempi il paiolo nella tradizione rurale aveva una sua sacralità; era il simbolo stesso, insieme al camino, dell’identità e dell’autorità famigliare. Angiolo, dopo pochi giorni lascerà Lierna per andare in Francia, dichiarando che in Italia non avrebbe mai più messo piede, neanche da morto, e che appena trovata una sistemazione avrebbe scritto alla famiglia perché lo raggiungesse. Che infatti, non appena assunto in miniera, lo raggiunse; e lui, come promesso, non posò mai più il suo piede sul suolo italiano.
Orazio, dopo la definitiva presa del potere da parte del fascismo, smise naturalmente di fare politica attiva. Continuò a coltivare la terra in Pruneto educando le figlie e i figli all’onestà e a dare sempre un aiuto a chi ne avesse bisogno e, soprattutto, a chi fosse stato più sfortunato di loro. Ebbe il rispetto di tutti e non piegò mai la testa di fronte alle ripetute provocazioni, negli anni, dei fascisti del luogo. Si saprà solo alla fine della guerra che su richiesta del padrone della fattoria, lui e la sua famiglia nell’inverno del ‘43-44 avevano nascosto per mesi, due anziani ebrei fiorentini che avevano un figlio partigiano sul Pratomagno, al quale Abramo, il figlio minore di Orazio, portò molte volte i messaggi nascondendoli dentro le scarpe.
Fu in una sera di primavera che la bottegaia di Avena, un paese poco distante, andò trafelata ad avvertire il vecchio Lovari che i fascisti avevano scoperto tutto e che sarebbero arrivati prima di giorno con i tedeschi a rastrellare Pruneto e i boschi vicini. Lo aveva saputo origliando alla porta del retrobottega dove si riunivano di solito i tedeschi e i fascisti locali. Con un trasferimento notturno fatto di paura e di immensa fatica, gli anziani ebrei, con i loro bagagli, furono nascosti presso certi Chiarini alle Capannacce: una colonica e un essiccatoio nel profondo della foresta camaldolese. Per fortuna né durante la notte né al mattino i fascisti e i tedeschi si fecero vivi; e non si sarebbero visti neppure nelle settimane successive, probabilmente perché impegnati in altri rastrellamenti e in stragi, compresa in quei giorni quella terribile di Vallucciole, dove sarà sterminata anche gran parte della famiglia Trapani: quella della sorella di mio padre, Virginia, che in quel massacro perse il marito, il cognato e due figli poco più che ragazzi.
Orazio Lovari era invece il mio nonno materno. E ora che mi avvicino all’età in cui morì, sempre più spesso mi capita di riflettere sulla qualità di una buona parte del genere umano che sembra crescere come se tutto gli fosse dovuto. Anche per questo ho trovato giusto che Orazio, suo fratello Angiolino, le loro religiosissime donne e le loro famiglie non continuassero a sopravvivere soltanto nella mia memoria e in quella degli altri parenti rimasti. Sapere che vissero persone del genere malgrado tutto può aiutarci, come è stato per me, a non disperare degli uomini e a sentirsi senz’altro meno soli.
Valerio Vagnoli
“Corriere Fiorentino”, 26 gennaio 2020

