Suona la campanella;
scopa, scopa la bidella;
viene il bidello ad aprire il portone;
viene il maestro dalla stazione;
viene la mamma, o scolaretto,
a tirarti giù dal letto…
Viene il sole nella stanza:
su, è finita la vacanza.
Metti la penna nell’astuccio,
l’assorbente nel quadernuccio,
fa la punta alla matita
e corri a scrivere la tua vita.
Scrivi bene, senza fretta
ogni giorno una paginetta.
Scrivi parole diritte e chiare:
amore, lottare, lavorare.
Gianni
Rodari, Il primo giorno di scuola
Tra le priorità programmatiche del governo Draghi c’era l’esigenza di
tornare prima possibile alla normalità nella scuola: in termini di orari, di
programmi, di esami, ma soprattutto di presenza di allievi e docenti in carne e
ossa nelle classi, visti i pessimi risultati della didattica a distanza, confermati
tra l’altro dai recenti dati dell’Invalsi.
Sarà possibile iniziare un regolare anno scolastico come negli anni
pre-Covid, grazie a un alto numero di vaccinati tra i docenti, l’introduzione
del Green Pass, le fasce d’ingresso diversificate e le mascherine per gli
allievi. Resta il problema della sicurezza dei trasporti pubblici per gli
studenti pendolari e delle presenza ancora in alcune regioni di scuole con
classi numerose.
Il dibattito e le polemiche degli ultimi mesi sul rientro in sicurezza
nelle aule e sul ritorno alla normalità della scuole hanno però nascosto i problemi
che da lungo tempo caratterizzano l’istruzione in Italia. La scarsa preparazione
dei nostri giovani non è dovuta solo a questi due anni di lockdown e di didattica
a distanza. Nasce molto prima, da quando i fondamenti del fare scuola sono
venuti meno, a partire dagli anni ’60, con il proposito
delle classi dirigenti di allora, in sé corretto, di cancellare le chiusure e i
privilegi classisti di cui era imbevuto l’ordinamento scolastico tradizionale.
Ideologicamente, però, si è pensato che il classismo della scuola consistesse
essenzialmente nei suoi contenuti e nei relativi modi di insegnamento e di
apprendimento. Cioè nella cosiddetta cultura «borghese» e nel «nozionismo»; e
dunque che, modificati o aboliti l’una e l’altro, cancellati il latino, il
riassunto e le poesie «a memoria», sarebbe stata possibile un’istruzione
finalmente per tutti. Da qui progressivamente sono stati intaccati i contenuti
epistemologici di ogni disciplina, anche per la ricerca di una trasversalità
tra i diversi insegnamenti, al punto che alcune materie come l’italiano e la
storia, fondamentali per la formazione di una cittadinanza consapevole e della
coscienza nazionale, rischiano di non essere più patrimonio comune del nostro
Paese.
Inoltre, il tentativo dei politici e dei pedagogisti di quegli
anni di rinnovare il tradizionale modello di istruzione con il fine democratico
di annullare gli svantaggi di partenza di molti allievi ha portato di fatto a
una scuola programmaticamente, ma anche illusoriamente, «inclusiva» con la
proclamazione del “diritto al
successo formativo”. Con l’inevitabile conseguenza di addossare alla sola
scuola il conseguimento di questo successo e di far sparire il tema della
volontà e dell’impegno da parte degli allievi. Si è proceduto inoltre a un
graduale appiattimento dei corsi di studi, invece di dare il giusto valore alla
diversità e alla ricchezza dei diversi percorsi scolastici, tanto che si è
potuto imputare alla classe politica la “licealizzazione” degli istituti
tecnici e professionali. Ancora nella linea di un’ illusoria “inclusione”, si è
soprattutto delegittimata qualsiasi forma di selezione insieme ai suoi strumenti
di valutazione del merito, al contrario di quanto chiede l’art. 34 della nostra
Costituzione (I
capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i
gradi più alti degli studi.)
Infine le istituzioni scolastiche, con la loro politica
permissiva, hanno pervicacemente cercato il consenso dei genitori e degli
studenti, dando molto più peso ai loro diritti che alle loro responsabilità,
non imponendo le giuste regole dello stare a scuola e pregiudicando
l’autorevolezza del corpo insegnante nello svolgimento del suo compito.
Nel lungo processo storico della formazione dello Stato italiano
la classe politica risorgimentale e gli uomini di cultura, che fossero o no
ministri della Pubblica Istruzione, da De Sanctis a Villari, da Croce a
Gentile, da Salvemini a Gobetti hanno visto la scuola non in maniera ideologica
o come terreno di avventurose sperimentazioni pedagogistiche, ma come spazio
reale di emancipazione culturale e democratica e di formazione di un’autentica
coscienza nazionale.
La scuola deve giustamente stare al passo con i tempi e
accettare le sfide della modernità, senza però perdere il rigore culturale e i
veri fini educativi insiti nel suo Dna, altrimenti si accentuerà ancora lo
smarrimento delle nuove generazioni, già provate da due anni di pandemia e di
confinamenti, con il rischio che i continui richiami di Draghi e di Mattarella alle
responsabilità e ai doveri civici dei cittadini cadano nel vuoto soprattutto
per chi è più fragile per età e per formazione.