sabato 18 gennaio 2020

CLASSISTA LA SCUOLA DI ROMA? EVITIAMO I POLVERONI


Come purtroppo spesso succede, la polemica sulle parole usate dall’Istituto comprensivo romano di via Trionfale nel presentare i suoi plessi scolastici sconta anche un deficit di corretta informazione da parte di molti media.
A ciascuna scuola viene richiesto che nel Rav (Rapporto di Autovalutazione di Istituto) la presentazione dell’istituto inizi illustrando il contesto sociale (o, come qui, i diversi contesti) in cui opera e che questo documento sia obbligatoriamente pubblicato sul proprio sito web. È una informazione che viene offerta ai genitori, ma anche ai nuovi docenti che, conoscendo le caratteristiche socio-economiche in cui opereranno, saranno più in grado — si spera — di esprimere una didattica consona alla situazione. Ciò non toglie purtroppo che vi siano delle scuole che per rassicurare le famiglie forniscano informazioni inopportune o che usino parole sconvenienti. Ma onestamente non sembra il caso del Trionfale.
 L’Istituto comprensivo Trionfale, frutto di un recente accorpamento di scuole, è composto da quattro plessi situati in due diversi Municipi (i nostri Quartieri). Come lo stesso Rav sottolinea, «l’ampiezza del territorio rende ragione della disomogeneità della tipologia dell’utenza, che appartiene a fasce socio-culturali assai diversificate». Questa premessa (che è stata trascurata) rende più chiaro il carattere diciamo sociologico del testo incriminato, in cui si dice che due sedi «accolgono alunni appartenenti a famiglie di ceto medio-alto», un’altra «accoglie alunni estrazione medio-bassa e conta il maggior numero di alunni con cittadinanza italiana», mentre la quarta «accoglie prevalentemente alunni appartenenti a famiglie dell’alta borghesia assieme ai figli dei lavoratori occupati presso queste famiglie». Ho letto e riletto la descrizione, ma onestamente è difficile condividere le ragioni di chi ha gridato allo scandalo. E c’é da chiedersi se tanti di quelli che hanno trovato il testo «classista», «orribile», «indecoroso» e per non farsi mancare nulla perfino fascista, l’abbiano davvero letto con attenzione.
Certo, forse si poteva aggiungere che la scuola dovrà tenere conto di quella composita estrazione socio-culturale e il senso di quella presentazione sarebbe stato più chiaro. Ma, onestamente, fossi stato un genitore del plesso «situato nel cuore del quartiere popolare di Monte Mario» non mi sarei sentito in nessun modo offeso di fronte a una descrizione corretta del quartiere. Mi sembra comunque che si possa escludere l’obbiettivo di indirizzare le iscrizioni e di favorire una selezione «di classe». Tra parentesi, come si farebbe, in quel caso, a «deportare» i bambini da una scuola vicina a una lontana?
A defraudarmi del diritto di essere a tutti gli effetti un cittadino al pari dei ricchi casomai sarebbe stato il dover iscrivere mio figlio in una scuola e in una sezione che non funzionano e pregiudicano la formazione di intere classi. Una delle tante che vedono ogni anno cambiare i docenti, che non dispongono di aule degne di questo nome e che garantiscono solo a parole, come talvolta accade, un’offerta formativa da sogno, lontanissima dal confermare quanto promette. Una scuola realmente inclusiva non è quella che finge nel descrivere il contesto socio-culturale in cui si trova, ma è quella che garantisce a tutti i suoi studenti e alle loro famiglie il raggiungimento degli stessi obiettivi educativi e culturali.
Valerio Vagnoli
“Corriere Fiorentino”, 19 gennaio 2020

venerdì 3 gennaio 2020

L’EDUCAZIONE FINANZIARIA? MEGLIO UN SALVADANAIO VECCHIO STAMPO (Ovvero: la scuola non può fare tutto)


Gli italiani, è risaputo, sono tra i più parsimoniosi risparmiatori del mondo, tanto che all’enorme debito pubblico fa riscontro uno straordinario tesoro privato, a cui si accompagna una percentuale di famiglie proprietarie della loro casa che non ha eguali nel mondo. E questo malgrado diverse banche ce l’abbiano messa tutta per disincentivare il risparmio privato, facendo evaporare soldi messi da parte con l’onesto lavoro e i sacrifici di intere generazioni.
Il ripetersi di questi drammi è probabilmente il motivo che ha spinto il Parlamento e il Governo a fare qualcosa per rendere più accorti i futuri risparmiatori. Dovranno farsene carico le scuole di ogni ordine e grado: dal prossimo anno ai già tanti argomenti che andranno a comporre la risorgente educazione civica si aggiungerà anche l’educazione finanziaria. 
Alcuni istituti già da tempo si sono cimentati, grazie alla disponibilità di associazioni del settore, con attività mirate a formare i ragazzi in questa prospettiva. Purtroppo i dirigenti scolastici hanno dovuto chiudere nel giro di pochi anni questi percorsi, a causa della noia terribile che spesso avvolgeva le classi di fronte agli esperti del settore. Persone, intendiamoci, preparate nel merito e anche nella trasmissione dei loro saperi, che però si rivolgevano probabilmente al pubblico sbagliato.
Non sarebbe semmai stato più logico farli parlare con le famiglie dei ragazzi? Con gli adulti, infatti, l’informazione su questo tema si può incontrare con un’esigenza attuale e con l’opportunità, per così dire, di tradurla in esperienza pratica. Aveva a che fare con un più vivo interesse diretto la tradizione che i nonni e gli stessi genitori regalassero ai bambini, non appena questi iniziavano a saper “fare di conto”, un salvadanaio in cui via via accumulare un po’ di monete. Questo li abituava a risparmiare e a misurare con attenzione quali fossero le loro priorità una volta aperta la loro piccola cassaforte. Era un avviamento a scegliere gli “investimenti” più soddisfacenti e duraturi.  
Con queste considerazioni siamo entrati nel cuore di un problema non nuovo, ma che il ceto politico, insieme a tutti i funzionari e i consulenti di cui si serve, sembra tranquillamente ignorare. Che è questo: di quante esigenze della società può farsi carico la scuola?
Secondo buon senso solo delle più basilari; secondo molti politici, pedagogisti e rappresentanti di questa o quella categoria, di tutte quelle che una ricerca o qualche episodio mettono via via in primo piano. Aumentano i bambini obesi? Non ci deve pensare il pediatra, ma la scuola con l’educazione alimentare. Il futuro dei giovani è incerto? La scuola coltivi lo spirito di iniziativa e l’imprenditorialità. C’è il dramma della violenza sulle donne? Lo si affronterà con l’educazione alla parità di genere. Per lottare contro mafia, camorra e ’ndrangheta ecco l’educazione alla legalità, che simbolicamente culmina ogni anno con il viaggio da Civitavecchia a Palermo della “Nave della legalità” con a bordo 1500 studenti (spesa dichiarata: 140mila euro). Un elenco certamente incompleto comprende anche l’educazione affettiva, l’educazione alla pace, alla sostenibilità, alla memoria, alla cittadinanza mondiale e a quella digitale (qualsiasi cosa voglia dire), l’educazione al volontariato, alla salute e al benessere, alla tutela delle eccellenze agroalimentari, più una formazione di base in materia di protezione civile e di primo soccorso…
Che dire di questo delirio di onnipotenza che si cerca di inoculare nella scuola? Di certo fa riflettere la radicale svalutazione, in questo cumulo di “educazioni”, della vecchia “buona educazione”, che è poi l’indispensabile base comune di molte di esse. Da decenni la scuola ha cominciato a vergognarsi di esigere un comportamento corretto, a considerare la “disciplina” come un arnese del passato invece che come la cornice irrinunciabile dell’apprendimento, a sconsigliare le sanzioni per incoraggiare il “dialogo” sempre e comunque. Si è arrivati spesso a transigere anche su insulti, violenze, occupazioni, bullismo;  per non parlare di quella micro-maleducazione endemica che fa perdere tempo ed energie agli insegnanti, tra i quali lo stress professionale galoppa indisturbato.
Un secondo tipo di svalutazione riguarda le materie scolastiche, che dovrebbero costituire il compendio del nostro patrimonio culturale da trasmettere alle nuove generazioni. Senza più programmi prescrittivi, si tende a perdere il senso di ciò che è importante e di ciò che è secondario nell’insegnamento. E non essendo l’orario estensibile all’infinito, la conseguenza dell’aggiunta di nuove materie  non può che risolversi in un danno per le discipline fondamentali.
Infine, non si era detto e ripetuto negli scorsi decenni che la scuola non poteva più essere l’unica “agenzia formativa” e che c’erano tanti altri modi e canali di apprendimento? E allora perché sovraccaricarla sconsideratamente di tutte le vere o immaginarie necessità educative?
Giorgio Ragazzini
“ilSussidiario.net”, 3 gennaio 2020